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Leggere i buoni libri, non leggere i cattivi e i pessimi

Viviamo in un mondo materialmente, intellettualmente e moralmente inquinato e avvelenato: tutto il mondo moderno lo è, per sua intrinseca natura e vocazione; né potrebbe essere altrimenti, dati i fondamenti e le premesse costituitivi della modernità. Pertanto è di somma importanza, anzi è vitale, per condurre una vita intellettualmente e moralmente sana, accompagnarsi a persone, e naturalmente anche leggere libri, che siano intellettualmente e moralmente sani; proprio come lo è, per mantenere la salute fisica, acquisire o conservare tutte quelle abitudini che consentono al corpo di preservarsi dalle malattie.

Il problema è che la cultura dominante ci somministra quantità industriali di prodotti di risulta, se non di letame vero e proprio; lo spietato potere globalista, che negli ultimi anni ha lasciato cadere molte delle maschere dietro le quali si celava, e sempre più s’impone nella vita dei singoli e dei popoli in forme estremamente sottili e invasive, senza peraltro rifuggire anche da pressioni e ricatti pressoché espliciti, non ha alcun interesse a lasciare che le persone possiedano una vera cultura, condizione importante per formarsi una capacità di giudizio critico. Al contrario, esso è strenuamente impegnato a distruggere cultura e intelligenza e a piegare la volontà ai suoi fini, facendo sì che le persone li scambino per i propri fini e per i propri bisogni, divenendo così i collaboratori inconsapevoli del proprio indottrinamento e della propria destrutturazione intellettuale e morale.

A tale scopo, il potere incoraggia, promuove e valorizza la diffusione di quel pensiero e di quelle opere — poetiche, letterarie, teatrali, musicali, artistiche e cinematografiche, ma anche scientifiche e filosofiche — atte a confermare i dogmi ormai imperanti della cultura materialista (o, il che è lo stesso, falsamente spiritualista), meccanicista, relativista, nichilista, atea, massonica, anticristiana, neomaltusiana, eugenetica e migrazionista (in funzione multiculturalista e, sul piano religioso, sincretista). Così facendo esso promuove e diffonde deliberatamente l’incertezza, lo smarrimento, l’angoscia, la paura (di tutto, ma specialmente della morte), la disperazione. Tutte queste cose sono le catene grazie alle quali le persone rinunciano ad essere veramente tali, a vivere da uomini liberi, si votano a mille forme di servitù volontaria, e soprattutto smarriscono l’idea che la vita è una cosa seria, una cosa importante, una cosa bella, ma non fine a se stessa, bensì una preparazione alla vita vera — quella eterna.

Essi sanno, e lo sanno benissimo, che fino a quando vi saranno persone, famiglie e popoli i quali fondano la loro vita sui valori perenni, il loro potere non sarà mai completo, né definitivo; mentre ciò che essi vogliono creare è una situazione senza possibilità di ritorno. Da ciò la loro impazienza, l’accelerazione che negli ultimi tre anni hanno impresso al perseguimento dei loro obiettivi di più vasta portata. Una fretta che tradisce la loro intima debolezza. Sanno, fra l’altro, che per distruggere bisogna agire velocemente, mentre la costruzione e la ricostruzione richiedono tempi lunghi, sì, ma poggiano su basi assai più solide di chi sa solamente distruggere. Non dobbiamo lasciarci contagiare dalla loro fretta, che ci obbligherebbe ad agire in maniera impulsiva e disordinata: al contrario, dobbiamo conservare la massima lucidità e freddezza e tenere ben presente che nulla è perduto, fino a che noi non gettiamo intimamente la spugna, non ci arrendiamo alla corrente che oggi scorre impetuosa (ma che domani potrebbe indebolirsi ed esaurirsi, col ritorno del buon senso e della vera morale) e non ci diamo per vinti, sottomettendoci, magari con l’illusione di salvare il salvabile e cioè con la riserva mentale di riprenderci la nostra libertà di pensiero e di azione, quando se ne presenterà l’occasione.

La cultura, dunque.

