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28 Luglio 2015Troppo mais e troppa religione distrussero la civiltà maya?
Un esempio caratteristico della colossale arroganza intellettuale sottesa a questa maniera di impostare una questione scientifica o storiografica, è rappresentato dall’articolo di Franco Capone «La patria segreta dei Maya», apparso su «Focus», una rivista specializzata in questo tipo di schematismo ideologico, a base ultra-scientista e radicalmente immanentista, di cui riportiamo i passaggi conclusivi (Milano, n. 145 del novembre 2004, p. 210):
«I Maya svilupparono l’agricoltura in un ambiente all’inizio favorevole, disboscando la foresta per fare spazio alle coltivazioni. Crearono terrazzamenti per consentire al’acqua di fermarsi e di non erodere il suolo. Ma un forte incremento demografico li portò a sfruttare sempre più terre e in maniera sempre più intensa, finché queste s’impoverirono.
La difficoltà dei trasporti (non conoscevano né ruota né animali da soma) permetteva di utilizzare prodotti coltivabili solo a pochi giorni di cammino dalle città. La scelta di effettuare la monocoltura del mais (l’umanità stessa era immaginata come la piantagione di mais degli dèi) era un rischio, paragonabile al ruolo centrale del petrolio nell’economia di oggi.
Allo sfruttamento indiscriminato di acqua e suolo, la classe dominante non contrappose rimedi pratici e decisioni centralizzate, ma soltanto superstizioni e riti, innocui finché la situazione ecologica era ancora favorevole.
Ma quando siccità, cicloni, carestie e malattie diventarono frequenti e inesorabili, la fiducia nei capi finì: si ebbero rivolte popolari in molte città, che diventarono ingestibili e alla fine furono abbandonate. E così il caos e la distruzione tornarono a manifestarsi dalla notte dei tempi. Con buona pace degli astrologi.»
Questo brano di prosa è un piccolo capolavoro di ideologia progressista laica e "illuminata": quel che serve, per il benessere dell’umanità, sono riforme pratiche e decisioni centralizzate; il resto, e specialmente la religione, non è che "superstizione": perfettamente inutile, ma innocua, finché le cose vanno bene; dannosa e deleteria,e dunque meritevole di essere sradicata senza pietà, qualora le cose dovessero cominciare ad andar male.
Il fatto che la religione possa essere – indipendentemente dal fatto di condividere la fede nel mistero del soprannaturale – un fondamentale collante sociale, e che tale sia stato in effetti, il che è storicamente documentabile e dimostrabile, a questi signori non passa neanche per la testa: hanno letto da qualche parte che la religione è l’oppio dei popoli, inventata da una genia di perfidi preti decisi a sfruttare la credulità delle masse; e, con la totale assenza di spirito critico che li contraddistingue, hanno fatto propria una simile teoria, trasformandola in un articolo di fede che non si prendono la briga di citare ogni volta, ma che danno per scontato e per dimostrato, come un dogma sotteso ad ogni ragionamento sulla società.
È vero che, confrontando la monocoltura del mais praticata dai Maya con il ruolo determinante svolto dal petrolio nell’economia contemporanea, si viene a sfiorare il tema scabroso della scarsa razionalità del mondo moderno, che pure ha imparato a relegare tra le favole e, appunto, tra le superstizioni, il bisogno religioso presente nell’uomo, per affidarsi unicamente alla stella polare del Logos strumentale e calcolante, com’era e com’è nei fervidi voti dei positivisti di ieri e di oggi; ma, a quanto pare, gli araldi del razionalismo scientista neppure si rendono conto dell’autogol ideologico, e vanno avanti tranquillamente per la loro strada.
La civiltà dei Maya, essi dicono, venne distrutta dalla coltura intensiva del mais e dalla "troppa religione" (espressione testuale adoperata nell’articolo): tale è il dogma di fede da cui non si può prescindere, se non si vuole ricadere in quella "superstizione" che – essi dicono e ripetono, senza affaticarsi molto a cercare di dimostrarlo – già tanti danni ha prodotto in passato. C’è, nelle loro parole, addirittura un’eco della famosa conclusione della monumentale opera di Edward Gibbon, storico inglese dell’Illuminismo, «The Decline and Fall of the Roman Empire»: «Ho descritto il trionfo della barbarie e della religione», con una esplicita allusione anticristiana che piacque molto ai vari Diderot e Voltaire.
