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Tutti lo sanno, tutti lo vedono, ma quasi nessuno ne parla.
Non è politicamente corretto: sa di reazionario; e poi, si dice, vi sono ben altri problemi nella nostra società, più seri e più importanti, da affrontare per primi.
Nossignori: non è vero. Nessuno può pensare di por mano ai grandi problemi, se prima non si è confrontato con i piccoli. Piccoli, ma quotidiani; piccoli, ma innumerevoli; piccoli, ma, sommati, creano l’atmosfera pesante in cui ci troviamo a vivere, giorno dopo giorno.
Avete mai incrociato una scolaresca che vi viene incontro per la strada, lungo il marciapiede? Ragazzi grandi, diciamo ragazzi di liceo: e con tanto di professori che li accompagnano. Pensate che vi cederanno il passo? Che si scosteranno davanti a una persona più grande, a una persona anziana? Ma nemmeno per sogno: vi urteranno in pieno, senza neanche farci caso.
Sono in tanti, loro; e poi sono giovani: e i giovani, si sa, hanno tutti i diritti da far valere e nessun dovere da rispettare.
Oppure al cinema: con il ragazzo che vi siede dietro che si stravacca sulla poltroncina e batte il vostro schienale con le ginocchia, senza alcun riguardo. Avete provato ad alzarvi e a chiedergli di smetterla? Dieci a uno che vi guarderà stupito, senza neanche comprendere la ragione delle vostre rimostranze.
In treno, sull’autobus, nella metropolitana, ovunque le stesse scene: nessun riguardo per le persone di una certa età; largo ai giovani.
Ora siete sul posto di lavoro, state discutendo pacatamente di qualcosa. Quand’ecco un collega alza la voce, vi provoca, vi offende; voi prendete le difese di tutti, vi battete per ristabilire un clima di rispetto e di civile convivenza; ma nessun vi ricambierà la cortesia. Vi lasceranno solo, a sbrigarvela con l’energumeno.
Quanti piccoli borghesi frustrati scaricano la loro rabbia e la loro impotenza sul prossimo; non hanno altro da fare nella vita, se non prendersela con chi va dritto per la sua strada e non li gratifica nel loro piccolo desiderio di protagonismo. Si credono importanti, non perché pensano davvero di valere qualcosa, ma perché non hanno pudore e non sanno cosa sia la vergogna: per questo alzano la voce, sostenuti dal silenzio e dall’acquiescenza dei pavidi.
Forse, quel piccolo individuo frustrato è un genitore, un insegnante: e che educazione volete che trasmetta ai suoi figli, ai suoi alunni; che esempio di civiltà e di responsabilità volete che dia. Tanto, la sua posizione o il suo stipendio sono assicurati: può fare quel che vuole, purché sia abbastanza furbo da non oltrepassare certi limiti. Non importa se parla sistematicamente in modo scoveniente, infarcendo il discorso di continue parolacce; se si abbandona a cattivi esempi o a discutibili confidenze private; non importa se impone la sua opinione ad ogni pie’ sospinto, invece di favorire il senso critico dei giovani. Evidentemente, non ha altre occasioni per sentirsi qualcuno, per sentirsi grande.
C’è una barbarie diffusa, nei rapporti sociali, al livello dei micro-comportamenti, che poi giunge alle forme più gravi del cinismo, della disonestà, della manipolazione altrui. Nessuno domanda più: «per piacere», nessuno sa più dire: «grazie».
In compenso, questi nuovi barbari sono quasi sempre esperti di informatica e di ogni altra forma di tecnologia d’uso quotidiano: guidano l’automobile adoperando il telefonino cellulare, siedono a tavola e imperversano sui minuscoli tasti del medesimo, tutti intenti a mandare decine, centinaia di messaggini quotidiani.
Per comunicare cosa, per parlare di che, poi? Dell’ultima puntata del «Grande Fratello» o di «Amici» di Maria De Filippi?
Del resto, l’esempio della volgarità e della cialtroneria viene sempre più dai personaggi televisivi, anche da quelli che, in teoria, dovrebbero fornire un modello positivo al comune cittadino: amministratori, politici, giornalisti, intellettuali o sedicenti tali, gente di spettacolo, perfino sportivi. Chi non ricorda la testata in pieno petto a Materazzi da parte di Zidane, nel Campionato mondiale di calcio perso dalla Francia contro l’Italia?
