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2 Luglio 2007INTRODUZIONE.
Ci proponiamo di esporre il contenuto e di svolgere alcune riflessioni sull’opera di Antonio Rosmini Serbati (Rovereto, 27 Marzo 1797-Stresa, 1° luglio 1855) Nuovo saggio sull’origine delle idee, pubblicato a Roma, senza nome, nel 1830. In realtà, egli aveva iniziato la composizione dell’opera diversi anni prima, durante il soggiorno milanese, dopo aver pubblicato i tre libri Della educazione cristiana e i due volumi degli Opuscoli filosofici e dopo aver rifiutato un’alta carica ecclesiastica che Pio VII gli aveva offerto durante il suo soggiorno romano. Benché si tratti di una delle prime opere importanti del Nostro, il Nuovo saggio sull’origine delle idee costituisce un momento fondamentale della speculazione del pensatore roveretano, come è testimoniato dal fatto che l’opera ebbe, in breve volger di tempo, ben cinque successive edizioni. Esso si colloca fra gli Opuscoli filosofici del 1827-28 ed i Principi della scienza morale del 1831 ed è incentrato su quel problema gnoseologico che, collegandosi direttamente al problema ontologico, occupa il posto centrale nella filosofia del Nostro.
Come scrive efficacemente Sergio Moravia, infatti,
"Il pensiero di Rosmini rappresenta nella cultura filosofica del Risorgimento lo sforzo più organico per attuare una saldatura tra la tradizione plastonico-agostiniana e la filosofia moderna lockiana e kantiana. L’orientamento ontologico si presenta infatti, da un lato, come un superamento delle aporie della filosofia critica di Kant, e, dall’altro, come la ripresa della teoria dell’illuminazione che risale, attraverso il Medioevo, fino a Platone.(…)
"Gli elementi di fondo del pensiero di Rosmini sono l’opposizione radicale all’Illuminismo, visto come un «guazzabuglio di negazioni e di ignoranze», e il proposito di restaurare i valori appartenenti alla tradizione scolastica e cristiana. La sua gnoseologia si struttura intorno ad un deciso anti-soggettivismo, ed appare radicalmente critica rispetto all’empirismo lockiano e al sensismo, al kantismo e all’idealismo. A Locke Rosmini rimprovera di aver dedotto dall’esperienza l’idea di sostanza e di aver quindi snatirato le operazioni intellettuali; al sensismo di aver confuso sensazione e percezione; a Kant di aver soggettivizzato le categorie e di esser caduto nello scetticismo, agli idealisti di non aver compreso la trascendenza dell’essere. Ma il rapporto di Rosmini con Kant è più complesso: egli accetta dal kantismo l’impostazione critica della filosofia, riconosce l’esigenza di un a priori universale e necessario; esige però che esso sia oggettivo, garante di una concezione non solo fenomenica ma sostanziale della conoscenza. (…)
"Anche per Rosmini «tolta via l’idea dell’essere, è reso impossibile il sapere umano e la mente stessa». Tale idea è quindi universale, necessaria, innata ma oggettiva (trascende l’attività dell’intelletto stesso in quanto la costituisce ela regola) e data alla mente umana per illuminazione. Qui Rosmini salda a Kant, da cui pure è partito, Platone (l’oggettivismo) e san Bonaventura (l’illuminazione), restaurando l’oggettività della conoscenza e il compito metafisico della filosofia.(…)
"Sul terreno metafisico Rosmini indaga le forme dell’essere ideale (logico-ideologico), reale (psicologico e metafisico in senso stretto), morale (che dà luogo all’ambito dell’etica, del diritto, della politica) e in particolare, nella Teosofia, l’esistenza di Dio e il rapporto Dio-mondo. Dio come Ente realissimo esiste come causa necessaria dell’idea dell’essere, che non può essere prodotta dall’uomo contingente. Di crea poiché, in quanto Essere che ama l’essere, lo ama e lo vuole in tutte le sue forme, quindi anche nei modi del finito. Così Dio lo concepisce e lo realizza ad un tempo, conferendogli idealità e realtà." (1)
Non molto diversa è l’interpretazione della gnoseologia rosminiana da parte di Giovanni Baravalle (il "padre Felice" del la casa in collina di Cesare Pavese) e, più in generale, della prospettiva filosofica entro cui si muove, nonché l’esigenza fondamentale da cui scaturisce, il pensiero di Antonio Rosmini.
"Lo scopo della speculazione del Rosmini è la conciliazione delle esigenze dello spiritualismo con la filosofia moderna, Egli si pone, quindi, sul terreno concreto della filosofia del suo tempo, con spirito largamente comprensivo, in vista di una superiore sintesi filosofica, in cui confluiscano il Cristianesimo e quanto di meglio ha elaborato il pensiero umano., gli analizza profondamente il problema gnoseologico, perché esso ha assunto, nella speculazione moderna, una parte prevalente e quasi esclusiva.
"Però per il Rosmini il problema gnoseologico costituisce solo la parte introduttiva della filosofia che è ‘scienza delle ultime ragioni’, o ‘scienza dell’essere’. Poiché il soggetto che deve acquistare la scienza dell’essere è l’uomo, Rosmini si pone il problema del principio costitutivo dell’essere intelligente, cioè il problema del fondamento ultimo del soggetto umano. Per questo divide la filosofia in regressiva e progressiva.
"La filosofia regressiva è la ricerca del punto base del pensiero. L’uomo, partendo dalla situazione contingente in cui si trovala sua mente, compie un cammino regressivo alla ricerca di quel punto primo, o prima idea, che sorregge tutto l’edificio intellettuale.
"Perciò Rosmini intende «risalire, quanto più può, fino all’origine in noi della verità», dove sono le «sorgenti del fiume della vita». Assumendo come criterio del suo metodo il principio di ragion sufficiente secondo cui, nella spiegazione dei fatti dello spirito, non si deve assumere né meno né più di quanto è necessario a spiegarli, instaura un’indagine critica elle teorie difettose o eccessive «in quanto non assegnano alle idee una sufficiente cagione» o le spiegano con «cagione soverchia».
"Per «cagione soverchia errò l’innatismo», che pone troppe idee innate. Rosmini esamina e critica Platone, Aristotele, Leibniz e Kant.
"Riguardo a Kant, gli rimprovera di «aver fatto subiettivi gli oggetti del pensiero» cioè le categorie. Gli riconosce però il merito di aver chiaramente distinto la sensibilità dall’intelletto e di aver ridimensionato il pensare con il giudicare. «Non assegnarono sufficiente cagione alle idee» l’empirismo e i sistemi che ne derivarono, perché pretesero di spiegare tutte le idee con la sola sensazione.
"La filosofia progressiva si propone la costruzione sistematica del sapere per rivelare le ‘condizioni formali’ (logica) e le ‘condizioni materiali’ (psicologia) dello studio dell’ente in universale (ontologia), dell’ente infinito (teologia), dell’ente finito (cosmologia). (…)
"Rosmini parte da un fatto: l’uomo pensa l’essere in universale. (…)
"Che cosa è l’idea dell’essere? È l’idea comunissima di essere.
"Essa può dirsi ‘essere ideale’, perché non è un’esistenza concreta; può dirsi ‘essere possibile’, perché può essere attribuita a ogni realtà, può dirsi ‘essere iniziale’, perché, come concetto, è il presupposto di tutti gli enti concreti.
"è l’ultima realtà cui giunge la mente; non deve essere identificata né con l’idea di Dio, né dell’io, né di alcuna esistenza concreta. Contiene logicamente tutte le altre idee ed è il principio dell’ideologia, perché qualunque cosa si pensi, si tratta sempre della determinazione particolare di questa idea indeterminatissima, di modo che l’idea di ogni realtà è sempre l’idea dell’essere in qualche determinazione o ideale o reale o morale.
"L’idea dell’essere è quindi la prima idea e costituisce l’uomo nella razionalità ed è il lume di ragione.
"Rosmini afferma che l’idea dell’essere è innata, perché
non può derivare dall’esperienza, che offre solo realtà singolari;
non può derivare dal sentimento del soggetto, perché questi è limitato;
non è prodotta all’astrazione, perché l’astrazione distingue solo ciò che è nelle cose." (2)
Sul problema della conoscenza nella filosofia di Antonio Rosmini e, in particolare, sul malinteso per cui essa fu accusata di ontologismo e addirittura di panteismo (all’origine, insieme all’impegno politico del roveretano in favore del Risorgimento nazionale, delle persecuzioni di cui fu oggetto da parte di settori della Chiesa cattolica, e specialmente dei gesuiti), hanno scritto parole illuminanti il Mondin e il Salvestrini.
"Come tutti i filosofi moderni, Rosmini dà alla propria speculazione un’impostazione critica: il primo problema ch’egli affronta è quello della conoscenza, che non può essere ridotta all’esperienza sensitiva, come volevano gli empiristi inglesi e i sensisti francesi. Contro questa impostazione il Rosmini scrisse il Nuovo saggio sull’origine delle idee, nel quale afferma, con Kant, che la nostra conoscenza ha carattere universale. E, per spiegare questo carattere, accetta i due principi fondamentali della gnoseologia kantiana: a) l’universalità non può essere data dall’esperienza ma deve trovarsi nella mente a priori; b) la conoscenza delle cose è frutto della sintesi di un elemento a priori e di un dato empirico.
"Però Rosmini concepisce l’elemento a priori in maniera diversa da Kant. Mentre per il filosofo tedesco esso è soggettivo (le categorie sono schemi mentali, modi di pensare), per Rosmini è oggettivo; è un oggetto intuito dalla mente prima di qualsiasi altro e inseparabile dall’intuizione di qualsiasi altro. Per cui la sintesi rosminiana, per essere esatti, va chiamata non ‘sintesi a priori’ ma ‘sintesi primitiva’.
"Tale elemento a priori oggettivo della conoscenza, secondo Rosmini, è l’idea dell’essere (…) che costituisce l’elemento formale di qualsiasi conoscenza, non è l’idea dell’essere reale (Dio), ma l’idea dell’essere ideale. L’essere ideale è astratto, indeterminato, e come tale non si può confondere con Dio, Essere perfetto, determinato, concreto.
"Per questa chiara distinzione che Rosmini pone tra l’essere reale e l’essere ideale cade l’accusa di panteismo che talora gli fu mossa, e per lo stesso motivo cade anche l’accusa di ontologismo. Tale concetto afferma che l’uomo conosce tutte le cose in Dio, il quale sarebbe ad un tempo il primo logico e il primo ontologico. Rosmini invece ha sempre negato che l’uomo abbia una intuizione dell’essere reale: egli lo conosce soltanto attraverso l’essere ideale.
"Le caratteristiche dell’essere ideale (universalità ed infinità) indicano che esso non può venire prodotto nella nostra mente dall’esperienza come vorrebbero gli empiristi, né dal nostro stesso intelletto, poiché il nostro essere reale è finito e non potrebbe generare un essere ideale infinito; l’essere ideale, invece, si forma in noi per illuminazione divina…(…)
"Secondo Rosmini, la conoscenza delle cose avviene nel modo seguente. Noi abbiamo anzitutto un ‘sentimento fondamentale’, con cui percepiamo immediatamente il nostro corpo «come una cosa con noi»; e poi, attraverso il corpo, riceviamo l’impressione delle cose distinte da noi. Quando applichiamo l’idea di essere al sentimento fondamentale otteniamo l’idea di noi stessi, l’autocoscienza; quando applichiamo l’idea di essere all’impressione delle cose distinte da noi acquistiamo l’eterocoscienza». (3)
Per l’esposizione del contenuto del Nuovo saggio sull’origine delle idee, seguiremo l’edizione a cura di Michele Federico Sciacca, uno dei massimi cultori italiani della filosofia di Rosmini, apparso nell’anno più tragico nella storia dell’Italia moderna, e tuttavia ancor oggi validissimo tanto sotto il profilo critico-esegetico che sotto quello didattico. (4) Magari se ne facessero ancora oggi, nell’Italia del benessere del terzo millennio, di edizioni ad uso scolastico di un tale livello e di una tale chiarezza espositiva. Ma no, bisognerebbe che l’intera scuola italiana (e, di conseguenza l’editoria scolastica) fosse concepita in altro modo e si ispirasse ad altri criteri. Tuttavia non è questa la sede per sviluppare tali (meste) riflessioni, perciò passiamo subito all’esposizione dell’opera rosminiana.
Essa è divisa in due parti: nella prima l’autore esamina le principali teorie circa l’origine delle idee, nella seconda espone la propria. La prima, pertanto, è – secondo i canoni della trattatistica dell’epoca, e anche del secolo precedente, la pars destruens, la seconda è la pars costruens. La rassegna storica delle principali posizioni gnoseologiche della filosofia occidentale è preceduta da due questioni preliminari di riflessione metodologica: l’una dedicata ai due principi fondamentali del metodo filosofico, l’altra alle difficoltà di ordine generale che si oppongono al tentativo di spiegare l’origine delle idee.
IL «NUOVO SAGGIO SULL’ORIGINE DELLE IDEE»: PARTE PRIMA.
I due principi fondamentali del metodo filosofico sono questi: primo, «nella spiegazione dei fatti dello spirito umano non si deve assumere meno di quanto fa bisogno a spiegarli» [§ 26]; secondo: «non si dee assumere più di ciò che è necessario a render ragione dei fatti» [§ 27]. Ne consegue che «chi medita sulla natura dello spirito umano, dee riconoscere ed ammettere» che «di tutte le complete spiegazioni de’ fatti dello spirito umano egli preferisca quella che è più la semplice, e che esige meno supposizioni dell’altre» [28].
Poi Rosmini, rinunziando a dare una definizione di "idea" e contentandosi della nozione comune di essa, che a nessuno manca, afferma di volerne indagare l’origine e la causa per cui esse si trovano nello spirito umano. L’estrema difficoltà di tale ricerca, a suo avviso, risiede nel fatto che, quando noi formiamo un giudizio, abbiamo bisogno di possedere già, nella nostra mente, delle nozioni universali relative ad esso: se diciamo, ad es., che un certo oggetto è bianco, bisogna che possediamo la nozione generale di bianchezza; e così via. Quindi, «un giudizio non è se non quell’operazione colla quale noi uniamo un dato predicato ad un dato subbietto, e quindi che in questa operazione della nostra mente: 1° noi prendiamo il subbietto ed il predicato a parte come due cose mentalmente distinte (…); 2° noi riconosciamo che queste due entità sono unite in natura, cioè noi fissiamo la nostra attenzione non in ciascuno de’ due termini in separato, ma nel loro rapporto di unione nel subbietto» [42]. «Ma – e qui sorge veramente una grossa difficoltà – se l’umana mente non può fare quell’operazione che si chiama giudizio, senz’essere prima in possesso di qualche nozione od idea universale; come poi avviene che l’umana mente si formi le idee universali?» [idem]. Problema non nuovo, come si può vedere: Socrate se l’era già posto e così pure Platone., che ad esso ha dedicato ha dedicato alcuni dei suoi dialoghi più intensi, in particolar modo il Menone.
Rosmini osserva che la mente umana non conosce che due vie per formarsi una idea universale: o mediante l’astrazione, o per mezzo del giudizio. Nel primo caso, noi possiamo trarre un’idea universale da una idea particolare, scomponendola nei due elementi che la costituiscono, il comune ed il proprio; abbandonando il proprio; fissando tutta l’attenzione sopra le sole note comuni. Ora, questa triplice operazione si esercita sopra un’idea che già si trova in noi, comunque vi sia giunta: tutto quel che fa la nostra mente è di isolare la nota comune, che è appunto l’idea universale. Pertanto, noi osserviamo il comune e l’universale che si trova nelle nostre idee particolari, ciò che non potremmo fare, se già non vi si trovasse. Conclusione: la via dell’astrazione non è in grado di spiegare come mai noi ci formiamo delle idee comuni e generali, ci aiuta solamente a separarle da ogni elemento estraneo, isolandole perfettamente nella nostra mente [§ 43].
Per spiegare come si formino, allora, le idee universali, non resta che percorrere l’altra via: quella del giudizio. Senonché, si è già visto che ogni giudizio presuppone già la presenza di una qualche idea universale. Se io affermo, ad esempio, che quest’uomo è buono, ciò significa che io possiedo fin da prima, in qualche modo, l’idea della bontà che è appunto un’idea universale; e ciò vale per ogni altro giudizio. Conclusione: le idee universali non si formano per mezzo dei giudizi, anzi sono proprio i giudizi che attestano la presenza, nella nostra mente, delle idee universali [§ 44]. Rosmini, pertanto, anticipa un primo punto fermo di quella che sarà la successiva sua ricerca: quei filosofi che vogliono dedurre dai soli sensi la presenza, in noi, delle idee universali, si mettono su una strada difficilissima e pressoché impraticabile [§ 45].
a) TEORIE FALSE PER DIFETTO
Ora Rosmini passa in rassegna le teorie false per difetto, in quanto non assegnano alle idee una causa sufficiente a spiegarle. La prima che prende in esame è quella di Locke [§ 46], secondo il quale tutte le idee hanno origine dalla sensazione e dalla riflessione. «Questo filosofo, senza trovare la menoma difficoltà, vi fa uscire a bella prima tutte le idee dalla sensazione e dalla riflessione, quasi sarei per dire , come sgorga da due ampi fori l’acqua d’un fonte»[§ 47]. Del resto, «il Locke venendo a spiegare l’idea di sostanza, si affaccia alla difficoltà e non la ravvisa», dopo di che esamina le varie specie di idee e mostra che derivano, tutte, o dalla sensazione oppure dalla riflessione [§ 48]. Locke non ha avuto il coraggio intellettuale di trarre le logiche conseguenza dal fatto, da lui stesso riconosciuto, che l’idea di sostanza non proviene né dalla sensazione né dalla riflessione [§ 49]; se lo avesse avuto, avrebbe dovuto riconoscere che il proprio sistema, in contraddizione con se stesso, esclude un fatto, verificato mediante l’osservazione, in nome di un ragionamento; altro che empirismo! Al contrario, bisogna prima verificare se l’idea di sostanza esiste: se sì, come l’osservazione dimostra, tutto il sistema andava rimesso in discussione [§ 50]. La verità è, dice Rosmini, che il nostro spirito non può fare a meno dell’idea di sostanza; e i filosofi empiristi e sensisti, come Locke e Condillac, devono immaginare un sostegno nascosto alle qualità, il che significa ammettere che nello spirito esiste una certa nozione di sostanza [§ 51]. L’idea di sostanza non può provenire dalle sole sensazioni, perché è totalmente diversa da esse: le sensazioni ci vedono passivi nel riceverle, e modificano lo stato della nostra mente; mentre la sostanza è una cosa che sussite in sé e non una modificazione, dunque una cosa non percepibile con i sensi esteriori [§ 52].
Poi Rosmini elenca tre differenze essenziali fra l’idea di sensazione e l’idea di sostanza. La prima è che la sensazione è un accidente che non sussiste in sé, ma in noi, mentre la sostanza sussiste in sé; la seconda è che la sensazione è una passione del soggetto, mentre la sostanza può essere il soggetto senziente, la terza, che la sensazione è l’effetto di ciò che stimola i nostri sensi, mentre la sostanza rimane nel pensiero , dopo che tutte le qualità sensibili ne sono state rimosse [§ 53]. Ad es., dopo che ho escluso dalla mente tutte le foglie particolari che posso vedere con i sensi (la vista, il tatto, ecc.), l’idea di foglia è ciò che rimane nella mente: sostanza che fa da sostegno alle qualità sensibili delle singole foglie, sia reali sia, semplicemente, intelligibili. Dunque, la sensazione non fa altro che avvisarci dell’esistenza delle qualità sensibili dei corpi; null’altro. È il pensiero che ci fa dire: «Le qualità sensibili non possono esistere senza un sostegno». Deve esistere, quindi, una regola o un principio che ci autorizzi a giudicare che le qualità sensibili non possono esistere da sé, che suonerebbe più o meno così: «gli accidenti non possono esister soli». Ora, mentre gli accidenti ci vengono dati mediante le sensazioni; mentre l’idea di esistenza non ci viene dalle sensazioni; «perciò l’idea di esistenza rimane inesplicabile ponendo che dalle sole sensazioni ci vengano tutte le nostre idee» [§54].
L’idea di sostanza deve provenire da un giudizio, per formare il quale bisogna possedere un’idea universale che non viene dai sensi: l’idea di esistenza. «E di vero, è egli possibile che noi cominciamo a giudicare senza possedere pur un’idea universale, mentre ogni giudizio è un’operazione dell’intendimento, nella quale si fa uso di un’idea universale, e perciò si suppone d’averla, mentre non si può far uso di ciò che non si ha? Prima dunque che noi abbiamo delle idee universali è impossibile che noi giudichiamo di qualunque nostra sensazione e di qualunque causa che la produca». E qui Rosmini fa un esempio. Poniamo che sotto i miei sensi cada un oggetto qualsiasi, ad es. un albero. Potrò vederne il colore, la grandezza, la figura, ecc., ossia riceverne passivamente una serie di impressioni; ma per concepirlo in modo intellettuale, il mio spirito dovrà pronunciare un giudizio: «Esiste qualche cosa dotata delle qualità sensibili, tali e tali, ecc.» Ebbene, «l’idea universale di cui io fo uso in questo giudizio, è l’idea di esistenza, e se io non l’avessi precedentemente, sarebbe impossibile che io l’applicassi alle mie sensazioni (…) Ma quest’idea universale di esistenza, o dell’essere, io non posso averla dalle sole sensazioni, le quali non la contengono, non essendo che modificazioni dell’essere, e non avendo perciò in sé sole l’essere: sicché sole non si possono percepire intellettivamente, ma in un altro, cioè nell’ente (sostanza), interamente diverso da esse» [§ 55].
Dunque, nessuna cosa vien percepita se non mediante un giudizio: «la tal cosa esiste»; e, per pronunciare un tale giudizio, occorre che noi siamo forniti dell’idea di esistenza, che si aggiunge alle qualità della cosa percepite con i sensi. Ciò avviene nella formazione di qualunque idea: di albero, di sasso, di animale: in tutte queste idee è necessario che si faccia uso dell’idea universale di esistenza che, a sua volta, non proviene dalle qualità sensibili degli oggetti; al contrario, quelle idee particolari che chiamiamo sensazioni, presuppongono tale idea di esistenza [§ 56]. Ai filosofi empiristi è sfuggito tutto questo: essi non hanno visto che avere l’idea di albero, riferendola a un albero particolare, è lo stesso che percepire un albero con l’intelletto, ossia giudicare che esiste, ossia classificare l’albero tra le cose esistenti o possibili: ciò che richiede il possesso dell’idea di esistenza [§ 57]. «In fatti, come farò io a cavare le idee universali da idee meramente particolari, se nulla di universale si suppongono contenere? Si potrà ricavare indi una cosa, ove ella non è? Non ci ha qui una contraddizione manifesta?». Locke sostiene che le idee universali si estraggono dalle idee particolari mediante l’astrazione. Secondo lui, basta separare dall’idea, poniamo, di albero, quello che vi è in essa di comune da quel che vi è di proprio, per giungere all’idea di esistenza. Ma questo non è possibile, perché equivale a dire nell’idea di albero vi sono idee di qualità comuni e idee di qualità proprie; e Locke aveva sostenuto che le idee particolari non contengono alcuna idea universale [§ 58]. Invece le sensazioni sono sempre particolari né contengono altro che qualità particolari; una qualità comune e universale non può esistere che nella nostra mente [§ 59].
Rosmini poi ricostruisce i quattro momenti o passaggi del ragionamento lockiano sull’origine delle idee, tutti viziati dall’errore iniziale. Primo passo (e primo errore): «che i corporei abbiano in sé realmente qualche cosa di comune indipendentemente dalla maniera di percepirli», mentre il comune (idea universale) ha origine nell’intelletto umano. Secondo passo: i due elementi di cui risulterebbero composte le cose, il comune ed il proprio, sono entrambi percepiti dai sensi; mentre solo il proprio lo è, il comune essendo presente non nei sensi, ma nell’intelletto che formula il giudizio. Terzo passo: «Se il senso riceve in sé, e percepisce ciò che c’è di comune nelle cose, riesce facile a spiegare l’origine delle idee particolari: giacché sebbene queste idee sieno composte : 1° di nozioni comuni, 2° e di nozioni proprie, tuttavia sì le une che le altre sono somministrate dalle sensazioni»; il che, come si è visto, è impossibile, perché le nozioni comuni non possono provenire dalla sensazione. Quarto passo: le idee universali si possono astrarre dalle particolari, separando l’elemento comune da quello proprio. Invece, per Rosmini, «il comune non ha nessuna esistenza fuori dell’intelletto: egli è un elemento delle nostre idee, ma non un elemento reale delle cose esterne. Le cose esterne non hanno realmente che un’esistenza individuale e propria; non hanno che qualità particolari, ché la parola comune implica un rapporto fra più oggetti, osservato dall’intelletto» [§ 60].
«Se dunque nelle sole idee c’è la nozione di comune, e nelle cose esterne non c’è nulla che non abbia una esistenza meramente particolare e propria, si domanda onde sia venuta questa nozione di qualità comune?». Non dal senso, che – evidentemente – no può percepire nelle cose esterne ciò che in esse non vi è. «Non c’è dunque mezzo a spacciarsi da sì fatta difficoltà, senza il supporre che l’intelletto supplisca egli medesimo la nozione comune, e quindi porti con sé qualche cosa non ricevuto da’ sensi» § 61]. Risulta dunque chiarito che l’intelletto umano possiede qualcosa d’innato, e che cosa esso sia: la nozione dell’essere, da cui nasce ogni universale [§ 62].
Il sistema di Locke non è in grado di spiegare le idee universali, per le ragioni già viste [§ 63]. Come scrive Rosmini, «l’imperfezione dunque del sistema lockiano consiste nell’avere supposta esistente realmente nelle cose sensibili la qualità comune, e quindi nel non essersi acconto della difficoltà che si rinviene in cercare l’origine di una tale nozione».
A questo punto, Rosmini passa ad esaminare la teoria di Condillac e, in genere, dei sensisti, circa l’origine delle idee. Essi, per il filosofo di Rovereto, si accorsero che erano necessari dei giudizi per formare le idee dei corpi; e tuttavia non si accorsero che tali giudizi presupponevano l’esistenza di idee universali che fossero già presenti nell’intelletto.
Ora, l’essenza delle teoria condillachiana si può così riassumere: «quello stesso senso che percepisce la sensazione del tatto, è quello che giudica della medesima»: affermazione palesemente assurda, perché se è vero che Condillac si sforza di ridurre i due principi di Locke, sensazione e riflessione, a uno solo, cioè la sensazione, è altrettanto vero che la sensazione altro non può dare che sensazione, e giammai giudizio [§ 70]. Infatti, nel Trattato delle sensazioni, Condillac aveva ascritto che il tatto è il solo senso che giudica da se stesso degli oggetti esterni. Ma un solo senso non può fare due operazioni così distinte, come sentore e giudicare [§ 71]. Rosmini dedica ben ventitré paragrafi, dal 73 al 96, a confutare la teoria condillachiana sull’origine delle idee. Per Condillac, sia l’attenzione che le altre operazioni dello spirito vengono dalle sensazioni o sono, semplicemente, delle sensazioni trasformate. L’attenzione, ad es., è ciò che resta nella mente dopo che vengono eliminate da essa tutte le altre sensazioni. Condillac, però, non spiega né tenta di spiegare donde provenga la capacità di eliminare tutte le altre sensazioni: evidentemente, argomenta Rosmini, non dalla sensazione stessa, perché essa non contiene altro che se stessa, cioè sensazione, mentre, per eliminare una serie di sensazione, si rende necessaria un’altra facoltà dello spirito, che deve aver origine da qualcosa di diverso della sensazione stessa.
Riassumendo: secondo Condillac, le idee sono di due tipi, particolari e generali: queste ultime divengono tali mediante un giudizio formulato dallo spirito. Invece, per Rosmini, le idee universali possiedono un elemento universale fin da quando nascono: «e ciò – egli osserva – secondo le definizioni dello stesso Condillac. Perocché egli chiama idea una sensazione rappresentativa di qualche cosa, come sono quelle che si conservano nella memoria; e chiama generali le idee che servono di modello. Ma l’essere un’idea rappresentativa, è il medesimo che l’esser modello: dunque, secondo il Condillac stesso, nell’essere idea, c’è compreso ch’ella abbia in sé il carattere universale» [§ 97]. Dopo di che, il Rosmini incalza: «né si può formare un’idea, senza che si mescoli in tale operazione un giudizio, né si può formare un giudizio senza che si abbiano già formate delle idee» [§ 98].
Seguono oltre centoventi paragrafi dedicati all’esame e alla confutazione della cosiddetta scuola scozzese o del "senso comune", i cui rappresentanti sono Thomas Reid (1710-1796) e Dugald Stewart (1753-1828). Il Reid aveva pubblicato nel 1764 la Ricerca sulla mente umana in base ai principio del senso comune, in polemica diretta con lo scetticismo di David Hume. Con lui siamo già oltre i limiti dell’empirismo, anzi siamo già in pieno clima anti-empirista, poiché viene operata una distinzione tra sensazione (feeling), come dato puramente soggettivo e ‘affettivo’, e percezione, intesa non come semplice apprensione dell’oggetto, ma anche come presenza diretta e immediata dell’oggetto stesso. Pertanto la percezione è accompagnata da una credenza nella realtà effettiva dell’oggetto, che è alla base del senso comune. Reid, per cercar di spiegare tale "credenza", fa ricorso all’istinto, ed è qui si appunta la critica principale del Rosmini. Secondo il filosofo trentino Reid era giunto veramente a un passo dallo scioglimento del nodo circa l’origine delle idee, quando aveva ammesso che al giudizio primitivo dell’esistenza dei corpi preesiste in noi «un giudizio primitivo, misterioso e inesplicabile». Egli non si era accorto, però, che un giudizio che nasce in noi senza alcuna idea generale è una contraddizione in termini. Inoltre, aveva affermato che il giudizio sull’esistenza degli oggetti esterni è un atto semplice e assolutamente indefinibile, che nasce dall’istinto. Inutile ricorso al mistero, questo, per Rosmini: sarebbe bastato vedere che in quel giudizio che precede tutte le altre idee, è inclusa l’idea dell’esistenza.
Quanto allo Stewart, allievo del Reid, egli si era sforzato di abolire le idee generali ed aveva esposto in modo chiaro ed efficace i principi della scuola del "senso comune" negli Elementi della filosofia della mente umana, in tre volumi, del 1792-1827; nei Lineamenti di filosofia morale del 1793, e nella Filosofia delle facoltà attive e morali dell’uomo del 1828. Per Rosmini, il suo tentativo di abolire le idee generali era stato vano, perché abolendo le idee generali verrebbe a cadere ogni possibilità di giudizio e, quindi, ogni fiducia nella oggettività della conoscenza umana: il che significherebbe precipitare nuovamente in quello scetticismo humiano al quale la scuola scozzese aveva inteso energicamente reagire.
b) TEORIE FALSE PER ECCESSO
Dopo aver esaminato e confutato le teorie false "per difetto", Rosmini passa a considerare quella false "per eccesso", e ne considera tre: quelle di Platone, di Leibniz e di Kant. Si tratta di teorie false per eccesso, in quanto «assegnano alle idee una cagione soverchia» [§ 221].
Citando il Menone, Rosmini ricorda che, per Platone, «l’uomo colla sua mente non può ricercare nessuna cosa, la quale non gli sia parte incognita, e parte cognita» [§ 222].Esiste qualcosa, dunque, che sta a mezza strada fra il conoscere perfettamente ed il perfettamente ignorare: in questa mescolanza di luce e ombra, è possibile – per Platone – riconoscere quello che andiamo cercando, cosa altrimenti impossibile [§ 223]. Così, la difficoltà di spiegare come noi andiamo in cerca di ciò che non abbiamo e non conosciamo (ad es., come nel Menone, della virtù) è risolta da Platone con una cognizione ce noi possedevamo prima di nascere ma che poi, nascendo, abbiamo scordata e ora tentiamo di ritrovare[§ 224]. Nella parte centrale del Menone, come è noto, Platone fa interrogare un giovane schiavo ignorante da Socrate intorno a un complesso problema di geometria, e lo guida – senza nulla insegnargli esplicitamente, a trovarne la soluzione. (5) «Il fatto di Socrate si riduce dunque a spiegare come l’uomo abbia in sé la facoltà di giudicare, cioè la facoltà di aver de’ giudizi anche sopra ciò che viene a cader per la prima volta sotto i suoi sensi, sopra ciò che mai egli pria non conobbe». Se tali conoscenze non gli vengono da altri uomini ciò che è escluso nell’ipotesi di partenza, bisogna che egli possieda già, nascendo, quei giudizi [§ 225]. Platone avrebbe potuto accontentarsi di aver dimostrato che il primo atto della facoltà di ragionare è un giudizio [§ 229]; invece volle andar oltre, ammettendo in noi stessi la presenza di tutte le idee innate e di tutte le verità. Invece, per spiegare in noi la presenza dell’innata facoltà di giudizio, immaginò che abbiamo, innate, tutte le idee che, giudicando, ci rappresentiamo [§ 230].
Il secondo esempio di teoria errata per eccesso è da Rosmini identificato con quella di Aristotele, cui vengono dedicati ben una cinquantina di paragrafi Ad Aristotele, Rosmini rimprovera di aver visto la debolezza della teoria platonica, ma di non essere riuscito, a sua volta, a fornire una spiegazione adeguata degli universali né di aver tracciato una chiara distinzione fra il senso e l’intelletto. Per Rosmini, le ambiguità della teoria aristotelica degli universali si sono riversate negli scolastici e, quindi, hanno caratterizzato tutta la filosofia del Medioevo.
Il terzo esempio di teoria errata "per eccesso" è quello di Leibniz. Il filosofo tedesco era partito dalla giusta constatazione che i sensi non possono produrre le percezioni primitive dell’anima perché, se così fosse, vorrebbe dire che il corpo è in grado di agire sull’anima; ma un ente creato non può agire su un altro ente creato né che la sua potenza esca dalla sfera che gli è propria. Dunque, tutte le modificazioni che in ente si producono, che non possono provenire che un qualcosa che si trova al suo interno (si ricordi la teoria delle monadi senza porte e senza finestre) e ciò non in modo casuale, ma secondo la volontà sapiente dell’Ente Supremo (dottrina dell’armonia prestabilita). «Il nostro filosofo immaginò dunque – afferma Rosmini – che le idee tutte fossero già nella mente nostra ab origine, e per natura della medesima, ma in un modo insensibile, sicché noi non avessimo scienza alcuna; e le chiamò generalmente percezioni, distinguendole dalle appercezioni, che erano pur le idee, ma dopo già sorta la coscienza delle medesime» [§ 283]. Dunque, per Leibniz altro è l’idea, altro il pensiero; l’idea può esser presente all’anima senza un attuale pensiero. Gli oggetti eterni agiscono su noi in modo mediato, perché non potrebbero recare modificazioni dirette all’anima. «Si potrebbe dire che l’anima stessa è il suo oggetto immediato interno: ma ciò è in quanto ella contiene le idee, ovvero ciò che corrisponde in essa alle cose: poiché l’anima è un piccolo mondo, dove le idee distinte sono una rappresentazione di Dio, e dove le confuse sono una rappresentazione dell’Universo» [§ 284]. Così, per Leibniz vi sono due elementi innati nell’anima: le idee insensibili di tutte le cose e certi istinti che ci muovono a riflettere sulle idee stesse, e così a riceverne coscienza (appercezione); e tali istinti variando da uomo a uomo, producono diverse serie di pensieri [§ 285]. Il grande merito di Leibniz è, secondo Rosmini, quello di aver osservato, nell’anima, la presenza di percezioni senza riflessione, aspetto che Locke, invece, aveva del tutto trascurato [§ 288]. La presenza di questi pensieri non riflessi era stata dal Leibniz dimostrata con semplicità ed eleganza, dicendo che per quanto noi ci sforziamo di pensare sempre agli oggetti del nostro pensiero e di esserne consapevoli, per così dire, dall’esterno, verrà sempre il momento in cui penseremo senza riflettervi; ché altrimenti bisognerebbe risalire all’infinito la catena dei pensieri sui pensieri medesimi, il che manifestamente non è possibile [§ 289]. Leibniz rinforza la sua teoria in proposito mediante l’osservazione [§ 290], sicché l’obiezione di Locke, che se noi avessimo delle idee innate dovremmo saperlo dal primo momento della nostra vita, appare del tutto insussistente. Noi possiamo avere nell’anima, osserva Leibniz, delle percezioni, e al tempo stesso non esserne consapevoli: «è in questa maniera (…) che io suppongo esistere nell’anima umana tutte le idee delle cose: sono in noi come percezioni insensibili» [§291]. Ora, contrariamente a quel che sosteneva lo stesso Leibniz [§ 293], egli nel suo sistema mise nella mente umana meno idee innate di quel che aveva fatto Platone, togliendone la profezia, la divinazione, ecc. [§ 294]. Ma, secondo Rosmini, «il Leibniz ammette d’innato più che non ha bisogno per spiegare il fatto delle idee», ossia la percezione dell’intero Universo e di tutto ciò che esso contiene; mentre basta ammettere che «una sola idea è innata (…): ché col far uso di quest’idea noi possiamo avere a nostro agio una serie di giudizi; e questi giudizi darci delle altre idee; quindi far con esse altri e altri giudizi, e cavarne altre ed altre idee» [§ 295]. Quindi il sistema leibniziano eccede sia quanto alla reminiscenza, poiché mediante essa l’anima conferisce maggior risalto a quanto già si trova in essa, sia quanto presentimento, «perché la mente non può mai dedurre qualche avvenimento futuro, se non per via di congettura, ovvero sotto certe condizioni» [§300].
Ora Rosmini prende in considerazione la teoria di Kant. Egli constata che il filosofo di Königsberg ammette senza ulteriore indagine il sistema lockiano dell’esperienza [§ 301], e in particolare la tesi secondo la quale tutte le nostre cognizioni vengono dall’esperienza [§ 302]. Ora, «prima di Kant tutti i filosofi avevano concordemente osservato e ammesso come un fatto patente, che le cognizioni nostre son di due specie; e per distinguerle, appellaronle altre a priori, altre a posteriori» [§ 304]. Cartesio, Locke, Condillac e Leibniz, tutti avevano ammesso, con diverse sfumature, questa bipartizione fondamentale [§ 304], dunque, dice Rosmini, possiamo considerarla assodata. Sia Leibniz che Kant, inoltre, avevano ammesso che i caratteri della cognizione a priori sono la necessità e l’universalità. Invece la cognizione delle cose contingenti è sempre a posteriori. Riassumendo: «La cognizione dunque a posteriori, quale è quella de’ fatti sensibili, è una cognizione accidentale; e oltre di essa, v’ha in noi una cognizione necessaria che si denomina a priori per questo appunto, che ha per fondamento un’intrinseca necessità data dalla pura ragione e in nessun modo da’ sensi». Poi Rosmini fa il paragone dei fiori di gelsomino: per sapere se tutti profumano ugualmente dobbiamo entrare nel giardino ed annusarli uno aduno. Ma tutto quello che i sensi ci diranno è che i fiori da noi annusati hanno lo stesso, dolce profumo; non che l’anno tutti gli alri fiori di gelsomino; non che lo avranno (o ‘avevano) quelli già colti: perché la sensazione non esce dalla sfera dell’esperienza diretta e immediata. È la mente e solo la mente che, oltrepassando i confini dell’esperienza immediata, estende a tutti gli oggetti di una data classe i risultati dell’esperienza che abbiamo fatto su un numero necessariamente limitato di campioni [§ 306].m Dunque, l’universalità della cognizione a priori viene dalla sua necessità [§ 307]. L’operazione con cui la mente si forma delle idee universali ha per fondamento l’estensibilità ab infinitum delle esperienze sensibili, cioè «la concezione della possibilità indefinita di oggetti che non possono cadere sotto i sensi, perché non esistono, ma solo possono esistere» [§ 308]. Ora, questa universalità degli oggetti per analogia non viene in alcun modo dai sensi, ma – evidentemente – dalla nostra stessa mente: «Necessità, universalità di fatto, universalità possibile, sono concetti che trascendono ogni esperienza de’ sensi, e che non si possono spiegare, se non deducendoli dall’interiore virtù della nostra mente medesima» [§ 309].
Nella storia del pensiero moderno, così come Hume aveva derivato il suo scetticismo dalle premesse di Locke, allo stesso modo – secondo Rosmini- Kant ha derivato il proprio dalle premesse del Reid. Infatti, il Reid aveva ammesso che le proposizioni universali e necessarie nascono da un giudizio naturale ed istintivo, che però non è possibile spiegare: cioè, ammetteva una conoscenza a priori, ma al tempo stesso ne negava l’autorità e la veracità; e da tale assunto aveva preso le mosse Kant [§ 324]. Questi, infatti, aveva distinto tra la forma e la materia delle nostre conoscenze, ammettendo bensì (con Locke) che non vi sono conoscenze, in noi, che esistano prima dell’esperienza, ma negando che ogni nostra cognizione venga dai sensi. La conoscenza a priori, infatti, che è universale e necessaria, non deriva dalle sensazioni; nasce dal nostro spirito insieme alle sensazioni; e , per Kant, ciò inizia a verificarsi mediante la percezione [§ 325]. Infatti, per lui la percezione degli enti esterni non proviene dalle sole sensazioni (come per Condillac), da lui chiamate materia, ma anche da qualche cosa che si trova nel nostro spirito, ossia delle qualità che egli chiama forme. Dunque la forma è una qualità a priori della conoscenza, la materia lo è a posteriori. Quando vedo un albero, ad es., alla conoscenza che me ne forniscono i sensi, devo almeno aggiungere la nozione generale di esistenza o almeno quella di possibilità: «io non ho percepito col mio intendimento un albero, fino a che non ho giudicato ch’egli esista, o che possa esistere [§ 326].
Kant elenca ben quattordici nozioni universale che concorrono alla formazione di un un ente corporea, quale esso è concepito; due delle quali sono forme del senso esterno e interno, ossia lo spazio e il tempo. Non possiamo percepire un reale, argomenta Kant, senza percepirlo fornito di determinate qualità e quantità, qualche relazione e qualche modo di esistere. Tali sono le quattro classi generali della percezione: qualità, quantità, modo e relazione. Dunque, mentre la materia della conoscenza è la sensazione, la forma è data dai predicati delle varie categorie [§327]. Kant, però, vuole evitare al proprio sistema la taccia di idealismo, sostenendo – di contro al Berkeley – che i corpi non sono semplici sensazioni della nostra mente; per lui, infatti, i corpi sono un’unione o sintesi di forme intellettuali e di sensazioni [§328]. Kant vuole evitare anche l’accusa di scetticismo: egli, infatti, non nega la corrispondenza fra le nostre idee e gli enti che sono fuori di noi; e afferma che «i concetti non sono già una rappresentazione degli enti, ma una parte, cioè la parte formale de’ medesimi»[§329]. Ma l’essenza dello scetticismo, per Rosmini, consiste nel negare la certezza delle cose in sé, indipendentemente dalle modificazioni dello spirito umano; quindi, per lui, Kant sposta deliberatamente i termini del problema (e, per la prima e unica volta, vediamo il pensatore di Rovereto trascendere il suo abituale senso della misura nel polemizzare con altri autori, usando espressioni un po’ forti). Per Rosmini, anche se Kant non può – tecnicamente parlando – definirsi scettico, il suo criticismo conduce ad uno scetticismo ancora più radicale e pericoloso, proprio perché dichiara che noi possiamo avere conoscenza certa solo dei fenomeni, mentre le cose in sé (noumeno) ci restano totalmente precluse. Lo stesso Kant, del resto, confessa che il criticismo è una dottrina essenzialmente negativa; ma par quasi consolarsi col paragonare la filosofia al vano sforzo della torre di Babele; e pare insuperbire per aver provato e ribadito che lo sforzo di conoscenza dell’uomo è totalmente nullo e impotente [§ 330].
L’errore fondamentale del criticismo, per Rosmini, è l’aver fatto soggettivi gli oggetti del pensiero. Secondo la teoria di Kant, , «ciò che c’è nell’intendimento nostro di straniero alle sensazioni deve di necessità venire dal soggetto intelligente» [§ 331]. Il grande errore di Kant è stato quello di non aver distinto tra il concetto anteriore alla mente, che è sempre universale, e la cosa concepita mediante questo concetto, che è sempre particolare. «Se l’esistenza, che noi percepiamo in un dato reale affermandolo, fosse quella medesima né più né meno, che noi abbiamo nel nostro intelletto, in tal caso, quando noi percepiamo un reale, dovremmo mettere in esso un’esistenza universale, ché l’esistenza dell’intelletto nostro è universale; ma la cosa non va così: anzi noi ravvisiamo, non mettiamo nel reale una esistenza particolare e a lui solo determinata, perché coll’esistenza obbiettiva conosciamo l’esistenza subbiettiva sua propria» [§ 332]. Rosmini prende poi una delle principali categorie kantiane, quella di quantità, per mostrare facilmente come «l’idea di quantità, che io ho nella mia mente, non è già una quantità della stessa misura di quella che io percepisco coll’aiuto de’ sensi in un ente materiale, per esempio in una casa: ma questi sono due modi di quantità interamente distinti. (…) La quantità, che ho nella mente, ha il carattere d’universalità senza misura alcuna: nella casa, all’opposto, io non percepisco già la quantità universale, o la quantità possibile e applicabile ad altri enti, ma una quantità determinata, propria ed individua della casa stessa, inamovibile dalla medesima, e contraria perciò all’idea, come è contrario il particolare all’universale, l’idea al reale, che l’una esclude l’altra». Stesso discorso si può fare per la qualità e per le altre categorie [§ 333]. Resta comunque un merito non piccolo a Kant: quello d’aver visto, con più chiarezza di ogni altro filosofo moderno, la differenza essenziale tra le due operazioni dello spirito, il sentire e l’intendere. «L’analisi accurata dell’intendere fruttò al Kant la cognizione di una verità assai rilevante, qual è quella che tute le operazioni della mente nostra si riducono finalmente a giudizi» [§ 340].
Platone, Leibniz e Kant, pur avendo peccato per eccesso, hanno compiuto dei passi notevoli sulla via della comprensione dell’origine delle idee. Leibniz ammise d’innato meno di quanto avesse fatto Platone, e Kant meno di Leibniz, operando una distinzione delle idee nella loro parte formale e nella loro parte materiale: ritenne innate solo le forme, e lasciò all’esperienza la materia. «In tal modo riducendo il Kant ciò che v’avea d’innato nell’uomo alle pure forme delle cognizioni, egli venia a mettere nello spirito dell’uomo d’innato meno di tutti quelli che lo precedettero nell’aver inteso la necessità d’ammetterne pure qualche cosa, ed abbastanza tuttavia per una spiegazione completa del fatto delle idee e delle cognizioni umane» [§ 366]. Tuttavia Kant, per spiegare le cognizioni, ricorse a ben diciassette forme: due del senso (esterno ed interno), dodici dell’intelletto (le categorie o concetti puri); e tre della ragione (le idee): troppo d’innato, decisamente [§ 367].
IL «NUOVOSAGGIO SULL’ORIGINE DELLE IDEE»: PARTE SECONDA.
Inizia la seconda parte dell’opra, in cui è esposta la pars costruens della sua gnoseologia. Egli afferma di partire dal fatto più ovvio: «noi pensiamo l’essere in universale»; e aggiunge: «Il negare che noi poniamo, volendolo, la nostra attenzione sull’essere comune delle cose, senza badare, ed anzi astraendo da tutte l’altre qualità loro, sarebbe un opporsi a ciò che la più facile osservazione sopra le proprie operazioni ci attesta, un contraddire al senso comune, un rinnegare il linguaggio», perché già nel linguaggio si vede ce l’uomo possiede la facoltà di considerare l’essere separatamente da tutto il resto [§398]. Pensare l’essere in un modo universale, equivale ad avere l’idea dell’essere in universale [§ 399]; d’altra parte l’idea pura dell’essere non è un’immagine sensibile. Infatti «di nessuna cosa ci possiamo formare immagine sensibile, se la cosa stessa: 1° non sia determinata ed individualizzata; e 2° se non sia corporea, e percepita co’ nostri sensi» [§ 400]. Qui Rosmini polemizza con quei filosofi empiristi che hanno sostenuto non poter l’uomo pensare quel che non possiamo immaginare sensibilmente, sostenendo che esistono tre serie di pensieri che contraddicono tale posizione: pensieri d’idee indeterminate (che non possono presentarci in forma d’immagini); pensieri di enti spirituali (che non ammettono immagini sensibili, pur avendo quel che occorre per sussistere); pensieri di corpi o qualità corporee, che sole noi ci possiamo rappresentare mediante l’immaginazione sensibile [§ 401].
«Si dee ancora distinguere – dice Rosmini – l’idea dal giudizio sulla sussistenza delle cose». Infatti, «quando io i formo l’idea ovvero il concetto di qualche ente, posso aver questo concetto in un modo perfetto, comprendendo tutte le qualità tanto essenziali che accidentali dell’ente a cui penso, senza però che io ancora giudichi che egli realmente esiste». Ad es., io posso concepire l’idea di un certo cavallo, con certe particolari caratteristiche, e poi trasformarlo in disegno o pittura [§ 402]; al contrario, il mio concetto di cavallo non deriva dall’esistenza reale di un determinato cavallo [§ 403]. Conclusione: «le idee sono indipendenti (quanto alla loro natura) dalla reale esistenza degl’individui» [§ 404]. Ora, «trovata questa verità (…), si viene a conoscere la differenza che passa tra l’aver un’idea, e il giudicare che la cosa, di cui si ha l’idea, realmente esista. (…) Il giudizio dunque sulla sussistenza di una cosa suppone bensì l’idea, ma non è l’idea della cosa, né nulla aggiunge alla medesima. Questo giudizio non fa che portare in noi una persuasione della sussistenza della cosa che giudichiamo esistente in modo reale: persuasione che non è che un assenso (…)» [§ 405]. Noi, dunque, conosciamo l’esistenza elle cose non per mezzo delle idee (che ce le presentano semplicemente come possibili), ma per mezzo una diversa operazione dello spirito: il giudizio [§ 407]. «L’idea dell’essere non presenta che la semplice possibilità., (…) La possibilità ci rimane dopo l’ultima astrazione che possiam fare sopra un ente pensato (…)» [§ 408]. «L’idea dunque universalissima di tutte, che è anche l’ultima delle astrazioni, è l’essere possibile, che si esprime semplicemente nominandolo idea dell’essere» [§ 409]. Quanto all’uomo, egli «non può pensare a nulla senza l’idea dell’essere» [§ 410]. «E veramente non v’ha cognizione, né pensiero che possa da noi concepirsi, senza che si trovi in esso mescolata l’idea dell’essere. L’esistenza è di tutte le qualità comuni delle cose la comunissima ed universalissima. (…) se dopo aver tolte via da un ente tutte le altre qualità, sì le proprie che le comuni, togliete via ancora la più universale di tutte, l’essere, allora non vi rimane più nulla nella vostra mente, ogni vostro pensiero è spento, è impossibile che voi più abbiate idea alcuna di quell’ente. Dunque l’idea dell’essere è, per così dire, l’ultima frontiera del pensiero: tolta la quale, è tolto il pensare addirittura, ed diviene impossibile qualsiasi altra idea [§ 411].
Quanto all’idea dell’essere, essa «non ha bisogno d’alcun’altra idea ad essa aggiunta per essere intuita»; è, dunque, la più astratta di tutte; e, se non ha bisogno d’altro per essere intuita, è intuibile e conoscibile per se stessa [§ 412]. L’idea dell’essere non proviene dalle sensazioni corporee [§ 413], e Rosmini si accinge a dimostrarlo con otto diverse argomentazioni.
La prima: l’idea dell’essere è oggettiva, non ha relazione con alcun’altra cosa, è assoluta; mentre le sensazioni non ci fanno concepire le cose come sono in sé stesse, ma solo in relazione con noi. «(…) sensazione non vuol dire che modificazione nostra; idea vuol dire concezione di una cosa che esiste indipendentemente da qualunque modificazione o passione d’altra cosa» [§ 415]. Seguono le definizioni di sensazione, percezione sensitiva, idea e percezione intellettiva: la sensazione è una modificazione dell’oggetto senziente, la percezione sensitiva è la sensazione unita ad un termine reale; l’idea è l’essere, o l’ente nella sua possibilità; la percezione intellettiva è l’atto con cui la mente apprende come oggetto un reale, mediante l’idea. «La sensazione dunque è soggettiva, la percezione sensitiva è estrasoggettiva, l’idea è oggetto, la percezione intellettiva è oggettiva» [§ 417]. Ma la sensazione, priva dell’idea, non può che essere un quid incognito; solo per mezzo dell’idea essa ci è nota; i corpi esterni, in se stessi, non solo risultano non cogniti, ma anche non sentiti [§ 422]. Seconda dimostrazione: «(…) le nostre sensazioni non ci danno che delle modificazioni dello spirito nostro, venienti da cose sussistenti: ché le cose meramente possibili non hanno forza nessuna da agire sopra de’ nostri organi, e produrci le sensazioni. Dunque le sensazioni non hanno nulla a che fare cola nostra idea dell’essere, e non ce la possono in nessun modo somministrare» [§ 423]. Dimostrazione terza: l’idea dell’essere, non avendo in se stessa nulla di ordine materiale, è perfettamente semplice, mentre le sensazioni reali sono sempre composte ed estese [§ 426]. Dimostrazione quarta: «(…) i corpi reali diventano molti, il concetto o l’idea del corpo rimane uno sempre: la mente e, ove si voglia, anche più menti il vedono identico in tutti gl’infiniti corpi umani ch’elleno pensano sussistenti»: dunque la natura delle cose reali è opposta alla natura della semplice idea [§ 427]. Dimostrazione quinta e sesta: ogni idea è universale e infinita, ogni singola sensazione è particolare: «l’universale dunque è impossibile trovarsi nella sensazione, o ritrarsi da essa» [§ 428]; inoltre la sensazione reale può essere e non essere, mentre ciò che io contemplo come possibile è in realtà necessario (dato che non può essere impossibile): «(…) dunque l’idea dell’essere, o dell’ente possibile non può trarsi dalle sensazioni» [§ 429]. Dimostrazione settima e ottava: ogni ente possibile si presente alla mente come qualcosa di immutabile (essa non può pensarlo in altro modo) e di eterno, «(…) niente di ciò si riscontra nelle sensazioni mutabili e periture: dunque le sensazioni non possono in alcun modo scorgere la mente a pensare que’ caratteri dell’ente possibile». Infatti all’idea dell’essere pertiene la perfetta indeterminazione, alle sensazioni, la perfetta determinazione [§ 433].
Dopo aver riassunto le prove fornite sulla non deducibilità dell’idea dell’essere dalle sensazioni [§ 437], Rosmini afferma che l’idea dell’essere non proviene neppure dalla propria sussistenza; quest’ultima, infatti, non è altro che una sensazione interna di carattere permanente [§ 438]. Bisogna dunque distinguere fra il sentimento interno dell’Io e la sua idea o percezione intellettuale. Il primo è semplice, la seconda è composta (del sentimento dell’Io e dell’idea dell’essere). L’Io, quindi, è il soggetto, l’idea dell’Io è l’oggetto della conoscenza [§ 439]. «Il sentimento dell’Io mi dà dunque la sensazione della mia esistenza, ma non l’idea dell’esistenza in universale: di più quel sentimento è la mia esistenza stessa: non l’idea dell’esistenza in universale: ma non è per questo la percezione intellettiva della mia esistenza» [§ 440]. Allora il sentimento dell’Io è innato, mentre la percezione intellettiva di me stesso è acquisita [§ 441]. Inoltre, «nell’ordine delle idee, l’idea dell’essere precede l’idea dell’io; perché quella è necessaria, acciocché io mi formi questa» [§ 442].
Conclusione. Se l’idea dell’essere è così essenziale, che sena di essa noi non possiamo neppur pensare; se non si trova nelle sensazioni; se da esse non si può ricavare mediante la riflessione, se non è creata in noi da Dio all’atto della percezione (come voleva Berkeley, che però Rosmini qui non nomina); se l’idea dell’essere non proviene da noi stessi, allora «rimane che l’idea dell’essere sia innata nell’anima nostra, sicché noi nasciamo colla presenza, e colla visione dell’essere possibile, sebbene non ci badiamo che assai tardi» [§ 467].
Tutte le idee hanno origine per mezzo dell’idea dell’essere [§ 473]; tutte, infatti, implicano l’idea dell’essere: «sicché si può dir veramente, che qualunque idea non è mai altro, che o l’ente concepito senza alcun modo, o l’ente più o meno determinato da’ suoi modi; determinazione che forma la cognizione a posteriori, o la materia della cognizione» [§ 474]. Noi riceviamo la materia delle nostre cognizioni alle sensazioni; ma la materia delle nostre cognizioni non è ancora cognizione. «Essa diventa cognizione, quando s’aggiunge la forma, cioè l’essere (…)» [§ 480]. Avendo definito l’intelletto come la facoltà di vedere l’essere indeterminato, «se l’essere è l’oggetto essenziale dell’intelletto e della ragione, dunque queste facoltà (intelletto e ragione) non esistono in noi, se non perché v’ha in noi la vista permanente dell’essere» [§ 481]. Il nostro intelletto e la nostra ragione sono formati dall’idea dell’essere congiunta col nostro spirito: è questo che ci rende esseri intelligenti[§ 482]. Tutti i filosofi, poi – dice Rosmini – sono d’accordo sul fatto che le idee appartengono alla facoltà di conoscere; ora, se questa facoltà riceve l’esistenza dall’unione dell’idea dell’essere col nostro spirito, l’idea dell’essere è il principio sia della facoltà di conoscete, sia di tutte le idee che essa può acquistare [§ 486].
«La percezione è limitata all’oggetto percepito (…); la riflessione, all’incontro, è un ripiegamento della mia attenzione sulle cose percepite». La riflessione, dunque, è generale, è «una percezione di più percezioni» [§ 487]. Ora Rosmini si chiede: «se io mi affissassi in una sola delle mie idee, sarebb’egli questo un atto di riflessione?»; e risponde che è un atto di riflessione, se compio un atto di attenzione volontaria governata da un fine. Se, invece, la mia attenzione si posa involontariamente su una certa idea, allora non si tratta più di un atto di riflessione, ma di attenzione diretta [§ 488]. L e funzioni della riflessione sono quelle di formare le idee di relazione (analisi e sintesi) e di separare, in un’idea, il proprio dal comune (astrazione) [§ 489]. Astrarre, si badi, non è la stessa cosa che universalizzare: «coll’astrazione si toglie via qualche cosa alla cognizione (p. es. le note proprie); coll’universalizzazione si aggiunge, si amplifica (…)» [§ 490].
Inoltre noi, osserva Rosmini, possiamo rivolgere la nostra attenzione a più idee nello stesso tempo: possiamo così formarci delle idee complesse [§ 504]. Intellezioni sono gli atti della mente, e ve ne sono di tre generi: le percezioni intellettive (prima classe), le idee (seconda classe) e i modi delle idee (terza classe) [§ 506]. I modi delle idee sono le astrazioni, o complessi di idee [§ 507]. Nel linguaggio comune, però, anche ad essi si dà il nome di idee, chiamandole idee astratte e idee complesse [§ 508]. Più precisamente, bisognerebbe dire che sono idee astratte, quelle ove si considera isolandone alcune parti dalle altri; idee complesse, quando sono legate fra loro mediante la sintesi [§ 509]. La mente umana compie tre operazioni successive: l’universalizzazione, quando percepisce intellettivamente; l’astrazione sulle percezioni, quando separa dalla percezione l’idea; astrazione sulle idee, quando trae dall’idea gli astratti [§ 509]. Di queste, «l’universalizzazione non ha bisogno della facoltà di riflettere: è un’azione diretta e naturale del nostro spirito» [§ 511]; l’astrazione invece sì [§ 512]. Ora la sintesi primitiva, nella quale è già contenuta l’universalizzazione, è una operazione pressoché involontaria; invece l’astrarre, appartenendo alla riflessione, è una facoltà volontaria; richiede perciò una ragione sufficiente, che spinga la volontà a muoversi[§ 513]. Bisogna dunque vedere quale stimolo si richieda alla percezione, all’idea e all’idea astratta [§ 514]. Ora, «acciocché il nostro spirito percepisca una cosa, è necessario ch’egli l’abbia presente alla sua potenza percettiva»: ossia l’uomo, per poter sentire e pensare, occorre che un termine sia presentato all’atto di questa potenza; e «a questo consegue, che l’azione dello spirito nostro è dal suo termine limitata». Il termine, perciò, non può spiegare un’attività di natura diversa dalla sua [§ 515]. E qui Rosmini osserva che «(…) i corporei cadenti sotto i nostri sensi non possono mover lo spirito alla astrazione, o ad altro atto, ma solo alla percezione»; dunque i sensibili non danno ragione dell’attività dello spirito, mediante la quale si formano gli astratti: «ché gli astratti già sono oggetti insensibili» [§ 516].
Avviene però che l’uomo sappia distinguere, anche se non sempre, le immagini corporee delle cose viste dalle cose in sé stesse (cfr. il mito della caverna di Platone, che però Rosmini non cita) e che, dalle immagini, riesca a formarsi delle idee pure, per via d’astrazione, dividendo le idee dalle percezioni; astrazione che ha la sua ragion sufficiente nelle immagini corporee, così come la ragion sufficiente delle sensazioni sta nella percezione dei corpi [§ 517]. «Colla percezione intellettiva si giudica bensì che il sentito sussiste; ma non si va più in là: tutto termina nel particolare sentito. Quindi la percezione intellettiva è un’idea accoppiata colla percezione sensitiva, aggiuntovi il giudizio sulla sussistenza. Nella percezione intellettiva dunque idea e sensazione sono legate insieme, e obbligate a moversi di concordia, quasi come i due occhi della fronte, anzi l’idea è come un cavallo generoso impedito nel suo moto da un bue col quale è aggiogato, e al passo del quale dev’egli ubbidire» [§ 518].
Ora, se le immagini corporee sono ragion sufficiente perché lo spirito sappia separare le idee dalle percezioni [§ 519], l’attività mediante la quale lo spirito umano si forma le idee astratte è il linguaggio. La cosa avviene in questo modo: poniamo di voler spiegare il formarsi dell’idea di umanità. I sensi non ci mostrano che uomini reali, concreti e particolari; ma l’umanità non è un reale e non può esser percepita dai sensi. Ecco dunque la necessità di quello che Rosmini chiama un segno vicario: un insieme di segni, naturali o convenzionali, che possano fare le veci dei reali e rappresentarli. «Essi dunque sono idonei a significare egualmente un sussistente, una sensazione, un’immagine, un’idea completa, e ancora una parete d’idea, una sola qualità comune a più oggetti isolata da essi, sebbene questa qualità isolata d precisa da essi non sussista fuor della mente, e sol o nella mente esser possa, come oggetto ideale». Pertanto il vocabolo designato a rappresentare un’idea astratta, viene recepito in quanto la nostra attenzione si concentra sulle qualità astratte che il vocabolo vuole indicare, e null’altro [§ 521].
Rosmini, a questo punto, avverte il lettore di non voler entrare nella questione se il linguaggio sia d’origine divina o umana. Ma che esso serva a richiamare l’attenzione sulle idee astratte, è mostrato dal comportamento dei fanciulli, e da come essi «prima intendono il significato dei vocaboli che esprimono le cose sussistenti e reali, ed appartengono a’ lor bisogni, istinti, affetti, e poscia pervengano anche a intendere il linguaggio tutto perfettamente, e a parlare altresì» [§ 522].
Noi possiamo aver percezione intellettiva solo di noi e dei corpi [§ 528]; «Ciò che dobbiamo fare qui è dunque questo solo, di dare una spiegazione sufficiente di quel giudizio col quale diciamo, in conseguenza delle sensazioni: – Esiste un qualche cosa diverso da noi -; giudizio che genera la percezione dei corpi, cioè la persuasione della loro attuale e particolare esistenza (sussistenza)» [§ 529]. Viceversa «l’idea dell’essere, che è in noi, non ci fa conoscere da se sola niun ente particolare, ci mostra la possibile esistenza di un ente qualunque».
L’idea dell’essere ci si presenta in due modi: applicandola a un reale oppure no; nel secondo caso noi pensiamo la mera possibilità di enti, nel secondo la loro sussistenza: e questo è il giudizio, un atto della mente che non aggiunge nulla all’idea di esistenza. Pensare l’idea dell’essere, d’altra parte, è pensare una azione prima; la sensazione è un’azione, ma non fatta da noi, e che presuppone, quindi, una azione prima, un’esistenza. Inoltre le sensazioni sono azioni determinate, dunque presuppongono un’azione prima determinata. Il giudizio, allora, non è altro che la percezione della cosa reale, che riconosciamo come appartenete al nostro pensiero. «In un sì fatto giudizio, noi raccogliamo, per così dire, il nostro spirito (che prima, senza un punto ove concentrarsi, stava espanso immobilmente sull’essere possibile vacuo, uniforme), lo raccogliamo, dico, nell’ente particolare e limitato, come in quello ov’egli trovi l’essere realizzato, e ravvisa ciò che conosceva, e quasi direi cercava. (…) Qual meraviglia che io ravvisi e riconosca un’azione particolare, quando ho già in me la nozione dell’azione universale?» [§ 530]. L’essenza dell’intendere le cose sussistenti altro non è che dare l’assenso, mediante il giudizio, a quell’essere che già noi pensiamo, riconoscendogli una certa sussistenza in una maniera particolare [§ 535]. Si tratta di una legge dell’intelligenza non soggettiva, ma oggettiva, in quanto non è possibile pensare il contrario: «conoscere non è che concepire una determinazione dell’essere possibile o comune, determinazione che lo rende un ente proprio» [§ 536]. Da questa teoria, dice Rosmini, emerge la soluzione al quesito di Cartesio, se l’anima pensi sempre: «l’anima è intelligente, perché ha continuamente la visione dell’essere»; non perché abbia presenti tutte le idee, ma perché ha presente l’idea prima, cioè l’essere [§ 537].
L’essere indeterminato, presente al nostro spirito, è come una tavola rasa: è come un figlio che la potenzialità di ricevere qualunque determinazione particolare di esistenza [§ 538]. È chiaro, dunque, che l’idea dell’essere scioglie la difficoltà generale del problema dell’origine delle idee [§ 539]. Dalla dottrina rosminiana, viceversa, appare che l’essere ideale è di natura diversa sia dal nostro spirito, né con i copri, né con altro che appartenga all’essere reale [§ 555]. Ma l’essere ideale, o idea, non è il nulla; gli empiristi l’hanno creduto tale solo perché non è percepibile coni sensi esterni [§ 556]. L’idea dell’essere aderisce intimamente al nostro spirito, perché «non afferma, e non niega; ella solo costituisce la nostra possibilità tanto di affermare che di negare» [§ 557[.
Poi Rosmini passa ad esaminare l’origine dei principi del ragionamento. Il primo principio è di cognizione, per cui diciamo che l’oggetto del pensiero è l’essere; il secondo, quello di (non) contraddizione [§ 559]. «La proposizione annunzia un giudizio. Il giudizio è il rapporto tra due termini: predicato e subietto. I principi dunque della ragione essendo altrettanti giudizi, risultano da un predicato e da un subietto» [§ 560]. Il principio di contraddizione afferma che «ciò che è (l’essere) non può non essere»; dunque, non si può pensare ad un tempo l’essere e il non essere: ma, se si toglie l’essere, non resta più a cosa pensare: «perciò il principio di contraddizione non è altro che la possibilità di pensare» [§ 561]. Il terzo principio è quello di sostanza: «non si po’ pensare l’accidente senza la sostanza»; il quarto è quello di causa: «non si può pensare una nuova entità senza una causa» [§ 567]. Ora, il principio di causa discende dal principio di (non) contraddizione: se ogni avvenimento ha una causa che lo produce, noi possiamo esprimere questo concetto anche così: «è impossibile all’intelligenza di pensare un avvenimento senza pensare una causa che lo abbia prodotto». Ma concepire un’operazione senza un ente, è concepire senza concepire; inoltre, se un’operazione non avesse causa, sarebbe priva di ente, il che sarebbe come dire che opera ciò che non esiste.
Poi Rosmini passa a considerare i principi del ragionamento in generale. Essi «non sono che altrettante idee, delle quali si fa uso per giudicare» [§ 570]. E così come il principio dell’etica è la giustizia, così possiamo dire che «generalmente, l’essenza delle cose è il principio de’ ragionamenti che si fanno intorno ad esse» [§ 572] Quindi, «il principio di ciascuna scienza è la definizione, che esprime l’idea essenziale della cosa intorno a ci la scienza si aggira» [§ 573]. Le idee pure, o idee elementari dell’essere, che stanno alla base di qualunque ragionamento, sono quelle di unità, dei numeri, di possibilità, di universalità, di necessità, d’immutabilità e di assolutezza [§ 575]. Tutti questo concetti sono racchiusi nell’essere ideale: «sono – afferma Rosmini – suoi caratteri, sue naturali qualità» [576].
Da ultimo, il Nostro prende in esame le idee "non pure", ossia quelle che si formano mediante il sentimento: come l’idea del nostro corpo, che si forma per mezzo del sentimento fondamentale. In effetti, noi possiamo percepire il nostro corpo in due modi: soggettivamente, attraverso i cinque organi di senso (come quando un organo del mio corpo ne percepisce un altro): e allo stesso modo posso percepire un corpo diverso dal mio; oppure extrasoggettivamente. Si tratta, in questo caso, di «quel sentimento fondamentale ed universale pel quale noi sentiamo la vita essere in noi», e anche di quelle «modificazioni che soffre il medesimo sentimento mediante le sensazioni avventizie e particolari». Nel secondo caso «noi percepiamo il nostro corpo come una cosa con noi; (…) è da noi sentito come consenziente»; nel primo, lo percepiamo puramente nei suoi dati esteriori [§ 701]. La maniera soggettiva di percepire il nostro corpo, a sua volta, si suddivide in due: una è il sentimento fondamentale, l’altra è la modificazione di tale sentimento. Questo secondo modo soggettivo è bene esemplificato dal Rosmini con la similitudine della mano: «Ove con una superficie ruvida noi freghiamo il dorso della mano, sentiamo due cose: la mano, e la superficie colla quale freghiamo la mano: e la prima di queste cose è ciò che dissi modificazione del sentimento del corpo nostro; la seconda è la percezione sensitiva di quella ruvida superficie» [§ 703]. Questa duplicità della sensazione, in genere, viene poco notata, anche se unica è la causa tanto del sentimento soggettivo, come della percezione extrasoggettiva proveniente dai sensi [§ 704]. La sensazione è una modificazione del sentimento fondamentale del nostro corpo: infatti noi sentiamo le parti di esso nello stato in cui sono; se mutano stato, muta anche il sentimento che ne abbiamo [§ 705]. Tali mutamenti avvengono con il mutare degli oggetti e delle condizioni esterne, senza alcun concorso di volontà da parte del sentimento fondamentale [§ 706]. La percezione sensitiva dei corpi è la percezione della passività dell’anima di fronte all’azione (e si potrebbe quasi dire, per Rosmini, una "violenza") di un corpo esterno [§ 707]. Ma il nostro corpo è altro dai corpi esterni, come è provato dal fatto che proviamo due specie diverse di sentimenti, se due forze diverse agiscono su noi: l’una che provoca il sentimento fondamentale, l’altra che modifica la materia di questo sentimento [§ 708]. Molto efficace, dal punto di vista psicologico oltre che logico, la descrizione che Rosmini fa del meccanismo del sentimento fondamentale, e acutamente osserva. «chi non ha potuto distinguere il sentire dall’accorgersi di sentire, questi non è mai venuto ad intendere in che consista la differenza essenziale tra la sensazione e l’idea. La sensazione non può accorgersi mai di se stessa. È l’intendimento quegli che s’accorge della sensazione (…)» [§ 710]. Rosmini, poi, chiarisce che per sentimento fondamentale non intende affatto una specie di immagine visibile o tattile del nostro corpo [§ 712]. Non si tratta di una immagine della figura o della grandezza del nostro corpo [§ 714], bensì di un sentire originario, anteriore alle sensazioni [§ 714]. Poi si volge nuovamente contro la teoria sensista sull’origine delle idee: «I filosofi che immaginano l’uomo a principio privo di ogni sentimento, lo fanno veramente una statua; e quando in questa statua, che non è un soggetto sensitivo, pretendono che al toccamento de’ corpi esterni nascano le sensazioni, sebbene nella statua nulla ci sia di simile, descrivono allora un procedimento inesplicabile, un mistero contrario all’ordine consueto della natura» [§ 718]. Anche per questa via, cioè per via d’esclusione (le sensazioni, da sole, non possono spiegare l’origine delle idee), si giunge ad ammettere l’esistenza del sentimento fondamentale [§ 719]. La sensazione, per Rosmini, è invece formata da due elementi: 1° la sensazione che è in noi (fatto di cui hanno abusato gli idealisti); e 2° la sensazione che è i noi, ma come termine di un’azione che proviene dall’esterno, da qualcosa che è diverso da noi [§ 879]. Ora, «la coscienza ci dice: 1° che siamo modificati, 2° che questa modificazione è un’azione fatta in noi non da noi; e ci dice queste due cose ad un istante medesimo, quasi direi con una sola voce» [§ 880]. Inoltre, «tutto ciò che entra nella sensazione per sé considerata (e non nel modo onde viene prodotta) è soggettivo: e tutto ciò che entra nel concetto della nostra passività, attestataci dalla coscienza, è estrasoggettivo» [§ 881]. Le parti soggettive presenti nella sensazione sono: la sensazione di una forza in atto, che opera su noi; la molteplicità di tali forze, quindi la molteplicità dei corpi; le forze operanti possiedono un’estensione continua, in quanto non esiste un punto che si sottragga ad esse [§ 882]. La molteplicità, d’altra parte, non à una proprietà reale della natura corporea, bensì qualcosa che possiamo immaginare nell’estensione continua [§ 884]; l’estensione origina una serie di proprietà extra-soggettive (figura, movimento, ecc.), perché sono nei corpi stessi e non solo in noi [§ 885]. «Quindi la celebre distinzione tra le proprietà primarie e secondarie de’ corpi ha il suo fondamento nella natura. Solo ce le prime meglio appellar si converrebbe estrasoggettive, soggettive le seconde» [§ 886].
Alla fine dell’opera, Rosmini ricapitola i punti salienti di essa.
«Le potenze originali dell’anima – dice – sono due: un senso per le cose particolari ed un senso per le cose universali. Il senso per le cose particolari costituisce la potenza che si chiama più propriamente sensitività e il senso per le cose universali costituisce la potenza che si chiama più comunemente intelletto» [§ 1.020]. «Il termine essenziale della sensitività è sua materia, mentre il termine essenziale dell’intelletto è oggetto o forma del medesimo» [§ 1.021]. «La sensitività è esterna o interna: l’esterna ha per termine essenziale il corpo, materia corporea estesa; l’interna ha per termine il sentimento dell’Io e l’idea» [§ 1.022]. Il concetto di ente sensitivo viene abolito, qualora si tolga la materia della sensitività; non così qualora si abolisca la forma dell’intelletto: «quindi l’idea dell’essere in universale è vero oggetto appreso, e distinto dall’ente sensitivo(…)» [§ 1.023]. Ne consegue che «l’intelletto è un’intuizione; ma la sensitività non è che un primitivo sentimento» [§ 1.024]. Vi è poi una unità intima del sentimento fondamentale, in quanto l’Io è atto a vedere i rapporti in generale e da essa nasce un’attività che è la ragione, di cui la sintesi primitiva è la prima funzione [§ 1.025]. Ora, «la sintesi primitiva è quel giudizio col quale la ragione acquista la percezione intellettiva». La percezione intellettiva ha origine dallo stimolo della sensitività esterna, che agisce dai corpi esterni sul nostro organismo; e la percezione sensitiva, originata dalla modificazione del nostro sentimento fondamentale [§ 1.026]. «Quindi la materia prima delle cognizioni umane somministrare dalla sensitività consiste: 1° in un sentimento dell’Io percettivo del corpo (sentimento fondamentale); 2° nelle sensazioni o modificazioni di questi sentimento; 3° nelle percezioni sensitive de’ corpi» [§ 1.027]. Gli atti diretti della ragione sono quelli che universalizzano le particolari affezioni dello spirito. Nasce così la percezione intellettiva, sintesi della materia prima della sensitività e dell’idea dell’essere [§ 1.028]. «Gli oggetti della riflessione», invece, «sono tutti gli atti del nostro spirito in quanto egli è ragionevole, e i termini di questi atti. (…) Quindi gli oggetti della riflessione consistono: 1° in un sentimento dell’Io percettivo dell’idea dell’ente in universale; 2° negli atti della facoltà d’universalizzare; 3° negli atti della riflessione e ne’ suoi termini o risultati. La riflessione ha due operazioni, la sintesi e l’analisi; scompone ed unisce. All’analisi appartiene la facoltà d’astrarre». [§ 1.029] «Gli stimoli esterni movono la sensitività esterna; gli istinti fisici movono a principio la fantasia, e suscitano la facoltà d’universalizzare. Le immagini corporee svegliano la potenza di dividere le idee dalle percezioni. Il linguaggio solo, ricevuto dalla società, può trarre al suo atto la facoltà delle idee astratte, e dar con essa all’uomo il dominio delle proprie potenze, l’uso della libertà». [§ 1.030]. «La libera attività, o sia il dominio delle proprie potenze acquistato dall’uomo mediante le idee astratte somministrate dal linguaggio, vale a dar moto finalmente a tutte le sue potenze, e apre libero il campo dell’indefinito sviluppamento delle varie facoltà umane». [§ 1.03]
E così, con questo magnifico atto di fede nella libertà umana e nell’originale affermazione che essa nasce, mediante il linguaggio, dalla capacità di formare idee astratte, si conclude il Nuovo saggio sull’origine delle idee.
CONCLUSIONE.
Il Nuovo Saggio sull’origine delle idee rappresenta una tappa fondamentale della speculazione filosofica di Antonio Rosmini e, per certi aspetti, ne costituisce l’aspetto più originale e sicuramente uno dei più caratteristici. Essa è
"Fondata su un ritorno all’innatismo di tipo agostiniano, ma limitato ad una sola idea. Quella dell’essere (esistenza). L’«essere ideale», lume della ragione, è l’essere «possibile», da distinguersi da qualsiasi ente particolare e dall’esistenza attuale. È l’idea più generale e astratta che si possa avere (simile all’«Essere» con cui comincia la Logica di Hegel, ma in contrasto polare col Nulla) dotata di caratteristiche tali (oggettività, semplicità, necessità, universalità, immutabilità) per cui deve provenire da Dio stesso: essa è conoscenza «abituale», cioè presente in qualsiasi altra idea, e si impone con evidenza (intuizione intellettuale) allorché la riflessione si soffermi su di essa. Tra l’ideale e il reale c’è la differenza che passa fra l’intelletto puro da una parte e, dall’altra, il senso e il sentimento. Per Rosmini, la sensazione è irrimediabilmente soggettiva (e questo è un punto decisivo d’accordo col sensismo e di contrasto col tomismo), in quanto modificazione di quel «sentimento fondamentale» del nostro corpo che ci accompagna sempre, e l’oggettività si ha solo la sensazione e il sentimento soggettivo vengono investiti dall’idea dell’essere, dando così luogo all’idea d’un ente reale. L’idea dell’essere è quindi l’elemento formale della conoscenza, che s’unisce a quelli materiali in una «sintesi a priori», o «percezione intellettiva». Fornendo le idee delle cose particolari, questa fornisce immediatamente le idee di sostanza e causa, e rende possibile la formazione delle idee universali e astratte e di quelle complesse. La funzione oggettivante dell’idea dell’essere garantisce comunque per Rosmini il realismo gnoseologico di contro a quello scetticismo (o fenomenologismo) che rappresenta altrimenti la conclusione logica della tesi della soggettività delle sensazioni e del sentimento. Il concetto della sintesi a priori è derivato da Kant; ma l’idea rosminiana dell’essere non è una mera categoria, perché la sua funzione formale nel conoscere è condizionata dalla sua derivazione dall’Essere supremo stesso: l’essere ideale è qualcosa di ‘divino’ presente nell’uomo; anche se non va confuso con Dio (di contro alle accuse di panteismo), poiché Dio, persona assoluta, non può certo esser scambiato con un concetto generalissimo." (6)
Anche per Antonio Da Re, il Nuovo saggio sull’origine delle idee costituisce il momento centrale e più originale del sistema filosofico di Rosmini. Tale originalità risiede nell’aver posto l’idea di esere a fondamento delle idee pure o "a priori", che non dipendono dal sentimento perché non traggono origine dai sensi esterni. L’idea di essere è anche alla base dei primi principi del ragionamento: il principio di cognizione, quello di contraddizione e quelli di sostanza e di causa.
"Partendo da un’analisi critica dell’intera storia della filosofia, in particolare di quella moderna, Rosmini affronta la questione dell’origine delle idee, per trovare risposta alla domanda di quale sia il fondamento della nostra conoscenza. Egli critica in primo luogo le teorie «false per difetto» (Locke, Condillac, la scuola scozzese di Reid e Dugald Stewart), le quali hanno sottovalutato il ruolo delle idee, riconducendole alla mera esperienza sensibile; le «teorie false per eccesso» (Platone, Aristotele, Leibniz, Kant), al contrario, hanno sopravvalutato il ruolo delle idee. Nella seconda parte dell’opera, Rosmini espone la propria teoria: tutte le idee traggono origine da un’idea prima, l’idea dell’essere, la quale è semplice, unica, indeterminata, oggettiva, necessaria, universale, e quindi anche immutabile ed eterna. Tale idea non deriva né dall’esperienza sensibile né dall’idea, determinata, dell’io; non è il risultato di un’astrazione., è innata e frutto di un’intuizione immediata. L’idea dell’essere costituisce l’unica vera forma e ad essa devono quindi essere ricondotte le molteplici forme di Kant, ritenute superflue per spiegare l’origine delle idee, non solo: tali forme sono soggettive, mentre l’idea indeterminata di essere è oggettiva. Sull’idea di essere come suprema forma o suprema categoria dell’ordine intellettivo si fondano i primi principi del ragionamento e le idee pure o a priori, che non dipendono dal sentimento ovvero dall’esperienza sensibile. I primi principi comprendono il principio di cognizione, in base al quale «l’oggetto del pensiero è l’essere», e i principi di contraddizione, di sostanza e di causa; le idee pure, contrariamente a quanto affermavano Locke e Hume, sono quelle di sostanza e di causa. Le idee non pure o a posteriori si formano attraverso l’applicazione delle idee pure al sentimento; esse includono l’idea di corpo (rilevante è l’idea del sentimento corporeo fondamentale, quale modalità propria di conoscenza della vita e del nostro corpo), di tempo, di movimento, di spazio." (7)
Concludiamo riportando un brano dedicato alla gnoseologia di Rosmini dal compianto Ernesto Balducci., la cui storia della filosofia ad uso scolastico è, probabilmente, una delle più acute e illuminante nel senso di un autentico ecumenismo e di una autentica interculturalità (vi si trovano pagine sul pensiero indiano, cinese, giapponese accanto a quelle sui pensatori europei; e vi si dissolve la favola dell’invenzione della filosofia da parte dei Greci, nel VI secolo avanti Cristo).
"L’epiteto di ‘Kant italiano fu attribuito ad Antonio Rosmini in forza della convinzione che nella sequenza Rosmini-Gioberti si era riprodotta, in Italia, quella tedesca Kant-Hegel. Si tratta di una semplificazione che certo non avrebbe incontrato il gradimento del filosofo di Rovereto, che considerava il suo omologo tedesco come uno dei responsabili del soggettivismo scettico, alla pari dei sensisti. L’accostamento tra Rosmini e Kant regge davvero in un sollo punto: nell’aver posto ambedue, come preliminare a ogni ricerca filosofica, l’analisi della conoscenza, allo scopo di verificarne la validità e il funzionamento. Anche Rosmini, come Kant, si trova davanti due tradizioni, quella sensistica e quella razionalistica, che egli chiama ‘innatista’. I sensisti, nella spiegazione dell’origine delle idee, hanno peccato per difetto, nel senso che la loro spiegazione, come ben vide Kant, non riesce a fornire la causa sufficiente del carattere di universalità proprio della conoscenza umana; gli innatisti hanno peccato per eccesso, perché hanno collocato nella mente dell’uomo le idee universali indipendentemente dall’esperienza, come fecero, ad esempio, Platone e Leibniz. Per Rosmini, Kant rientra nella loro serie. Egli si propose, infatti, di trarre tutti i vantaggi possibili dalla dottrina del sensismo, ma poi, per tirarsi fuori dai limiti dell’intuizione sensibile, elaborò la dottrina delle categorie, nelle quali riposa il principio dell’universalità e della necessità del giudizio. Ma le forme a priori dell’intelletto sono pur sempre soggettive, in quanto ineriscono al soggetto come sue funzioni, e pertanto non possono far da fondamento della vera oggettività, come lo stesso Kant è costretto a riconoscere quando relega le cose in sé nel mondo dell’inconoscibile.
"C’è una sola via per evitare Scilla e Cariddi, il difetto dei sensisti e l’eccesso degli innatisti, quella di fondare, sì, l’universalità del giudizio nella sintesi a priori, ma a condizione che la categoria che fornisce il predicato universale sia non soltanto una funzione della mente nella sua attività di giudizio, ma, in prima istanza, un suo vero e proprio oggetto. Questa categoria – una sola, al posto delle diciassette che Kant è costretto a mettere in campo – è l’idea dell’essere. Si tratta di un’idea assolutamente indeterminata, che possiamo rappresentarci se da un oggetto determinato (questo albero, questa casa, e così via) togliamo una dopo l’altra tutte le determinazioni concrete. L’idea dell’essere non può venirci dalle cose, per l’evidente ragione che essa è per l’appunto il presupposto della conoscenza di qualsiasi essere determinato, né può venirci da noi stessi, perché, per avere la conoscenza di me come essere esistente, ho bisogno ancora una vola di quell’idea. La quale può anche essere detta ‘innata’, ma non nel senso che si trovi in noi come oggetto mentale in tutto e per tutto compiuto. È innata in quanto è la condizione di ogni intelligibilità, una condizione indipendente sia dall’oggetto che dal soggetto, così come la luce che mi rende visibile questo foglio non è una proprietà del foglio, né una proprietà dei miei occhi. Il primo modo con cui l’essere ideale (così Rosmini chiama l’idea dell’essere) illumina la mente è quella del principio di contraddizione, in base al quale ciò che è, è, e ciò che non è, non è. Ecco perché l’idea dell’essere è la forma della verità: ogni affermazione e ogni negazione rimandano infatti, come a loro principio, a questa idea primordiale.
"Stabilita questa suprema condizione del conoscere, anche per Rosmini la conoscenza è un procedimento sintetico in due gradi, il sensitivo e l’intellettivo.
"La percezione sensitiva è la sintesi tra la sensazione, che è una modificazione passiva del soggetto senziente, e il sentimento fondamentale. Non esistono, per Rosmini, le forme pure dell’intuizione sensibile poste da Kant (lo spazio e il tempo), esiste, come dato a priori, il sentimento con cui il soggetto umano avverte se stesso in quanto pura corporeità, anteriormente a qualsiasi sensazione, e nel quale si trascrivono, come in uno schermo, le sensazioni, in quanto modificano, in modi determinati, quella sensazione di sé indeterminata. Senza lo stimolo esterno, il sentimento fondamentale rimarrebbe inerte, senza questo sentimento gli stimoli esterni resterebbero senza nessuna risposta.
"La percezione intellettiva è la sintesi tra quanto fornisce la percezione sensitiva e l’idea dell’essere. Essa si esprime nel giudizio, che è un atto della ragione (Rosmini distingue la ragione dall’intelletto, la cui proprietà è l’intuizione dell’essere ideale), mediante il quale l’essere indeterminato viene determinato a seconda dei contenuti offerti dalla sintesi percettiva, come quando dinanzi a una stella dico: «Questo è un corpo luminoso». Le competenze della ragione non si esauriscono nel pronunciare un giudizio in presenza di una sintesi percettiva, comprendono anche la capacità di isolare l’idea dagli altri elementi della percezione, in due maniere fondamentali, l’universalizzazione e l’astrazione. Si ha l’universalizzazione quando, per restare all’esempio, percepita una stella, io prescindo del tutto dal pensiero della sua sussistenza attuale e ne mantengo l’immagine considerandola come stella possibile, come esemplare di tutte le stelle che potrebbero essere realizzate dal Creatore; si ha l’astrazione quando tolgo all’idea nata nella percezione quasi tutte le determinazioni eccetto alcune, come quando dall’idea di stella scarto tutte le determinazioni a partire da quella di sussistenza, come la grandezza, la forma, il rado di luminosità e così via. Cosa resta? Resta l’idea di stella, che non può confondersi con l’idea di nessun’altra cosa.
"È in virtù di queste sue competenze chela ragione stabilisce anche i principi del ragionamento, dedotti dall’idea dell’essere. Ad esempio, l’idea di causa deriva dal principio di non contraddizione: se conosco un’operazione (come lo stimolo sensitivo), deve esistere anche una sua causa, dato che ciò che non esiste non è in grado di compiere operazioni. È dunque nelle possibilità della ragione, facendo fulcro sull’oggetto primo dell’intelletto, l’essere ideale, trapassare dall’ordine gnoseologico all’ordine ontologico. L’essere ideale, infatti, non è l’essere sussistente, è l’«essere in quanto ‘intelligibile». Se la nostra conoscenza fosse perfetta, noi conosceremmo l’essere sia come ideale che come reale, conosceremmo Dio. E invece, nella nostra intuizione resta nascosta la realtà dell’essere ideale, che si fa accessibile solo negli esseri finiti. Essa si manifesta allorché applichiamo ad essi l’idea dell’essere. In quel momento, non siamo noia determinare l’oggettività delle cose, sono le cose che si rivelano oggettive. È così che Rosmini ritiene di aver fondato razionalmente la possibilità della metafisica, congiungendo alla prospettiva gnoseologica del pensiero moderno quella ontologica del pensiero classico." (8)
NOTE
1) MORAVIA, Sergio, Educazione e pensiero. Corso di filosofia e pedagogia per l’istituto magistrale con antologia di testi, Firenze, Le Monnier, 1983, vol.3, pp. 228-230.
2) BARAVALLE, Giovanni, Storia della filosofia per la scuola secondaria superiore, Cuneo, Bertello Edizioni, 1988, vol. 3, pp. 173-175.
3) MONDIN, Battista- SALVESTRINI, Fernando, Pedagogia e filosofia. Storia e problemi, Milano, Editrice Massimo, 1978, vol. 3, pp. 117-119.
4) ROSMINI, Antonio, Nuovo saggio sull’origine delle idee, a cura di M. F. Sciacca, Milano, A. Mondadori Editore, 1943.
5) Cfr. LAMENDOLA, Francesco, Conoscere è ricordare. Struttura e temi del «Menone» platonico, sul sito della Casa Editrice Arianna.
6) Enciclopedia garzanti di Filosofia, Milano, Garzanti, 1986, p. 808.
7) DA RE, Antonio, in Dizionario delle opere filosofiche (a cura di Franco Volpi), Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 909.
8) BALDUCCI, Ernesto, Storia del pensiero umano, Città di Castello, Edizioni Cremonese, vol. 3, pp. 183-186.
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