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Può il medico essere una figura moralmente neutra?

Su questo delicato aspetto della professione medica così si esprimeva il professor Carlo Rizzo, che fu libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Roma, uomo di salda fede cattolica oltre che di scienza, tanto è vero che fu invitato a collaborare al Dizionario di Teologia morale diretto da Francesco Roberti, opera notevole e, vorremmo dire, quasi il canto del cigno della vera teologia cattolica alla vigilia dell’alluvione del Concilio Vaticano II, che avrebbe stravolto e reso irriconoscibili e dubbie anche le verità più certe (cit., Roma, Editrice Studium, 1955, 1957, p. 1544):

Al letto del malato, o comunque, nel corso delle sue prestazioni, il medico viene abitualmente richiesto di consigli che hanno stretta attinenza con la morale. Egli, avendo veramente a cuore la salute dei propri infermi, eviterà ogni atteggiamento improntato a scetticismo o ad indifferenza e, conscio dell’importanza d’ogni sua parola — che, in simili circostanze, è ascoltata, ricordata e seguita come un oracolo — sarà largo di suggerimenti intonati all’etica cristiana e, quando gli si offrirà il destro, non eviterà di toccare argomenti religiosi, di fare affermazioni di fede e di esortare il malato al ravvedimento e ad opere di bene. Ogni medio sa, per esperienza personale, quanto spesso il rinvigorirsi della fede in Dio, il riconciliarsi con un avversario, l’abbandono di una abitudine viziosa, la preghiera, la stessa rassegnazione giovino, rasserenando la coscienza, a migliorare le condizioni fisiche di un infermo e ad avviarlo verso la guarigione. Ed il medico veramente saggio ed accorto non mancherà di mettere in opera questi mezzi spirituali per trionfare della malattia, anche indipendentemente dalla salvazione delle anime, che resta, per altro, la meta più bella di ogni cristiano.

A quest’ultimo proposito non si reputa superfluo ammonire gli ostetrici, e quanti altri hanno occasione di assistere le gestanti, sull’opportunità che essi sappiamo somministrare il battesimo, essendo obbligati a siffatta somministrazione, quando il feto (anche nell’utero) od il neonato siano in imminente pericolo di vita.

Sono passati sessantacinque anni, e oggi la questione si pone in termini completamente diversi. Ora non si tratta più di battezzare con urgenza il neonato, o il feto non ancora uscito dall’utero, qualora si trovi in pericolo di vita; tanto meno da parte del personale medico e infermieristico che, se lo facesse, si esporrebbe automaticamente alla concreta, anzi quasi certa, possibilità di denunce, sanzioni amministrative o peggio, con l’accusa di aver voluto esercitare un’indebita pressione psicologica sulla partoriente, profittando del suo stato di fragilità emotiva dovuta alle circostanze, e quindi abusando dei poteri conferitigli dall’esercizio della professione. Fosse solamente questo! Oggi, e intendiamo dopo l’approvazione della legge 194 da parte del Parlamento italiano, cioè dal maggio 1978 (sono ormai quarantaquattro anni: poco meno di due generazioni) si tratta di assumere per legge un atteggiamento di assoluta neutralità rispetto all’eventuale decisione della futura madre di abortire, senza che ve ne sia alcuna necessità oggettiva di tipo medico; o, peggio, di favorire una tale decisone, e persino di suggerirla, se le ecografie del nascituro hanno per caso evidenziato qualche difetto, più o meno grave.

Si dirà che tutto questo è naturale; che la morale è cambiata; che la nostra società è passata dall’essere cattolica a laica, anzi laicista, e che i vecchi valori non sono più tali, per dir meglio non sono più valori, ma disvalori; e che tanto vale prenderne atto e mettersi l’anima in pace. Rispondiamo che ci è impossibile, anche se lo volessimo; e che se noi tacessimo, si metterebbero a gridare le pietre. La morale cambia, la morale può cambiare? Sicuro, rispondono i campioni del relativismo: e ciò che era giusto e buono ieri, oggi non lo è più; e viceversa. Ma ne siamo davvero sicuri? Nel loro eccesso di laicismo, e ossessionati come sono dalla ferma determinazione di veder cancellata fin l’ultima traccia di morale cattolica dalla nostra società, essi confondono la morale religiosa con la morale naturale.

