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28 Ottobre 2022Il pubblico degli anni Trenta ha molto amato i libri di Andrea Majocchi, professore universitario e valente chirurgo con la passione dello scrivere, ricco di umanità e di sottile ironia; e non solo il pubblico italiano, ma anche quello dei principali Paesi di tutto il mondo, nelle cui lingue furono tradotti i suoi libri.
Eppure la critica lo ha dimenticato in fretta; mutati i gusti del pubblico, un rigo è stato tirato sulla memoria di questo autore prolifico e non profondo, ma sicuramente sincero, piacevole e, a tratti, autenticamente ispirato. E questo oblio non è una cosa giusta. Mentre vanno, oggi, per la maggiore autori mediocrissimi, che non hanno nulla da dire, ma sono unicamente sostenuti dalla forza delle rispettive case editrici, sarebbe il caso di tornare a rileggere qualche pagina di questo medico umanista la cui prospettiva è meno legata alle contingenze temporali di quel che si creda, perché la vera umanità è sempre attuale, e ha sempre qualcosa da dire anche ai posteri.
L’Italia non è più quella delle «mille lire al mese»; il mondo intero è cambiato (e, con buona pace degli evoluzionisti, non sempre in meglio); la stessa professione medica ha subito una profonda trasformazione, sia come fatto scientifico e tecnico, sia come fatto sociale. Non importa. Un buon libro non è mai del tutto invecchiato, non diventa mai illeggibile, se trova anche un solo lettore aperto di mente e dall’animo sensibile.
Le pagine migliori di Andrea Majocchi, a nostro avviso, non vanno cercate tanto fra quelle – a loro tempo più note – dedicate alla sua personale esperienza di chirurgo all’Ospedale Maggiore di Milano, come il famosissimo Vita di chirurgo e Tra bistori e forbici; bensì là dove la profonda umanità dell’Autore è interpellata dalla tragedia della seconda guerra mondiale, dai crudeli bombardamenti della sua città, e dalla nostalgia che la visione degli edifici sventrati del suo caro ospedale, gioiello dell’architettura rinascimentale, gli desta nell’animo affranto.
Alludiamo, in particolare, al romanzo Nostalgie fra le rovine, apparso nel momento più buio della nostra storia recente, nel 1944, e tutto pervaso dalla commozione e dall’amaro rimpianto per la vita gloriosa del nobile edificio, nel quale aveva profuso tanti anni di duro lavoro, davanti alla devastazione operata dagli aerei anglo-americani.
È una sorta di biografia, romanzata nella veste narrativa, ma non nella sostanza storica, di una figura illustre della medicina dell’Ospedale milanese: Bernardino Moscati, vissuto nella prima metà del XVIII secolo, fondatore delle Scuole ospedaliere e dell’insegnamento ostetrico, nonché antesignano della moderna chirurgia nell’epoca in cui essa era ancora affidata agli empirici, ai praticoni e, talvolta, ai ciarlatani.
L’opera del Majocchi è tanto più meritoria, in quanto la persona e l’opera egregia di Bernardino Moscati erano state pressoché dimenticate, a differenza del figlio di lui, Pietro Moscati, al quale era intitolato sia il Padiglione di chirurgia dell’ospedale sforzesco, sia una via del centro storico milanese.
Ed è un sentimento di autentica pietas virgiliana, di devozione e gratitudine verso l’illustre predecessore, che ha ispirato al Majocchi l’idea di raccontarne la storia, davanti alla devastazione del tempo presente, che gli strappa accenti di sofferta commozione (da: Nostalgie fra le rovine, Garzanti Editore, Milano, 1944, pp. XI-XVI):
Quando venni nominato Chirurgo Primario dell’Ospedale Maggiore di Milano, mi fu assegnata la direzione del padiglione «Pietro Moscati», un grande istituto attrezzato modernamente e allora dedicato alla chirurgia femminile. In questo reparto rimasi undici anni, credo i più belli della mia vita ed anche i più attivi della mia carriera operatoria.
