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La vita è attività proporzionata alla sua natura

Abbiamo affermato, in un recente articolo, che in condizioni normali, cioè in un soggetto sano, l’intelletto cerca il vero e la volontà vuole il bene; e che, se così non avviene, ciò si deve al fatto che è intervenuto qualche fattore che ha gravemente distorto l’organo del giudizio e lo ha ingannato con qualche falsa immagine di vero.

Ma qual è l’organo del giudizio, se non l’intelletto? Delle due facoltà, ragione e volontà, è la prima a porre il fine da perseguire; la seconda non fa altro che dirigersi là dove le viene indicato di andare. Pertanto è l’intelletto che può ingannarsi, e, ingannandosi, ingannare anche la volontà, sua fedele esecutrice; non è la volontà ad ingannarsi, perché la volontà cerca sempre il bene; e, se riconosce il proprio oggetto come male — come male in sé, non come un male transitorio e finalizzato al conseguimento di un bene superiore — non lo vuole, anzi se ne allontana con orrore. Infatti la volontà è finalizzata a preservare l’individuo: e l’individuo che persegue il male, persegue la propria rovina e, in definitiva, la propria distruzione. Il che andrebbe contro la tendenza naturale all’autoconservazione degli esseri viventi: perché la natura cerca la vita, vuole la vita e ciò che la favorisce, l’accresce e la perfeziona, rendendola più ricca e più felice, non ciò che la impoverisce e la indebolisce, e quindi giammai la morte. In questo senso, dietro ogni scelta etica sbagliata — non si stancava di ripeterlo, quasi come un motivo ricorrente, il compianto Cornelio Fabro — c’è sempre un errore filosofico.

L’errore filosofico è in sostanza questo: non vedere, non capire che la vita, tutta la vita, e dunque anche e soprattutto la vita umana, è contraddistinta dal principio di attività. La vita è azione, perché le cose non stanno ferme: si muovono. Le cose non viventi sono mosse da altro; gli esseri viventi si muovono spontaneamente, si accrescono, tendono alla perfezione. Certo, decadono e muoiono: eppure tutto, nel loro organismo, denota il principio del movimento, che è vita; mentre la quiete, l’immobilità, è morte. Inoltre, il movimento non è un movimento disordinato; è diretto a un fine: tende alla completezza, all’armonia, al perfetto funzionamento e al perfetto godimento; tende, se pur non vi riesce, e ogni suo sforzo è diretto verso quel fine. Pertanto si può dire che ogni vita è un tentativo di realizzare la propria perfezione, ciascuna nell’ordine della sua natura. La pianta tende alla perfetta vita vegetativa; l’animale, alla perfetta vita sensitiva; l’uomo, caratterizzato da ragione e volontà, tende alla perfetta vita intellettiva e volitiva, che è come dire a realizzare pienamente la propria natura razionale.

Ma l’intelletto può sbagliare nel formulare il giudizio, perché può errare nei movimenti intellettivi che conducono al giudizio; e in tal caso, inevitabilmente, come si è detto, anche la volontà viene diretta verso un fine sbagliato, innaturale, ossia non conveniente alla sua natura. La natura della volontà è il bene, perché il bene è il suo fine: e ogni cosa tende naturalmente al proprio fine. Se una cosa tende al proprio male, significa che è malata e va contro se stessa. L’intelletto ha per fine la verità: per questo esso è dato all’uomo e per questo gli è dato il suo corollario necessario, la libertà del volere: altrimenti l’uomo sarebbe il più disgraziato degli esseri, condannato a vedere il vero, ma a non avere in sé le forze e i mezzi per raggiungerlo e per goderne il possesso, cosa in cui consiste la sua felicità. Infatti la felicità risiede nella capacità, da parte degli esseri, di realizzare al massimo grado possibile la loro perfezione, il che è lo stesso che agire in maniera proporzionata alla propria natura. Infatti la felicità non è un bene di grado assoluto, ma relativo, e possederla pienamente equivale a possederla nella misura più ampia e più completa possibile a quel determinato essere rispetto alla sua natura.

Ora, la natura dell’uomo è essenzialmente spirituale; l’aspetto corporeo egli l’ha in comune, in diversa misura, con gli altri animali e le piante. Perciò un essere umano può essere felice anche se privo della vista, o dell’udito, perché vista e udito, per quanto importanti, non contraddistinguono la sua natura. La sua natura è contraddistinta da ciò che è spirituale: intelletto (includendo in tale espressione anche il sentimento, oltre la facoltà razionale) e volontà. Dunque un cieco, o un sordo, possono essere felici in quanto uomini se sanno portare al massimo grado umanamente possibile le loro facoltà spirituali. La mancanza della vista impedirà loro di vedere il paesaggio o le opere d’arte, e l’assenza dell’udito li priverà dei suoni della natura, delle voci umane e della musica; ma ciò non potrà privarli del massimo godimento conveniente alla natura umana: la contemplazione del vero, che è una gioia in se stessa.