Partiamo dalla letteratura: perché i libri che la maggior parte della gente legge sono romanzi, o comunque opere letterarie; solo una piccola minoranza predilige libri di argomento scientifico, filosofico, teologico. Bisogna dunque leggere buoni romanzi, frutto del lavoro di buoni autori: ma come riconoscerli nello sterminato esercito delle opere inutili o dannose, scritte da mercenari e da egotisti i quali, pur di ottenere vantaggi personali e di gratificare il proprio io, non esitano a sguazzare nel fango e a trascinare nel fango gl’incauti lettori, facendo credere loro che esiste solamente il fango e che il cielo azzurro e l’aria pura sono invenzioni di preti astuti e pie leggende per bambini o per vecchiette?

Un tempo c’era qualcuno che si poneva il problema: la cultura cattolica segnalava la buona stampa, i buoni film e i buoni programmi televisivi e metteva in guardia contro quelli cattivi. Non mille anni fa: quando noi eravamo bambini, sulla porta d’ingresso della chiesa erano esposte le indicazioni sulla buona e la cattiva stampa (fumetti compresi), un po’ come oggi, sulla porta delle basiliche visitate dai turisti, ci sono i cartelli per raccomandare a chi entra d’indossare abiti decenti. Sembra però che siano trascorsi dei millenni: in nome del dialogo, dell’apertura e del pluralismo, oggi si vedono e si odono fior di sacerdoti e di teologi e perfino vescovi, cardinali e papi, tessere l’elogio di pessimi scrittori, di pessimi film, di pessimi programmi televisivi, aumentando lo smarrimento e la confusione. Fa parte del grande disegno anche questo: che lo sappiano o no, costoro si sono messi al servizio della Bestia, e ne portano la responsabilità innanzi a Dio. Lasciamo che si godano il loro squallido momento di gloria e si esaltino davanti agli applausi della folla; noi andiamo, con l’aiuto del Signore, per un’altra strada.

Scriveva, a ragione, Michel Louis, nell’ormai lontano 1963, pochi anni prima del diluvio sessantottesco, ma già nel mezzo di quel preludio alla rivoluzione — e non solo per i cattolici – che è stato il Concilio Vaticano II, nel volume Il giovane e la letteratura (titolo originale: Du pain et des livres, Parigi, Fayard; traduzione dal francese di C. M. Di Scipio, Catania, Edizioni Paoline, 1966, pp. 101-106):

«Padre nostro che sei nei cieli, restaci!», canta il marxista Prévert, in una dichiarazione insieme ortodossa e brutale, il cui carattere aggressivo urterebbe molti degli uomini di cui ci accingiamo a parlare. Eppure definisce abbastanza bene il loro pensiero.

Vi sono alcuni la cui opera non comporta semplicemente la mancanza di presenza divina, ma è di tale qualità da far cercare questa presenza e di farci stupire di non incontrarla. Il caso tipico è, mi sembra, quello di Valéry, spirito di un rigore e di una lucidità straordinari, ma la cui rigorosa intelligenza non offre alcuna presa sul reale e sembra esercitarsi solo come un giovo sterile. (…)

Nell’opera minuziosa e crudele di Proust, Dio è curiosamene assente, ma non si trovano più quelle alte muraglie di cristallo che gli impediscono qualsiasi adito. Si direbbe che è atteso… se questo mondo artificiale e votato alla vanità avesse il tempo di occuparsi di lui. È presentito, è quasi chiamato in quella bella pagina della morte di Bergotte, il celebre scrittore, che termina con questa prudente affermazione: «L’idea che Bergotte non era morto per sempre non era inverosimile».

Giraudoux, lo squisito Giraudoux, ci dà un altro esempio di un pensiero totalmente "terreno".Con prudenza, tuttavia, e una maliziosa riserva. Alla domanda: «Perché non si parla mai di Dio nelle vostre opere?» risponde cin una piroetta, e passando a Claudel l’incarico di questa specialità. Ma leggiamo "Anfitrione": non ci sarà difficile comprendere, sotto il simbolo appena velato, come è restio a qualsiasi idea del soprannaturale: ci basta le terra!

Passiamo a quelli che rifiutano Dio con decisione, in nome di un altro assoluto: per Jean Paul Sartre l’assoluto della libertà, per cui l’uomo «fondamentalmente desidera di essere Dio», è solo una passione inutile: «Tu mi hai creato, Giove, ma non dovevi crearmi libero». Se l’uomo «è la sua libertà» non può esserci Dio.