Per undici anni consecutivo ogni mattina giungevo al mio piccolo regno e prima di entrare, alzando gli occhi, m’accadeva di leggere il nome del mio predecessore celebre, che stava scolpito a caratteri cubitali sulla facciata. A forza di leggere quel nome, era pur naturale che mi venisse l’idea di conoscere questo mio illustre collega, d’indagarne la vita, di leggerne le opere. Sapevo che doveva essere stato un chirurgo di valore, poiché anche una contrada della Milano moderna era stata dedicata al suo none; sapevo anche approssimativamente l’epoca della sua vita e mi pareva di aver letto che la sua esistenza, tra la fine del Settecento e il principio dell’Ottocento, non era stata tranquilla, ma irrequieta e burrascosa.
Della sua opera chirurgica e dei suoi meriti scientifici nulla di preciso mi era venuto all’orecchio, sorse quindi in me il desiderio di ricercare, di scartabellare fra i documenti dell’archivio ospedaliero e fra i vecchi volumi della biblioteca, se mi fosse possibile trovare notizie sicure.
Però via via che proseguivo nelle mie ricerche storiche, m’imbattevo in un fatto strano, curioso, inaspettato. Cioè, più approfondivo le indagini intorno alla vita e all’attività di Pietro Moscati e sempre più di frequente mi trovavo di fronte ad un altro personaggio, anch’esso dedicatosi all’arte chirurgica, anch’esso appartenente alla famiglia ospedaliera, ma un poco più anziano del primo.
Si chiamava, questo venerando collega , Bernardino Moscati, ed era il padre di Pietro.
Di lui non avevo mai sentito parlare, nessuna via era intitolata al suo nome, né alcun padiglione ospedaliero od alcun altro monumento all’ospedale o fuori lo ricordava.
E pure i suoi meriti nei confronti della scienza o dell’arte chirurgica mi apparivano sempre più cospicui, quanto più mi addentravo nei particolari della storia di quell’arte, che si era sviluppata notevolmente verso la metà del secolo decimo ottavo nel nostro nosocomio.
Mio sprofondavo così sempre di più nei documenti d’archivio, nei codici polverosi, nelle ordinanze capitolari e mi appassionai tanto, che mi sembrava di vivere in quel vecchio mondo ospedaliero. Mondo strano e ben differente dal nostro: un mondo interessante e pittoresco. Vedevo le corsie popolarsi di quei rozzi barbieri, quei Norcini vestiti con la nera veste medievale, quei Preciani originari dell’Umbria [Norcini e Preciani erano chiamati alcuni abilissimi barbieri-chirurghi, i quali provenivano dall’Umbria, e precisamente di Norcia, o dal Castello delle Preci] che sapevano praticare le più ardue operazioni chirurgiche con rara abilità tramandandone i segreti accorgimenti di padre in figlio, da famiglia a famiglia.
Mi pareva di udire ancora i rintocchi della campana della Santissima Annunziata, rintocchi che il portinaio della Porta maggiore suonava quando entra il lettore di «notomia» per la solita lezione. E vedevo allora che dalle corsie traevano solleciti verso la scuola i serventi e i consegneri, i ministri e i sottoministri, mentre il siniscalco, ritto davanti alla porta dell’aula, segnava su apposita tavoletta i presenti e non permetteva che alcuno durante la lezione si «asbentasse».
E quelle immense, monumentali corsie solenni come basiliche e disposte in croice intorno alla cappella centrale, e quel «Quarto delle balie»,vero gineceo nel quale nessun uomo poteva penetrare, e quelle «Priore» nascoste dal velo; tutto, insomma, mi appariva quasi in un sogno mirabile e suggestivo.