Oggi il discorso di Franco Capone va assai di moda; è un argomento, quello della stretta connessione fra religione e devastazione ecologica, che piace, perché consente di mettere tutte le religioni sul banco degli accusati, ma specialmente il cristianesimo, visto come il concentrato di quella attitudine arrogante, scriteriata, antropocentrica, che spinge gli uomini a comportarsi come se il nostro pianeta fosse stato regalato loro da Dio in persona, affinché ne facciano tutto quel che vogliono, preferibilmente inquinandolo, sfruttandolo senza alcun limite, impoverendolo delle sue ricchezze naturali, a cominciare dall’acqua e dalle foreste.
È la stessa musica che abbiamo già sentito parecchie volte a proposito dell’isola di Pasqua, nel Pacifico sud-orientale: se i Pasquensi non si fossero messi in capo di costruire centinaia e centinaia di "moai", le gigantesche ed enigmatiche statue antropomorfe, per il cui trasporto dalle cave di tufo, situate nei coni vulcanici spenti dell’interno, alle zone costiere, ove furono eretti, erano necessari moltissimi tronchi d’albero da utilizzare come rulli di scorrimento, le splendide foreste tropicali dell’isola non sarebbero state distrutte, l’isola stessa non si sarebbe tragicamente impoverita e, probabilmente, non sarebbero scoppiate le feroci, continue guerre intestine che culminarono nei massacri, nel cannibalismo e nel crollo completo di quella piccola, interessantissima civiltà isolana della più remota Polinesia.
La religione, dunque, fa male, non solo alla facoltà razionale dell’uomo, ma anche al puro e semplice equilibri ecologico della Terra, e, quindi, alle possibilità di sopravvivenza future dell’umanità, in un mondo sempre più sovrappopolato, sempre più inquinato, e, pertanto, sempre più bisognoso di rispetto, attenzione e benevolenza verso la natura, da parte dei singoli uomini e delle società? La religione è ormai diventata, sotto questo profilo, un lusso che non possiamo più permetterci di soddisfare, come lo è il fatto che, ogni giorno, negli Stati Uniti si stampino 1 milione e 250m mila copie del «New York Times», o come lo sarebbe la "pretesa", da parte di 1 miliardo e 350 milioni di abitanti della Cina, di seguire l’uso occidentale nell’espletare le funzioni corporee, ricorrendo alla pulizia del sedere per mezzo di un certo numero di foglietti di carta igienica, anziché, semplicemente, risciacquandosi con l’acqua corrente?
Secondo i nostri cervelloni scientisti e utilitaristi, il valore delle cose si misura esclusivamente in base a quel che rendono o al danno materiale che possono provocare; e le cose spirituali, in particolare, godono di una certa tolleranza, beninteso venata d’ironia, a patto che siano relegate in posizione tale da non entrare in rotta di collisione con il benessere materiale. Sia chiaro: non stiamo dicendo che i Pasquensi fecero bene a distruggere le loro foreste, o che i Maya furono intelligenti a puntare tutto sulla monocultura del mais a base religiosa; niente affatto: stiamo solo dicendo che, se la stupidità dei moderni di aver puntato tutto sul petrolio (quando esistevano, ed esistono, le fonti d’energia alternative, non inquinanti e pressoché inesauribili) è, veramente, senza attenuanti, quella dei popoli antichi, di aver puntato su uno sfruttamento eccessivo del suolo e della vegetazione, specialmente se partiva da presupposti religiosi, merita un certo qual rispetto, perché non mirava a far arricchire poche multinazionali e a solleticare i consumi privati incentivando l’egoismo del singolo, ma partiva, comunque, da una nobile concezione dell’universo, e aveva lo scopo, semmai, di assicurare il benessere collettivo, innanzitutto sul piano interiore, e poi, di riflesso, anche nella dimensione pratica dell’esistenza materiale. C’è una bella differenza fra lo sbagliare per egoismo capriccioso e sbagliare per difetto di realismo, ma con sagge intenzioni.
Ciò detto, bisogna poi scendere nello specifico e vedere di che religione si tratta. Non tutte le religioni giacciono sullo stesso piano di verità; ve ne sono alcune che, per il contenuto di violenza e di superstizione che contengono, sembrano degradare, piuttosto che innalzare il livello della spiritualità e dell’etica: e tali sono quelle basate sui sacrifici umani, quale componente fondamentale dei loro riti (la religione dei Maya, come pure quella degli Aztechi, era fra queste); altre che, per l’incitamento all’odio verso i membri di tutte le altre religioni, per la crudeltà e l’intolleranza di cui sono intessute in maniera essenziale (e non in maniera accidentale, come una sovrastruttura che, per ragioni storiche e contingenti, può, talvolta, aprirsi un varco e quasi prendere il sopravvento), costituiscono una minaccia permanente alla pace fra i popoli e le nazioni.