Abbiamo trovato questi concetti, sostanzialmente fedeli al pensiero di san Tommaso d’Aquino, espressi con esemplare chiarezza, in un autore il cui nome non dirà nulla alle nuove generazioni. Cari, vecchi professori di filosofia d’un tempo, specie quelli d’impianto tomista: come erano chiari i loro pensieri, come trasparenti, limpide e consequenziali le loro esposizioni; che gioia ascoltarli, leggerli, meditarli. Ci si sente sollevare a due metri da terra, sopra la palude marcescente del cosiddetto pensiero moderno, dove le chiacchiere si sprecano, si va a tastoni, barcollando tra i sofismi, e si è sempre sul punto di scivolare sulla buccia di qualche cattivo ragionamento nato da premesse erronee e indimostrate (perché indimostrabili), o di smarrirsi nella nebbia fitta di qualche astrusa, cervellotica fumisteria: lontani dalla realtà, dalle cose vere, dalla vita vera, in un mondo allucinato di parole tortuose, oblique, ingannevoli, studiate apposta per creare confusione e aumentare lo smarrimento.

Ci piace citare una pagina di uno di questi vecchi, buoni testi (anzi ottimi), Il problema dell’unità come introduzione alla filosofia di E. Vidoni, un autore del quale non siano riusciti a trovare alcuna notizia biografica, come se gli anni trascorsi, non moltissimi dopotutto, ne avessero assorbito e cancellato anche il ricordo, come l’acqua dell’alta marea viene assorbita dalla sabbia quando il mare si ritira; ma che deve aver reso un servizio inestimabile a una generazione di fortunatissimi studenti (Torino, Fratelli Bocca, 1935, pp. 18-22 passim):

… È certamente vero che la vita distrugge, è morte, ma è anche vero che essa è morte, distruzione, appunto per essere più perfetta, per adattare il vivente all’ambiente in cui si trova: la vita distrugge alcune sintesi chimiche per arrivare a una sintesi superiore. Non dunque la vita è la morte, ma piuttosto queste morti sono la vita. (…)

Possiamo generalizzare: la vita è attività, è lavoro; e più è grande quest’attività e più un essere è lontano dalla quiete, più in esso è grande il piacere. (…)

Dunque, per nessun essere la propria distruzione può costituire La felicità. E poiché precisamente l’attività è lo specifico dei viventi, la tendenza alla quiete sarebbe per ogni vivente, e quindi per l’uomo, tendenza alla propria distruzione. (…)

Abbiamo già detto che tutti gli esseri tendono a ciò che è loro conveniente, al proprio bene. Se l’uomo è dunque un vivente, un semovente per natura, la sua tendenza naturale non potrà essere se non all’attività.

E ciò lo si prova anche considerando le facoltà. Anche queste, in quanto esseri, hanno tensde4nze che scaturiscono dalla loro natura. E poiché la tendenza naturale di ogni essere è alla propria conservazione, ogni facoltà tenderà a conservarsi e conseguentemente a perfezionarsi: L’ESSERE TENDE ALL’ESSERE, IL PRINCIPIO DELL’OPERAZIONE TENDE ALL’OPERAZIONE.

L’operazione infatti, l’atto proprio di una facoltà, è la perfezione di questa: perfetta, ossia fatta del tutto, una potenza è quando passa all’atto al quale è destinata. Se dunque tutti i viventi hanno tendenze naturali all’attività, tanto più questa sarà la tendenza dei principi prossimi delle operazioni. Sono potenze destinate a passare in atto, cui dunque manca la perfezione: hanno tendenza alla attività. (…)

L’attività delle facoltà è fonte di felicità; quest’attività quindi è la loro tendenza naturale. La tendenza naturale sarà per questo uguale in tutti i viventi? Se la felicità richiede l’intervento di tutte le facoltà dell’uomo, si deve dunque dedurre che qualunque attività attirerà ugualmente l’uomo? (…)

Si è già detto che la tendenza naturale è al bene proporzionato; essendo l’attività tale bene per le facoltà (giacché queste esistono appunto per agire), ne segue che il loro bene proporzionato, e quindi anche quello del vivente cui appartengono, è L’ATTIVITÀ PROPORZIONATA.