Ma, mentre subivo sempre più intenso il fascino di queste vecchie memorie sorgeva in me sempre più vivo e ardente il desiderio di compiere un’opera di giustizia: ricordare, cioè, e riabilitare la fama di un uomo che fu senza dubbio il padre della chirurgia del nostro ospedale, il creatore delle scuole ospedaliere, il fondatore dell’insegnamento ostetrico in Milano, di un uomo ingiustamente dimenticato.
Mi posi subito all’opera con l’intenzione di scrivere una vera e propria biografia; ma non era facile raccogliere gli elementi della vita di un chirurgo che aveva fatto di tutto per rimanere nell’ombra. Io dovevo desumere e indovinare gli avvenimenti dalle Ordinanze Capitolari, dalle lettere d’archivio, dai documenti più disparati e anche qui rimanevano pur sempre delle ampie lacune che non riuscivo a colmare. Certamente un letterato o un romanziere avrebbe lavorato di fantasia e avrebbe creato una bella «vita romanzata». Ma io sono soltanto un modestissimo chirurgo ed ai chirurghi manca soprattutto la fantasia.
Perciò mi sono accontentato di offrire al lettore delle pagine staccate, delle scene di vecchia vita ospedaliera, mettendo in luce specialmente la figura di Bernardino Moscati, e, insieme alla sua, quella di altri sanitari dell’epoca, rappresentandoli in quella atmosfera tanto caratteristica e interessante, quale fu quella del nostro grandissimo istituto nella seconda metà del Settecento.
Una cupa malinconia, però, m’invade quando penso a questo «quadro d’ambiente», poiché oggi di quel magnifico istituto poche cose rimangono intatte.
L’ampio, maestoso cortile, che tanta impressione aveva fatto al giovane Bernardino quand’era arrivato da Pisa, quella corte spaziosa «degna d’una reggia» in messo alla quale il nostro chirurgo maggiore si soffermava volentieri volgendo lo sguardo ammirato agli archi e alle colonne, ora non esiste più; una violenta bufera l’ha travolta e distrutta.
La Corsia del Prato, nella quale si raccoglieva il gineceo delle balie e si operavano i miracoli della ostetricia di quei tempi, è sventrata; e pure sgretolata è quella porta monumentale, sulla quale dominava il busto marmoreo di Francesco Sforza, il Signore di Milano e Fondatore dell’ospedale.
Della Corsia degli scalini dove papà Bernardino aveva raccolto le ernie, le litotomie e tutta la più ardua chirurgia dei suoi tempi, ora non rimangono che rottami anneriti dal fuoco; e persino la magnifica Sala del Capitolo, tutta ornata di fiori e di fronde, e dove era risuonata alta e commossa la voce del maestro mentre inaugurava la scuola di ostetricia, porta e tracce dell’uragano.
Poteva la sorte essere più crudele?
E potranno la costanza e l’ingegno dei posteri restaurare tanta rovina?
Io mi auguro che, come è stato rifatto il vecchio Castello Sforzesco, così anche l’Ospedale del Filarete possa risorgere, tuttavia le mirabili arcate, le stupende terrecotte e i medaglioni a bassorilievo non saranno più quelli di prima.
Un’opera d’arte non può essere rifatta; né possono esserle ridati la nobiltà e il fascino del suo passato.
Una sola cosa sono certo che rimarrà immutata ed eterna, ed è il gran cuore dei milanesi; questo mirabile cuore caldo d’ineffabile amore e creatore di bene, ispiratore di ogni opera di carità, questo sì, resterà indistruttibile attraverso i secoli.
Abbiamo preferito riportare, come invito alla lettura di questo volume del Majocchi, la Prefazione dell’Autore, invece che un qualunque episodio della vita di Bernardino Moscati, seguita con affettuosa partecipazione e rievocata con intelligente opera di ricostruzione storica, da quando giunse a Milano, la vigilia di Natale del 1736, per assumere la direzione del reparto chirurgico dell’Ospedale sforzesco, fino alla morte, avvenuta alla bella età di 93 anni (era nato a Casalmoro presso Asola, nel Mantovano, nel dicembre 1705), il 17 settembre 1798.