Anche per la morale naturale uccidere è male; anche per essa bisogna perseguire sempre il bene; e il bene non è relativo, mai. Tutt’al più può presentarsi il caso di dover compiere una difficile scelta morale, ad esempio, in caso estremo, di dover decidere se il medico deve salvare la madre o il nascituro, posto che entrambi non possano sopravvivere al parto. Si tratta di una decisione che non è religiosa: è morale. Della morale naturale: che esiste; non solo, ma è sempre uguale a se stessa, non muta, come quei signori vorrebbero credere e far credere, secondo il mutare dei tempi e dei luoghi. Il bene è sempre e ovunque bene; il male è sempre e ovunque male. Se ne facciano una ragione costoro: ci può essere un bene maggiore o minore, e così un male più grande o più piccolo, ma il bene non sarà mai confondibile con il male, né questo con il bene. Con buona pace delle varie forme di gnosi e della dialettica hegeliana, i due principi — come pure il vero e il falso, e il bello e il brutto – sono reciprocamente incompatibili e non sarà mai possibile arrivare a fonderli, o piuttosto confonderli, in una pretesa sintesi superiore; tranne, beninteso, che nel regno delle chiacchiere e sulle cattedre dei professori di filosofia, ove è possibile dire qualsiasi cosa e anche il suo contrario, con pari sicumera.

Noi crediamo che possibile dimostrare che il bene e il male, anche per la morale naturale, sono relazioni reali e non soggettive, dunque non mutevoli, ma stabili e assolute. Per farlo, partiremo da un’analogia con un pensiero di San Tommaso d’Aquino relativo alla Santissima Trinità (chi ci ha seguito fin qui si rassicuri che non stiamo divagando, ma vogliamo introdurre un concetto nuovo). Egli dice, nella Summa Theologiae (I, 28, 1), che

Il Padre non è detto tale se non per la paternità, e il Figlio per la filiazione. Se dunque la paternità e la filiazione non sono realmente in Dio, ne segue che egli non è Padre e Figlio realmente, ma solo secondo il nostro modo di concepire: e questa è l’eresia di Sabellio. Dimostrazione: Vi sono in Dio alcune relazioni reali. Per chiarire questo punto si deve notare che solo nella categoria della relazione si trovano alcune specie che non sono reali, ma soltanto di ragione. Il che non avviene nelle altre categorie: poiché queste altre, come la quantità e la qualità, prese anche secondo il loro concetto essenziale, significano qualcosa di inerente al soggetto. Invece la relazione, presa secondo il suo concetto essenziale, comporta solo un ordine a qualche altra cosa. E tale ordine qualche volta è nella natura stessa delle cose: come quando queste per natura sono tra loro ordinate e tendono l’una all’altra. E le relazioni di questo tipo sono necessariamente reali. Come nei gravi c’è l’inclinazione e la tendenza verso il centro della terra, e perciò vi è in essi un ordine o relazione a questo centro. E lo stesso avviene in altre cose simili. Invece talvolta il rapporto espresso dai termini relativi si trova soltanto nella ragione che conosce e confronta un termine con l’altro; e allora si ha una relazione soltanto di ragione: come quando questa mette in rapporto l’uomo con l’animale come la specie al genere. Ora, quando un soggetto procede da un principio di uguale natura, tutti e due, ossia ciò che procede e il suo principio, necessariamente convengono nello stesso ordine, e perciò le relazioni che li uniscono sono di necessità relazioni reali. Essendo dunque le processioni divine in identità di natura, come si è detto [q. 27, a. 3, ad 2], anche le relazioni che ne seguono sono necessariamente relazioni reali.