Anche qui l’esperienza ci porta la conferma: quella felicità parziale, che è una partecipazione della piena felicità, ci viene da quest’attività. Sentiamo piacere infatti, non quando l’occhio è in riposo, quando non funziona, ma quando l’occhio sano, ad una luce né troppo viva né troppo scialba, ha dinanzi a sé un bel quadro, un bel panorama che riproduce sulla retina e nella fantasia: in una parola abbiamo piacere quando dinanzi all’attività normale si trova l’oggetto proprio di questa esposto in condizioni normali e quando agisce sulla facoltà secondo le leggi naturali. «Lodiamo la vite — diceva Seneca (Ep. 41,7) — quando ha i tralci carichi di uva, quando per il peso dei grappoli Fa piegare a terra gli stessi sostegni. Forsechè alcuno a questa vite ne anteporrebbe un’altra dalla quale pendano grappoli d’oro e foglie d’oro? Il pregio proprio della vite è la fertilità. Così nell’uomo è da lodarsi ciò che è proprio dell’uomo».

Questo piacere lo sentiamo nell’attività di qualunque facoltà. (…)

Se il massimo piacere sta nella massima attività proporzionata, è indubitato che la felicità dell’uomo non potrà consistere principalmente nel piacere che gli proviene dall’attività organica: «la nostra sapienza, diceva Senofane, vale più della forza degli uomini e dei cavalli». E non consisterà neppure nell’istinto: sopra di esso vi è la conoscenza.

Ogni attività ci dà una gradazione diversa di piacere: incominciando dalla più umile delle attività e salendo alla più nobile, si avrà una scala sempre crescente di piacere; più è alta, nobile e specifica la facoltà che agisce, più è grande la vitalità ed il piacere che ne deriva; e così più ci accostiamo alla felicità, più aumenta la tendenza naturale. (…)

Senza dubbio, bisogna ammettere nell’uomo anche il sentimento, almeno come sfumatura superiore di piacere; come, oltre le facoltà sensitive, bisogna ammettere altre più nobili: l’intelletto e la volontà. (…) Sono dunque riconosciute queste due facoltà come le più nobili dell’uomo, e come il suo distintivo. (…)

Nell’uomo dunque la tendenza naturale all’attività sarà la tendenza all’attività di queste facoltà; essendo esse il suo distintivo, la loro attività sarà il perfezionamento dell’uomo.

Da queste pur brevi ed essenziali riflessioni pensiamo dovrebbe emergere chiaramente come le deviazioni, le anormalità più o meno compiaciute, le infedeltà dell’uomo nei confronti di se stesso, il suo frequente abbrutirsi e porsi al di sotto del proprio statuto ontologico, le aberrazioni e le confusioni alle quali va sempre più spesso soggetto, sono, tutte, conseguenza di un errore filosofico, o di una serie di errori filosofici, aventi questo elemento centrale in comune: l’ignoranza o l’oblio dell’agire umano conveniente alla propria natura, che è, in definitiva, l’oblio e il desiderio stesso della felicità.

L’uomo è fatto per la felicità, per la pienezza di vita, per la perfezione (relativa, stante la sua duplice natura, spirituale e materiale) del proprio essere; eppure, con l’avvento della modernità, che gli aveva promesso la sospirata liberazione da tutto ciò che lo teneva avvinto, sottomesso e rassegnato, egli ha perso gradualmente, non solo la fiducia, e poi la speranza, di un effettivo miglioramento, ma perfino la voglia di vivere. Egli è diventato un problema a se stesso, un fardello, un ingombro di cui è smanioso di liberarsi: il diffondersi a macchia d’olio dell’ideologia di morte, che si esprime nella celebrazione e nella pratica sempre più frequente dell’aborto e dell’eutanasia, ne è il segno inequivocabile.

Come si spiega questo ripiegamento, questa abdicazione, questa disfatta, se non ammettendo che l’uomo, da presunto liberatore della propria natura si è mutato nel persecutore e nell’eliminatore del "problema uomo", per aver perso completamente di vista il proprio fine naturale: conoscere il vero e perseguire il bene? O meglio, conoscere il vero perseguendo il bene? Perché facendo il bene l’uomo giunge al vero: ma non perseguendo un bene qualunque, un bene ingannevole, che in realtà è un male, bensì il bene autentico, che solo l’intelletto sa vedere. La ragione naturale, nel suo aspro cammino verso di esso, non è sola: se saprà farsi umile, la sua via può essere illuminata dalla grazia.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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