Ecco, lo scandalo non fu tanto nel fatto in se stesso; e nemmeno nell’assurdo provvedimento dell’autorità calcistica competente, che mise più o meno sullo stesso piano l’aggredito e l’aggressore (e la cosa avrebbe potuto anche finir male: qualcuno poteva lasciarci la pelle). No: la cosa più grave fu l’invito a cena della squadra francese da parte del Presidente della Repubblica transalpina, con tanti brindisi e complimenti, ma senza una parola di biasimo per il gesto di quel calciatore.
Il cattivo esempio, per milioni di persone in tutto il mondo, e specialmente per i giovani, è stato devastante. Dunque, la violenza e l’inciviltà pagano; dunque, va bene così: le persone oneste e rispettose sono avvertite.
Ma non è forse vero che lo vediamo tutti i giorni, nelle cosiddette aule di giustizia? Non è forse vero che i responsabili di gravi reati trovano sempre il modo di cavarsela a buon mercato, primi fra tutti quei numerosi deputati e senatori che hanno seduto per intere legislature sui banchi del Parlamento – massimo organo della nostra democrazia – ad onta dei procedimenti penali intentati loro a vario titolo, ma il più delle volte per reati di tipo finanziario?
E non è forse vero che, grazie alla sistematica campagna di disinformazione portata avanti, da anni, per mezzo di uno stuolo di scribacchini prezzolati, su dei fogliacci che non meriterebbero neanche il nome di giornali, da tanto trasudano faziosità e servilismo, l’opinione pubblica è stata quasi convinta che, fra il giudice che persegue il mariolo e il mariolo che infrange la legge, quello da biasimare è il primo e non il secondo?
Del resto, non abbiamo visto un Presidente del Consiglio definire matto chi vuole intraprendere la carriera di magistrato, toccandosi la tempia con l’indice, in segno di dileggio e derisione? Alla faccia di Falcone, Borsellino e tanti altri meno famosi, ma non meno coraggiosi, che sono morti per far valere il rispetto della legalità, nelle condizioni più difficili e ingrate.
Intanto, il barbaro avanza.
Avanza ovunque, perfino nei bar, sedendo ore ed ore davanti ai demenziali videogiochi; e non sempre è un giovane, no: spesso è un adulto o perfino un anziano. Spariscono le osterie, non si gioca più alle carte nei locali: ci si dedica ai videogiochi, con il massimo impegno e con gran dispendio di denaro ed energie; o, addirittura, si naviga su Internet; come se non lo si facesse già abbastanza a casa o in ufficio.
Non si parla più, non ci si confronta più; e, se si parla, si parla di realtà virtuali, non di realtà effettive: dell’ultimo vincitore all’«Isola dei famosi» o del seno rifatto dell’ultima belloccia di Sanremo; e, naturalmente, dell’ultimo modello di automobile sportiva. Si sprofonda nello squallore, senza un’ombra di rimorso o di ravvedimento.
I ragazzi, per la strada, sembrano tanti militari in libera uscita (quelli della mia generazione li ricordano bene): tutti vestiti uguale, ma, s’intende, fino al prossimo cambio della moda: cioè fino ai prossimi due o tre mesi. Mamma e papà aprono il portafoglio senza posa: ma certo, poverino (o poverina), non vorremo mica mandarlo in giro con i jeans o col giubbotto dello scorso anno? Ci sarà anche la crisi, ma non siamo ridotti come gli Albanesi, se Dio vuole.
I bambini ci guardano, silenziosi: guardano e imparano. Imparano tutti questi cattivi esempi, questa filosofia del fare licito tutto ciò ch’è libito, come diceva Dante.
Ah, ma stiamo pur tranquilli: la situazione è sotto controllo.
Un esercito di esperti studia i dati, costruisce grafici, redige statistiche, promuove sondaggi, immagazzina documenti. Il problema educativo viene affrontato come fosse un problema aziendale; l’emergenza morale, come fosse una questione di bilancio.
Tra poco (molte scuole già lo fanno), i voti e le assenze degli studenti verranno comunicati alle loro famiglie quotidianamente, via Internet. Che bello, sarà il trionfo della comunicazione, della comunicazione vera: tute le informazioni utili passeranno in tempo reale, dal mittente al destinatario. E poi dicono che Internet non serve.
