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Qual è il problema che si pose s. Tommaso d’Aquino?

Qual è il problema che si pone un pensatore, quando si accinge a elaborare una spiegazione filosofica del reale? Questa domanda presuppone che un pensatore non faccia della filosofia così, semplicemente per una forma di vana curiosità o magari di noia esistenziale, magari al principale scopo di sbalordire i suoi contemporanei, di farsi ammirare e, contemporaneamente, di mostrare quanto gli altri filosofi sono andati lontano dal vero, rivendicando per sé il merito di aver saputo correggere i loro errori. Presuppone che la filosofia sia una cosa seria, cioè che nasca da un bisogno vero, tanto quanto lo è il bisogno del cibo per l’organismo che istintivamente lotta per conservarsi in vita e in buona salute.

E già questo va contro un cliché ampiamente diffuso fra il pubblico, ossia che il filosofo sia un personaggio che si affatica intorno a qualcosa di inessenziale per la maggior parte degli uomini, i quali possono vivere benissimo anche senza la filosofia, secondo la vecchia formula: primum vivere, deinde philosophari. Però si tratta di un’opinione gratuita, per quanto estremamente comune. In realtà, la filosofia è un bisogno autentico dell’uomo, e una società non può fare a meno di avere una propria prospettiva filosofica: philosophari necesse. Più precisamente, la società sarà tanto più sana e felice quanto più si ispira ad una filosofia sana, che scaturisce dall’uso corretto della ragione naturale.

Questa è stata la grande scoperta di san Tommaso d’Aquino: che l’uomo, l’uomo naturale, ossia anteriormente alla Rivelazione, può e deve cercare in se stesso la retta maniera di adoperare nel modo più esatto possibile, più giusto, più consequenziale, il massimo dono di cui dispone: la sana ragione naturale. La grazia divina vi aggiungerà la sua perfezione, ma senza forzarla, senza stravolgerla. Ecco allora che sarebbe un immenso sciupio se si dovesse gettar via tutto ciò che la ragione umana ha saputo elaborare nel corso dei secoli: non accogliendo tutto, beninteso, ma quanto di meglio essa ha prodotto, scegliendo con cura e utilizzando ciò che di valido è in grado di offrire. San Tommaso ha cercato nei filosofi antichi, e specialmente in Aristotele, non delle soluzioni già pronte, da adattare, in qualche modo, alla mentalità cristiana e alla visione cristiana del reale, bensì il modo più corretto di ragionare, cioè gli strumenti della logica mediante i quali procedere per conto proprio.

In altre parole, il compito che San Tommaso si è proposto di svolgere non è stato certo quello, come volgarmente alcuni tuttora ritengono, di "cristianizzare" Aristotele, bensì di cercare in Aristotele quegli aspetti della philosophia perennis, quelle perenni verità metafisiche e teologiche, e soprattutto quel sano e corretto esercizio del pensiero, che permettono alla ragione naturale di tendere al fine ad essa proporzionato, cioè la contemplazione del vero. Ossia di giungere alla verità dell’Essere, a Dio, seguendo la via più umile, più lunga, più accidentata della ragione naturale, non già in concorrenza o in alternativa, ma in armonia con l’altra, quella diretta perché soprannaturale, che Dio concede agli uomini attraverso la grazia, per condurli a Sé, quale Causa finale del loro essere e del loro esistere.

Secondo lo storico della filosofia Dagobert D. Runes (1902-82), un ebreo della Bucovina naturalizzato statunitense, nel suo ben noto Dizionario di Filosofia (titolo originale: The Dictionary of Philosophy, 1942; traduzione di Aldo Devizzi, Milano, Martello, 1963, e Mondadori, 1972, vol. 2, pp. 952-954):

Quanto più si avviava, e ciò avvenne in modo molto rapido alla maturità, tanto più il suo pensiero diveniva inestricabilmente coinvolto nella difesa di Aristotele (a cominciare dal 1260 circa), dei suoi testi e delle sue idee, contro gli averroisti che cominciavano allora a segnalarsi nella facoltà delle arti all’università di Parigi; contro l’agostinismo tradizionale di un uomo come S. Bonaventura; ed anche contro quell’agostinismo più sottile che poteva spirare qualcosa dello spirito di Agostino, parlare il linguaggio di Aristotele, ma esporre, con crescente fedeltà e quindi con più imminente pericolo, le idee cristiane attraverso le tecniche neoplatoniche di Avicenna. Quest’ultimo gruppo comprendeva pensatori diversi come Alberto Magno, Enrico di Gand, i molti discepoli di S,. Bonaventura, fra i quali, secondo alcuni, lo stesso Duns Scoto e Meister Eckhart di Hoccheim.

Il problema che S. Tommaso si pose nonostante tali circostanze sommamente complesse, un aristotelico. Quanto fece si ridusse a tre punti fondamentali:

a) Mostrò l’orientamento platonico del pensiero di S. Agostino e le limitazioni che S. Agostino stresso pose al suo platonismo, per concludere che si poteva considerare S. Agostino il patrono di quel platonismo altamente elaborato e sofisticato che un Ibn Gabirol aveva esposto nel suo "Fons Vitae" e Avicenna nei suoi commentari alla metafisica e alla psicologia di Aristotele.

b) Dopo aver individuato in Platone il pensatore da ricercarsi dietro S. Agostino ed aver in realtà eliminato S. Agostino dalle controversie platoniche del XIII secolo, S. Tommaso si interessò alla diagnosi dell’ispirazione platonica dei vari commentatori di Aristotele ed alla separazione di quello che, a suo modo di vedere, è l’Aristotele autentico dalle deformazioni platoniche. In questo senso, l’attività filosofica di s. Tommaso nel XIII secolo si può intendere come una critica sistematica ed una eliminazione del platonismo nella metafisica, nella psicologia e nella gnoseologia. Il mondo platonico delle idee fu tradotto in una teoria di principî sostanziali in un mondo di individui stabili ed intelligibili; l’uomo platonico, che era poco più di uno spirito incarcerato, divenne un animale razionale che possiede in sé un’economia interiore, che presenta in un sistema razionale la sua natura misteriosa come una realtà al confine di due mondi, spirito e materia; la teoria platonica della conoscenza (almeno nella versione del "Menone", più che in quella degli ultimi dialoghi, dove domina maggiormente la dottrina della divisione), che fu regolarmente assillata dalla difficoltà di dar ragione dell’ORIGINE e della VERITÀ della conoscenza, fu tradotta in una teoria dell’astrazione, nella quale l’esperienza sensibile entra come un momento necessario nella spiegazione dell’origine, dello sviluppo e dell’uso della conoscenza, e nella quale la struttura intelligibile dell’essere sensibile diviene la misura della verità della conoscenza e del conoscere.

c) Il risultato di questa elaborata critica del platonismo vien chiamato talvolta la sintesi aristotelico-tomista. È meglio comunque chiamarla semplicemente una sintesi tomista, non solo perché S. Tommaso criticò Aristotele in varie occasioni, ma anche perché il significato reale e storico di Aristotele come filosofo del IV secolo a. C. è ancora molto discusso. In ogni caso dovrebbe essere quasi fuori discussione che S. Tommaso che Aristotele non era l’autore di tutte le dottrine che egli gli attribuiva.

Ciò su cui sembra che S. Tommaso abbia maggiormente insistito nell’usare Aristotele come pilastro del proprio pensiero, fu la riabilitazione dell’uomo e dell’universo come realtà stabili e cause genuine. Questa insistenza fu chiamata da molti il suo NATURALISMO. Contro la tendenza degli agostiniani del XIII secolo a disprezzare la capacità innata della ragione umana a conoscere la verità, S. Tommaso insistette sulla capacità della ragione ad agire come causa genuina e sufficiente della vera conoscenza nei limiti dell’ordine naturale. Contro le tendenze occasionalistiche del pensiero di Avicenna, che riduceva tanto l’uomo che il circostante mondo diveniente, alla condizione di spettri passivi dell’attività unica di Dio (cioè dell’"intellectus agens"), S. Tommaso sostenne la causalità subordinata, ma autonoma, dell’uomo nella produzione della conoscenza e la causalità genuina delle realtà sensibili nella produzione del divenire. Infine S. Tommaso fonda la sua difesa dell’uomo e degli altri esseri quali cause efficienti nel proprio ordine, sulla dottrina della creazione ed allo stesso modo mostra come l’occasionalismo di Avicenna si fondi, in definitiva, sulla dottrina platonica dell’emanazione.

Ai tre punti indicati dall’autore, e coi quali sostanzialmente concordiamo – pur provando un certo disagio di fronte a questa disinvoltura nel continuo prendere, togliere e adattare dal pensiero di altri filosofi che San Tommaso avrebbe operato – ci sembra doveroso aggiungerne un quarto, il più importante di tutti: la scoperta dell’essere come atto, atto di essere (actus essendi); atto primo ed emergente, atto di tutti gli atti, e non semplicemente come "aliquid", come essenza; e perciò di Dio quale ciò che esiste da se stesso e che è grazie a se stesso, ipsum esse subsistens (cosa che in Aristotele resta incomprensibile, o meglio impossibile, dato il suo distacco radicale dal mondo sensibile che ne fa, appunto, un "aliquid", un "qualcuno", cioè uno fra tanti). Sono stati soprattutto Étienne Gilson e Cornelio Fabro a evidenziare in questo punto, l’essere come atto e non solo come essenza, il cuore del pensiero tomista e il suo contributo più originale e più duraturo alla filosofia in generale. A san Tommaso, cioè, va il merito, grandissimo e imperituro, che per sostenere non solo la struttura complessiva dell’esistente, ma anche il fatto del conoscere, del conoscere in maniera veridica e non di un conoscere qualsiasi, è necessario un ente che abbia in se medesimo le ragioni per essere, e quindi non un ente fra gli altri, sia pure più perfetto e del tutto sottratto alle dinamiche del divenire (che implicano non solo la morte, ma anche l’accidentalità e quindi il non essere). Un tale essere non solo esiste per sé, come il Motore Immobile aristotelico, che attira ogni altro ente senza essere attirato, ma rende possibile ogni forma del conoscere, che, altrimenti, si ridurrebbe a una trama evanescente di opinioni mutevoli, senza nulla che ne garantisca la verità, perché senza l’essere come atto e non solo come principio o come essenza, l’essere che garantisce l’esistenza e la conoscenza del vero, nulla vi sarebbe di certo, né di stabile, né di essenziale, ma la realtà sarebbe un caos di accidenti, un labirinto di opinioni.

In altre parole, san Tommaso ha visto che dal platonismo, che è essenzialmente un emanazionismo e quindi una forma di gnosi (o piuttosto un eccellente cavallo di Troia per la gnosi: giacché la gnosi eterna è come un fungo parassita che non vive di vita propria, ma ha necessità di abbarbicarsi a qualche sistema filosofico o religioso preesistente per spacciarsi da quel che non è, vale a dire una concezione originale del reale) non si può arrivare in alcun modo alla visione cristiana. E il problema fondamentale di san Tommaso è sempre stato questo: liberare il cristianesimo dalle filosofie incompatibili con esso e riconoscere nel pensiero pagano quei germi di verità che possono e devono essere utilizzati per smentire quanto di falso vi è nella concezione pagana del reale. Insomma san Tommaso ha voluto servirsi della tradizione antica per mostrare che la ragione naturale, quando lavora bene, cioè quando procede con coerenza e senza errori, giunge sempre al vero, purché sia indirizzata nella giusta direzione e non si perda in falsi ragionamenti. E pertanto né l’essenzialismo, né l’emanazionismo possono condurre la ragione al pieno e stabile possesso del vero: l’uno perché è un principio statico, incapace di render conto del movimento che tutto pervade; l’altro perché postula, erroneamente, che tutti gli enti partecipino dell’essenza divina, abolendo la differenza ontologica.

Ora, la grande, emozionante novità del pensiero di san Tommaso è che egli, metafisico per eccellenza, ha voluto partire dalla creatura, e ha scoperto in essa quel tesoro inestimabile che gli ha permesso di salire, di gradino in gradino, fino alla contemplazione gioiosa dell’Essere in quanto essere: la ragione naturale, data da Dio alla creatura appunto perché questa possa innalzarsi, con l’aiuto della grazia, fino a Lui.

Come ha osservato ancora Dagobert D. Runes (op. cit., p. 454)

[S. Tommaso] deve imparare ad essere un filosofo, a scoprire il filosofo dentro il cristiano, allo scopo di affrontare i filosofi. Nell’esplorare il significato di una CREATURA, san Tommaso veniva costruendo una filosofia che permise ai suoi contemporanei (almeno in quanto essi lo ascoltarono) di liberarsi dal vecchio mondo eternalistico dei Greci e di liberare quindi il loro pensiero dalle antinomie che questo mondo poteva poere4sentare per essi. Nell’accordo di fede e ragione, che S. Tommaso sostenne contro l’averrosimo, dobbiamo vedere il punto culminante della sua attività.

Ecco dunque come e perché san Tommaso può giungere al riconoscimento della distinzione, non nella reciproca opposizione e incompatibilità, ma nel loro sostanziale accordo, del cammino della ragione e quello della fede: perché la ragione è semplicemente l’altra via, quella naturale, ma sempre permessa e voluta da Dio, che consente di giungere al vero, o quanto meno alle soglie del vero: giacché il suo pieno possesso è il frutto della Rivelazione e pertanto richiede necessariamente che la ragione naturale s’inchini davanti a ciò che le è superiore e ne richieda l’aiuto, sotto forma d’illuminazione, così come l’Intelletto divino è infinitamente superiore a quello umano. Adesso possiamo comprendere meglio, e sino in fondo, il racconto di come san Tommaso, davanti ad una difficoltà di ordine intellettuale che gli pareva insolubile, posasse la penna, scendesse in chiesa a pregare e supplicare Iddio affinché gli aprisse la mente. Cosa domandava San Tommaso al Signore? Non che gli mostrasse la soluzione del problema, ma piuttosto che rendesse più chiara e trasparente la sua mente, la sua capacità di ragionamento, partendo dall’assunto che la ragione naturale ha in sé quanto occorre per realizzare il proprio fine, cioè il fine proporzionato alla sua natura, che è appunto la verità.

E siccome la ragione naturale è ordinata al vero, che è il suo fine, così essa possiede gli strumenti per conseguirlo: se così non fosse, essa sarebbe data all’uomo per beffa, cioè per vederlo tormentarsi nel vano e inutile sforzo di attingere ciò che si trova irrimediabilmente al di là della sua portata. Ma chi mai potrebbe aver allestito un simile scenario, beffa, una simile tragicommedia, se non una potenza immensamente beffarda e maligna, ma anche immensamente scaltra e potente? Se una tale potenza esistesse, sarebbe il Diavolo: ma il Diavolo non è immensamente potente e tanto meno immensamente scaltro: se lo fosse, non si sarebbe ribellato ed impegnato in un’interminabile guerra contro di Lui, sapendo che in nessun modo potrà mai vincerla. Rimane Dio stesso: ma Dio ha di meglio da fare che tormentare gli uomini, ispirando loro dei bisogni e dei desideri che essi non potranno mai soddisfare.

In questo noi sentiamo in san Tommaso non solo un maestro insuperato, ma un autentico fratello: perché come noi si è posto il problema del conoscere e con tutta umiltà, ma anche con amore e fiducia nella creatura umana (perché non si può amare realmente ciò in cui non si ha fiducia), e con fiducia anche maggiore nei doni che Dio le ha concesso, si è assunto il compito di mostrarci che la ragione non ci è stata data invano; che essa serve per condurre al vero; che noi, quindi, siamo ordinati al vero e capaci di attingere il vero, trovando nella contemplazione di esso la massima felicità possibile nella dimensione terrena.

San Tommaso è il campione dell’ottimismo ragionato, della fiducia nell’uomo e nella bontà (relativa) del mondo: senza che ciò lo porti a una qualche forma di umanismo o di naturalismo, cioè senza assolutizzare il valore dell’uomo, né la natura in se stessa. Per lui, la natura è uno strumento ed è sottomessa alla grazia: è autonoma, non indipendente.

Ecco la ragione vera e profonda dell’antipatia, dell’astio profondo, che il pensiero moderno, anche quello nominalmente cattolico (si pensi al modernismo) riserva al tomismo: esso ha il torto di mostrare, contro ogni relativismo, soggettivismo e storicismo (che è la maschera del nichilismo) che al vero si può giungere con la ragione naturale rettamente usata; per poi constatare che non si tratta di una via opposta e antitetica a quella della fede, ma complementare ad essa, e diretta al medesimo Fine.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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