La cultura scientista e immanentista oggi dominante non distingue fra l’una e l’altra religione, perché, per essa, dire "religione" equivale, come per Voltaire, a dire "superstizione". I suoi araldi non lo dichiarano apertamente, tranne qualche caso (come Piergiorgio Odifreddi), però il loro vero obiettivo è colpire il cristianesimo, e, più specificamente, il cattolicesimo. Figuriamoci se a costoro importa qualcosa della religione degli antichi Maya, in sé e per sé, o magari quella degli abitanti dell’isola di Pasqua; no: quella che vogliono colpire, è la religione cattolica. Tuttavia, preferiscono non attaccarlo frontalmente: la cosa sarebbe inelegante e potrebbe comportare pur sempre qualche inconveniente, qualche sgradito effetto collaterale; perché, con buona pace dei profeti della morte del cristianesimo, il cristianesimo è ancora più vivo di quel che nessuno si sarebbe azzardato a pronosticare cento anni fa. I suoi aspiranti becchini masticano amaro: sono lì, con le pale in mano, in attesa che il moribondo si decida a passare a miglior vita; però il tempo passa, e l’attesa rischia di farsi lunga, lunghissima: al punto che rischiano di morire loro, di vecchiaia, prima di aver avuto la soddisfazione di poterlo seppellire.
Ora, se essi riescono a far passare il paradigma moderno, secondo il quale la religione è, per definizione, una forma inferiore della vita dello spirito, e un qualcosa di indegno di una persona intelligente, civile e responsabile (come riteneva Freud, e come ritengono, con lui, tutti i suoi odierni seguaci e sacerdoti), ebbene il loro obiettivo sarà stato comunque raggiunto: il cristianesimo sarà stato screditato automaticamente. Non vi sarà più bisogno di attacchi frontali, di spiacevoli e imbarazzanti polemiche. Ormai soltanto gli anticristiani più ottusi e meno intelligenti insistono con il processo di Galilei, anche perché si sono accorti che simili argomenti rischiano di trasformarsi in altrettanti boomerang: rischiano di far emergere una verità storica molto, troppo diversa da quella che la vulgata laicista e radicale aveva tentato di accreditare in via definitiva. Molto meglio restare sul vago, allora, e dare per scontato, senza prendersi la briga di dimostrarlo, che tutte le religioni, indipendentemente dal loro valore morale e dal loro eventuale contenuto di verità, sono una forma di alienazione: una dispersione di risorse, uno spreco di energie, che una società ricca e prospera può anche permettersi, ma che, in tempi di magra, bisogna assolutamente tagliare, così come l’amministrazione ferroviaria taglia, per ragioni di bilancio, i "rami secchi": le tratte secondarie che non producono reddito, perché trasportano poche merci e pochi viaggiatori.
Parliamoci chiaro: la posta in gioco non è la credenza in Dio, ma l’idea dell’uomo che l’uomo vuole elaborare e in cui vuole specchiarsi. Suggerire al pubblico che le religioni, nel migliore dei casi, rappresentano delle credenze inutili e superstiziose, mentre, nel peggiore, sono dei veri e propri fattori involutivi, delle bombe a orologeria che finiranno per esplodere, trascinando nel disastro la società da esse parassitata, implica un’idea dell’homo tecnologicus, moderno ed emancipato, che non crede ad alcun dio tranne la Scienza; che non ha necessità spirituali nel senso specifico del termine, ma solo curiosità intellettuali o bisogni fisiologici da soddisfare; che non riconosce alcun criterio morale e alcuna regola di vita sociale, tranne quelle stabilite per via scientifica, in senso utilitarista: ciò che è utile va approvato, ciò che non lo è va eliminato. Né vanno eliminate solo le credenze inutili, ma anche le cose e le persone inutili; e chi sia utile, oppure inutile, lo decideranno il pragmatismo scientista e l’utilitarismo edonista.
Del testo, non occorre immaginare il futuro: basta guardare il presente, per vedere che le cose stanno già così. Aborto ed eutanasia, manipolazione genetica e clonazione sono solo alcune delle pratiche che si stanno instaurando silenziosamente, con la tacita approvazione della nostra società…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di micheile henderson su Unsplash