Anche gli stranieri ci osservano (gli stranieri immigrato, vogliamo dire): guardano e imparano. Hanno già tirato le loro conclusioni: che l’Italia è il paese dei diritti senza mai doveri; dove puoi fare quel che vuoi, purché tu sia abbastanza furbo o abbastanza sfacciato o abbastanza aggressivo; se sai alzar la voce e battere i pugni sul tavolo.
L’altro giorno, al supermercato, un marocchino, giunto alla cassa, si è ricordato di aver dimenticato di mettere una cosa nel carrello, ed è tornato indietro a prenderla. La cassiera, prolungandosi l’attesa, ha invitato la signora che veniva dopo a farsi avanti con la propria spesa. In quel momento è ritornato il marocchino ed ha incominciato ad inveire contro la signora esterrefatta, chiamandola razzista e sostenendo di aver subito un oltraggio a motivo del colore della pelle. Nessuno dei clienti ha preso le difese della poveretta; la cassiera l’ha consigliata di andare per le perse; e lei, mortificata e confusa, si è ritirata in buon ordine: ma aveva le lacrime agli occhi.
L’amico che mi ha raccontato il fatto, e che ha lavorato molti anni in Germania, ha osservato che un fatto del genere, in quel Paese, avrebbe preso una ben diversa piega; qualcuno avrebbe chiamato la polizia, e al marocchino (là gli immigrati sono denominati ufficialmente «lavoratori ospiti») sarebbe stato chiesto di render conto di quel comportamento aggressivo. Ma anche i presenti sarebbero intervenuti: gli avrebbero chiesto perché inveiva contro una signora.
Da noi, una cosa del genere sarebbe stata giudicata «razzista». Abbiamo un tale complesso di colpa (ingiustificato, oltretutto) quando si tocca questo argomento, che ci lasceremmo prendere a calci piuttosto che reagire, per non fare la figura dei razzisti.
Strano destino: l’Italia ha avuto una legislazione razzista per circa cinque anni: dal 1937, dopo la conquista dell’Etiopia, al 1943, con la caduta del fascismo. Durante quel breve periodo sono stati innumerevoli gli episodi di solidarietà con le razze perseguitate, come è provato dai circa 29.000 Ebrei salvati dalla deportazione in Germania, mediante la clandestinità, dall’azione coraggiosa di tante famiglie italiane). Lo storico Renzo De Felice ha ricordato che, in Croazia, un reparto dell’esercito giunse a simulare una azione di guerra, con tanto di carri armati, per sottrarre un gruppo di Ebrei all’imminente rastrellamento da parte delle forze ustascia di Ante Pavelic; ed episodi del genere furono tutt’altro che infrequenti in tutte le zone occupate dalle nostre forze armate: dalla Francia meridionale, alla Slovenia, alla Dalmazia, al Montenegro, alla Grecia.
In ogni caso, la psicologia del nostro popolo sta scontando quei cinque anni di legislazione razzista con oltre sessant’anni di senso di colpa: un senso di colpa che ancora ci condiziona e ci induce a dar sempre e comunque ragione allo straniero, anche quando infrange le regole più elementari del vivere civile, tanta è la paura di sembrare razzisti.
Per quanto ancora dovremo portarci sulle spalle questo immeritato marchio d’infamia? Non stiamo forse andando verso un razzismo alla rovescia, per cui noi ci sentiamo sempre in torto e sempre in colpa, anche quando abbiamo ragione da vendere, e i nostri diritti vengono violati in modo palese?
Certo, quando accadono dei fatti di discriminazione o, peggio, di violenza, essi vanno censurati e severamente condannati: ma perché vanno censurati e condannati sempre, sia che colpiscano un nostro connazionale, sia che colpiscano uno straniero.
Altrimenti, l’eccessiva arrendevolezza verso i comportamenti scorretti degli immigrati può davvero esasperare la popolazione e alimentare una spirale razzista che, in origine, non esisteva, ma che potrebbe nascere, per reazione, dalla colpevole indulgenza delle pubbliche autorità.
Infine, è vero che si raccoglie quel che si semina: e ciò vale a ogni livello dell’azione educativa, che sia intenzionale oppure no. Dovremmo rifletterci un po’ sopra, tutti quanti, prima che sia tardi.
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