L’assoluto di un destino umano, che si snoda in un contesto di assurdità e può desiderare solo la giustizia e la libertà che si conquista quaggiù: questo deve bastarci. Si sa come va a finire questa saggezza terra terra: quel romanzo della "Caduta", in cui l’uomo, osservandosi lucidamente, si scopre basso e debole, senza speranza di riscatto, con l’unica consolazione di far scoprire agli altri che gli rassomigliano…

Ed ecco Montherlamt, adoratore della forza e, all’occasione, ammiratore del cristianesimo: ma per condurci dove, con quel suo splendido linguaggio? Al Nulla, vi dirà per bocca del Cardinal di Spagna.

Bisogna mettere anche Gide fra questi negatori? Certamente, se lo si giudica dalle sue ultime opere: «Dio? Quasi non capisco neanche più di che si tratta». L’uomo che ha voluto possedere tutto parte con le mani vuote e vede levarsi «il volto terribile della noia»; lo stesso che aveva conosciuto Cristo abbastanza da vicino per rivolgergli questa angosciata preghiera: «Mio Dio, vengo a voi con tutte le mie piaghe che sono diventate ferite; con tutti i miei peccati, dai quali l’anima mia è schiacciata! Tutti i riflessi di voi che sentivo in me si oscurano. È tempo che veniate! Come! Son dunque oggi come se non lo avessi mai amato».

Il Vangelo, che conosceva bene, lo aveva avvertito: non si può servire a due padroni.

Si dovrebbe citare ancora Malraux, il lucido Malraux, che vede, sino all’evidenza, che volendo uccidere Dio si è ucciso l’uomo, che riconosce la grandezza del cristianesimo, che resta prigioniero del suo orgoglio ribelle:«Certo, c’è una fede più alta, quella proposta da tutte le croci dei villaggi e da quelle croci che dominano sui nostri morti. È amore, e la pace è in essa. NON L’ACCETTERÒ MAI…».

Se vogliamo fare il bilancio della letteratura atea della nostra epoca, arriveremo alle seguenti constatazioni: in questi attacchi, fede in Dio e cristianesimo sono quasi sempre indissolubilmente legati; con la maggior lucidità, la fede in Cristo è vista come la forma privilegiata della religione.

Non che Cristo sia concepito come nemico: talvolta — non sempre! — è accettato come un altissimo esempio di umanità, cioè come un amico (Camus: «Ha gridato la sua agonia, ed ecco perché l’amo, AMICO MIO, che è morto senza sapere»; ma è ben inteso che non è Dio.

Il Dio attaccato è un personaggio estraneo, frutto d’una dubbia metafisica: prende il posto dell’uomo; quel che è lui, impedisce che lo sia l’uomo…

E ciò spiega la violenza con la quale è attaccato. Si prenda, ad esempio, il linguaggio di Sartre in "Des Mouches, Le Diable et le Bon Dieu": si crederebbe mai che si tratta di abbattere un essere… che non esiste?

E così prende tutto il suo senso, in questi uomini dotati di incontestabile talento, la tragica domanda di Malraux: «Che farsene dell’anima se non c’è né Cristo né Dio?».

Quando Michel Louis scriveva queste note, la situazione era infinitamente meno grave di oggi; ma era grave anche allora. Sulla scia del P. Blanchet egli individua cinque scrittori francesi capiscuola: Péguy, Proust, Valéry, Claudel, Gide; e parecchi altri che sono quasi alla stessa altezza: Giraudoux, Mauriac, Bernanos, Montherlant, Green, Jammes, Jouhandeau (fra gli stranieri ricorda D’Annunzio, Papini, Kafka e Rilke). L’elenco potrebbe continuare con Martin du Gard, Renard, Malraux, Cocteau, Drieu La Rochelle, Maurois, Céline, Saint John Perse, Éluard, Aragon, Prévert, Simenon, Giono, Bosco — solo per limitarci alla prima metà del Novecento e solo per restare in ambito francese. Già allora, i cattolici erano una piccola frazione dell’insieme; alcuni erano per così dire neutrali; altri decisamente anticristiani. Oggi, fra la metà del Novecento e i primi due decenni del terzo millennio, il quadro si è alquanto incupito: a partire da Sartre e dagli esistenzialisti, fino ai romanzi sporchi di Jean Genet (ancora più sporchi di quelli di Moravia e Pasolini, il che è tutto dire) è scemata la presenza di Dio, si è volatilizzata la morale, e la stessa qualità artistica delle opere più recenti lascia quanto mai a desiderare. Un discorso analogo si potrebbe fare per le arti figurative, la musica, il cinema.