E lo abbiamo fatto perché in questa Prefazione, che è, essa stessa, una bella pagina di letteratura – e, a tratti, di autentica poesia – c’è tutto il Majocchi scrittore: il suo candore, il suo entusiasmo, il suo immenso amore per la professione medica, la sua dirittura morale, il suo alto senso di riconoscenza per quanti hanno preceduto e reso possibile il nostro lavoro.
Una pagina troppo ingenua, per gli smaliziati lettori del 2000?
Forse; ma non sarebbe male che un po’ di quella sana ingenuità tornasse a circolare nelle nostre università, nelle nostre biblioteche, nelle nostre sale cinematografiche e anche, guarda caso, nei nostri moderni ospedali, specialmente se essa è l’altra faccia di una certa qual pulizia morale, di un certo pudore, di una capacità di arrossire davanti allo spettacolo della bruttezza morale (cfr. il nostri precedente articolo È la perdita dell’ingenuità la «malattia mortale» del mondo moderno, consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
Perciò, se Andrea Majocchi ha inteso, scrivendo Nostalgie fra le rovine, compiere – come egli stesso afferma – un atto di giustizia, ricordando la figura ingiustamente dimenticata del suo illustre predecessore all’Ospedale Maggiore di Milano: ebbene, noi crediamo che sarebbe un atto di giustizia anche quello di riscoprire le pagine, ingiustamente dimenticate, di questo medico chirurgo che viveva la sua professione con una intensa carica di simpatia umana; che non considerava i suoi pazienti come numeri anonimi, ma persone con le quali era necessario stabilire un rapporto di fiducia e di collaborazione; e, per il quale, la dimestichezza con i classici latini e, in generale, con la cosiddetta cultura umanistica, si sposava benissimo con la dimensione scientifica della sua professione, secondo il motto del buon vecchio Terenzio: Homo sum, et nihil humani a me alienum puto.
Ne avessimo ancora, di chirurghi e di medici di quel genere, nell’ultra tecnologico e post-moderno terzo millennio!
E ne avessimo ancora, di scrittori di medio livello, i quali, pur non raggiungendo le vette dell’arte, sappiano però intrattenere piacevolmente un pubblico popolare, trasmettendo retti princìpi e buoni sentimenti!
Macché: oggi, per essere primari d’ospedale di un certo nome, pare esser divenuto necessario disumanizzarsi e trasformarsi in macchine operatorie di altissima precisione (e filosofi come Umberto Galimberti sostengono che va bene così: che, se noi domandiamo ai medici un po’ più di umanità, mostriamo di avere delle pretese eccessive e irragionevoli). E, per esser considerati buoni scrittori, sembra sia requisito indispensabile quello di descrivere l’uomo come un guazzabuglio caotico di impulsi selvaggi, di egoismi disordinati, di nausee esistenzialiste e di lacerazioni insanabili, senza mai fargli levare gli occhi verso l’alto, verso l’azzurro; anzi, compiacendosi di vederlo sprofondare nel caos ogni giorno di più.
Ma guai a dire queste cose nei salotti buoni della cultura contemporanea! Oltre a passare per incurabili conservatori e nemici dichiarati del progresso, si andrebbe a toccare il nervo scoperto del paradigma culturale della modernità: l’ingenua fiducia (questa, sì, ingenua, e non nel senso migliore della parola!) nelle magnifiche sorti e progressive che l’apparato tecnoscientifico, infallibilmente, elargisce a tutti gli uomini.
Anche di questo banale conformismo scientista e positivista; anche di questo piatto compiacimento nichilista e pseudo-intellettuale, si alimenta il Mostro Mite: il Leviatano della società di massa, che noi tutti continuiamo ad alimentare, con i nostri comportamenti e i nostri pensieri quotidiani.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels