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Donne contro l’apartheid: ricordo di Ruth First

Ruth First, militante anti-razzista, comunista, bianca sudafricana. Processata e condannata "per alto tradimento" dai tribunali razzisti. Uccisa il 5 agosto 1982 con un pacco-bomba, a Maputo.

A tanti anni di distanza dalla sua morte (da lei messa in conto per la causa abbracciata) il suo ricordo parla ancora. Il suo esempio di vita "buttata" per far riconoscere i diritti dell’uomo, di ogni uomo, al di sopra di ogni interesse economico e di ogni impresa di sviluppo industriale e finanziario, è ricco di significato per tutti.

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista "Raggio. Fatti, problemi, linee della missione", mensile delle missionarie della Nigrizia, Verona, n. 7 del settembre 1987 (anno 53), pp. 21-22. Anche se l’apartheid è stata abolita fra il 1985 (legalizzazione dei matrimoni misti) e il 1991, è giusto ricordare quanti hanno pagato di persona un alto prezzo per consentire la creazione di una società più rispettosa dei diritti fondamentali dell’essere umano anche in un paese che, come il Sudafrica, ha vissuto il dramma secolare dell’incontro-scontro fra civiltà radicalmente diverse, incapaci di dialogo a causa di antichi e radicati pregiudizi.

Maputo, capitale del Mozambico indipendente, 17 agosto 1982. Un pomeriggio come tanti dell’inverno australe, caldo ma non afoso. All’Università "Eduardo Mondlane", presso il "Centro de Estudos Africanos (C.E.A.), viene recapitato un pacco indirizzato alla professoressa Ruth First. È lei stessa che lo apre, poco dopo, nell’ufficio in cui lavora indefessamente da cinque anni. La donna non nutre alcun sospetto o, per meglio dire, ha rinunciato a ogni precauzione che possa intralciare i suoi rapporti umani e di lavoro. Sa di essere nel mirino dei razzisti sudafricani, e specialmente dei servizi di sicurezza di Pretoria, poiché vari attentati hanno già colpito, a Londra e altrove, esponenti dell’A.N.C. (African national Congress) e dell’opposizione all’apartheid. Tuttavia, chiunque può avvicinarla all’Università. Non vi sono diffidenze né controlli.

Dall’ufficio giunge il fragore di un’esplosione. Il pacco indirizzato a Ruth First conteneva un ordigno mortale, confezionato con vile e meticolosa abilità. La donna rimane uccisa. Alcuni dei suoi amici e collaboratori – tra cui il direttore del C.E.A., Aquio de Bragança – rimangono feriti.

UNA VITA CONTRO L’APARTHEID.

Chi era questa donna di cinquantasette anni, e perché una professoressa di razza bianca era così odiata dai razzisti bianchi del Sud Africa? Perché costoro l’avevano giudicata tanto pericolosa da volerla eliminare fisicamente, dopo averla già costretta all’esilio?

Ruth First non è una guerrigliera dell’A.N.C., pur appartenendo a tale organizzazione. Non è una sostenitrice di teorie violente, pur credendo – da marxista militante nel Partito comunista sudafricano – nello sbocco rivoluzionario della società di quel Paese. Le sue armi sono esclusivamente la penna, l’insegnamento, la ricerca sul campo, poste al servizio del nuovo Mozambico sotto la guida del F.R.E.L.I.M.O. e, attraverso di esso, del riscatto di tutti i popoli oppressi dell’Africa australe: non solo dall’apartheid e dal colonialismo, ma anche dalla dipendenza economica, dall’emigrazione forzata, dalla fame.

È nata a Johannesburg nel 1925 da genitori ebrei di fede comunista, emigrati dai Paesi Baltici. Da ragazza ha potuto osservare non solo i prodromi storici della politica di apartheid, ma anche le ripercussioni economiche del dopoguerra e il progressivo peggioramento delle condizioni di vita della maggioranza nera sudafricana. Iscritta dal 1942 all’Università di Witwatersrand, si laurea in sociologia maturando la sua scelta politica e morale di lotta senza quartiere al razzismo.

Lo sciopero generale dei minatori neri del 1946 e la sua feroce repressione le forniscono la spinta definitiva. Si iscrive al Partito comunista e inizia una febbrile attività giornalistica in senso progressista, resa sempre più difficile dalla censura e dalla soppressione, l’uno dopo l’altro, dei vari giornali anti-razzisti ai quali collabora. Mentre il presidente D. F. Malan, capo del Partito nazionalista, porta alle estreme conseguenze il modello giuridico della segregazione razziale, Ruth va maturando le due concezioni-cardine del suo pensiero di intellettuale militante, cui resterà sempre fedele. La connessione esistente tra le lotte di liberazione di tutti i popoli oppressi, grandi e piccoli, vicini e lontani; e la certezza che l’apartheid non è un residuo coloniale di un popolo di agricoltori arretrati – i Boeri – destinato quindi a sgretolarsi per sua natura, ma al contrario un elemento essenziale del moderno capitalismo sudafricano, basato sullo sfruttamento razionale della forza-lavoro migrante dei neri, sia dentro il Sudafrica che nel contesto regionale dell’Africa australe. S’illudono quindi, o barano con la propria coscienza, quei bianchi liberal che si aspettano il miglioramento della condizione dei neri dallo sviluppo industriale e finanziario sudafricano: al contrario, proprio quello sviluppo ribadisce la loro crescente oppressione economica e politica.