C’è poi un’altra cosa importante da considerare.

Non basta dichiararsi sentimentalmente cattolici per essere davvero tali: per riuscire d’aiuto alle intelligenze e alle anime, bisogna essere fedeli interpreti della verità. Ci sono troppi scrittori cattolici che hanno spacciato per cattolicesimo i loro vaneggiamenti e le loro elucubrazioni: in Italia, il caso tipico è stato quello del modernista e decadentista Antonio Fogazzaro, forse troppo celebrato come scrittore. Altri sono stati di scandalo con la loro vita, che inevitabilmente si riflette nelle loro opere: François Mauriac, Julien Green e Marcel Jouhandeau erano omosessuali dichiarati e impenitenti (come lo erano i non cattolici Cocteau, Desbordes, e prima di tutti ,Proust, benché non dichiarato); Léon Bloy, come del resto Charles Péguy, vedeva nel cristianesimo una specie di super-giudaismo; Jacques Maritain (con la moglie Raissa, ebrea convertita) e i loro amici Fumet, marito e moglie, Stanislas e Aniouta Rosenblum (lei pure un’ebrea russa convertita) erano fautori di un umanesimo integrale, niente affatto cattolico, nonché di un cattolicesimo fortemente venato di filo-semitismo, che sarebbe naturalmente sfociato nell’infausta Nostra aetate di Paolo VI, perché Maritain era fra gli "esperti" invitati al Concilio Vaticano II, il cui parere, benché laici, pesava più di quello dei padri conciliari (questo tema è stato particolarmente indagato e approfondito da don Curzio Nitoglia).

Ora, non è che noi pretendiamo da un romanziere che debba essere un vaso di eccelsa verità teologica. Sta di fatto però che se uno scrittore si dice cattolico, e viene riconosciuto ed elogiato come tale dalle massime autorità della Chiesa, i lettori, specie cattolici, si aspettano di trovare nelle sue opere un riflesso, per quanto in chiave letteraria e non teologica, di quelle verità eterne che contraddistinguono la fede cattolica; in altre parole una conferma della fede in cui credono. Se vi trovano invece dei concetti erronei e delle posizioni sbagliate, anche in ambito morale, subiscono un avvelenamento tanto più grave, in quanto non ne sono affatto consapevoli, e non stanno per nulla in guardia mentre leggono i suoi libri, dando per scontato che siano fedeli alla vera dottrina. Il pericolo è questo; ed è su questo equivoco che tante idee eretiche e immorali sono penetrate all’intermo della Chiesa. La strategia del potere è stata quella d’infiltrare gli alti grandi della gerarchia ecclesiastica con dei massoni, e, al livello del popolo cattolico, cioè dei laici e della gente comune, far "passare" come cattolici delle idee e degli stili di vita che non sono cattolici, grazie all’opera di confusione propalata da scrittori nominalmente cattolici i quali — nel migliore dei casi – avevano le idee confuse ed erano approdati al cattolicesimo portandosi dietro un fardello non risolto né archiviato di altre esperienze spirituali o religiose.

La situazione odierna — il degrado dei contenuti della fede e parallelamente della morale, specie della morale sessuale, ma non solo (vedi il caso dell’aborto) è il frutto di quest’opera tenace, capillare, instancabile di penetrazione di idee e comportamenti anticristiani entro l’orizzonte mentale e spirituale dei cattolici. Un pensiero non cattolico è penetrato all’interno della Chiesa, lamentava Paolo VI, proprio all’indomani del Concilio. Già. Peccato che lui stesso, soprattutto con la cosiddetta riforma liturgica del 1969 ispirata ai principi della massoneria e in parte del protestantesimo, sia stato il maggior responsabile di una tale deriva. E se ciò era vero nel 1965, si pensi cosa è oggi, mezzo secolo dopo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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