Diagnosi che resta oggi di estrema attualità e che dovrebbe seriamente far riflettere sulle varie politiche occidentali del cosiddetto "impegno costruttivo", dietro le quali si celano gli inconfessabili interessi economici di U.S.A., Germania e Gran Bretagna: interessi funzionali al sistema di apartheid e incompatibili, al contrario, con il suo smantellamento.

IL CARCERE E L’ESILIO.

Ruth e suo marito, Joe Slovo, un avvocato comunista militante, sono arrestati una prima volta nel 1956 e, poco dopo, rilasciati. Non per questo ella recede dalla lotta intrapresa.

Nel 1963, a conclusione di una minuziosa ricerca sul campo, in Namibia, pubblica il volume South West Africa, in cui si profetizza che il governo di Pretoria non sarà mai disposto a trattare in buona fede sul destino dell’"ultima colonia" (che allora non era tale).

Intanto, la stretta repressiva aumenta, dopo che – nel 1960 – il massacro di Sharpeville, in cui perdono la vita 69 inermi dimostranti, ha aperto una nuova fase della lotta politica in Sudafrica. Mandela, leggendario capo dell’A.N.C., è incarcerato nel 1962. In quello stesso anno, ad agosto, Ruth è nuovamente arrestata, rilasciata, di nuovo incarcerata: rimane in prigione per 117 giorni esatti, senza processo. Su tale esperienza pubblicherà poi il libro 117 Days (tradotto in italiano nel 1971 col titolo Novanta giorni o l’eternità.

Subito dopo ella sceglie l’esilio volontario, prima a Londra, poi – dopo l’indipendenza dell’Angola e del Mozambico dal Portogallo (1975), a Maputo. In quest’ultima città, Ruth trascorrerà gli anni forse più fecondi della sua attività di intellettuale impegnata nel concreto, di ricercatrice al servizio di un progetto d’emancipazione umana.

DIFFICILE RICOSTRUZIONE.

Il Mozambico all’indomani dell’indipendenza era, ed è tuttora, travagliato da un gravissimo marasma economico. La partenza precipitosa dei coloni e lo smantellamento indiscriminato di molte infrastrutture, avevano aggravato una crisi alimentata dalla guerriglia – proseguita ora, sul versante neocolonialista, dal gruppo R.E.N.A.M.O. – e soprattutto da uno stato di cronica dipendenza dell’economia locale da quella sudafricana. Pesante eredità degli anni del dominio portoghese che, non avendo la forza finanziaria per sfruttare in prima persona la colonia, l’aveva "sub-appaltata" al potente vicino, specie col lavoro migrante di minatori a contratto stagionale, sotto-pagati e il cui esodo rendeva cronico lo stato di abbandono delle campagne mozambicane.

Convinta che la sua dottrina economica e sociologica potesse venire utilmente impiegata al servizio della ricostruzione economica avviata dal F.R.E.L.I.M.O., Ruth aveva fatto della teoria marxista il fondamento della ricerca (non dogmatico, però), e della ricerca sul campo: il termometro per la verifica della teoria. Immagazzinare dati, sollevare sempre nuovi problemi, verificare i punti deboli della teoria economica socialista – che sognava di vedere estesa a tutta l’Africa australe: questi gli imperativi dei suoi ultimi anni, che la videro stimolatrice instancabile di centinaia di studenti e ricercatori. E tutti coloro che hanno lavorato con lei al C.E.A. la ricordano così: esigente, operosa, totalmente dedita all’impegno della ricostruzione.

Vi è un’analogia fra la sua morte e quella del presidente mozambicano Samora Machel, precipitato il 19 ottobre scorso, col suo aereo, in territorio sudafricano. Tra i due avvenimenti si colloca il bombardamento di Maputo da parte dell’aviazione razzista, il 26 maggio 1983. L’ombra del Sudafrica bianco incombe minacciosa, oggi come allora, sugli Stati vicini, eternamente ricattati e destabilizzati sul terreno economico e su quello militare.

E le parole di Ruth, oggi più attuali che mai, amminiscono che

"… la liberazione nazionale della massa degli sfruttati può venir raggiunta solo contestualmente all’abolizione del capitalismo in Sudafrica… La doppia contraddizione del Sudafrica – di classe e di razza – può venir risolta solo in modo unitario." (1)

1) Da Regimi coloniali dell’Africa australe, in Ruth First: alle radici dell’apartheid, Franco Angeli Editore, 1984.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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