Ora, stante che il bene e il male sono relazioni e non oggetti auto-sussistenti, si tratta di capire se sia vero che la proposizione è bene far nascere un essere umano, ovvero la stessa cosa detta altrimenti, è male impedire la nascita di un essere umano, sopprimendolo nel senso della madre, è valida in senso assoluto e non relativo, come oggi invece la cultura dominante pretende, e perfino impone di credere.

Abbiamo detto che bene e male sono relazioni; dobbiamo precisare che esistono due tipi di relazioni, quelle reali e quelle di ragione. Le prime ineriscono al proprio oggetto e sono parte della sua stessa sostanza (come il Padre e il Figlio nella Trinità divina); le seconde ineriscono alla mente che le giudica, come quando diciamo che una pietra è a destra, intendendo che essa è "a destra" non in senso assoluto, bensì in riferimento alla nostra posizione verso di essa; posizione che può cambiare, nel quale caso la pietra diverrebbe, ad esempio, " a sinistra", ma sempre rispetto a noi e non a se stessa.

E adesso, si può ragionevolmente affermare che per un nascituro sia cosa migliore venire soppresso nel senso della madre, invece di venire al mondo? Prima di rispondere, e prevediamo l’obiezione (sì, se quel bambino è malformato; oppure: sì, se è destinato a nascere in un ambiente sfavorevole, con una madre che non può o non sa o vuole occuparsi di lui) si rammenti che non stiamo giocando a fare gl’indovini; che, onestamente, nessuno può dire cosa sarà il futuro, né, tanto meno, sapere in anticipo che quella vita non merita di essere vissuta, ammesso che vi siano dei casi nei quali si può fare un’affermazione del genere senza perciò stesso mettersi al posto di Dio, il che è una contraddizione in termini, perché presuppone una confusione di statuti ontologici (la creatura non può sostituirsi al Creatore).

Un’altra possibile obiezione è quella che si può formulare partendo dal presupposto di una filosofia radicalmente pessimista e nichilista (Leopardi, Schopenhauer), oppure ciecamente neomaltusiana, come oggi va assai di moda e che vede nell’uomo un problema da "risolvere", e per la quale vivere, anzi esistere, di qualsiasi ente si tratti, è un male in se stesso. Ma è facile rispondere a questa obiezione che nessuno ha il diritto di decidere, su una cosa di tale importanza, mettendosi al posto di chi non può decidere, ossia di decidere in un senso che elimina in radice qualsiasi possibilità di decisione. Un’ulteriore risposta è che il pessimismo e il nichilismo sono una concezioni soggettiva e che pertanto non si può assumere un punto di vista soggettivo per determinare oggettivamente una qualsiasi decisione. Né giova ribattere che anche il punto di vista opposto è soggettivo e perciò passibile della stessa critica: che l’essere sia bene e il non essere sia male non sono affermazioni soggettive e perciò non si possono definire ottimistiche. Che l’essere sia, è il presupposto di ogni altra cosa; pertanto, a rigore, non sarebbe esatto dire neppure che l’essere è bene, ma soltanto che è la condizione che rende possibile ogni altro bene (fermo restando che il male non è un oggetto ma una privazione di bene).

A questo punto – e il caso dell’aborto è solo un esempio, per quanto altamente drammatico — si può misurare quale catastrofe sia stata la rinuncia, da parte del medico, a svolgere la funzione che aveva sempre svolto in passato, dalla più lontana antichità: essere anche un consigliere morale. Il paziente in ogni tipo di società vede, o meglio vedeva in lui, tale funzione: la chiedeva, la sollecitava, ne traeva motivo di conforto. Ora egli vi ha rinunciato, senza rimpianti, concentrandosi sugli aspetti puramente tecnici della sua professione; di fatto, però, assecondando i nuovi indirizzi, contrari alla ragione naturale, e perciò anti-umani, della sanità pubblica, ha scelto di schierarsi in un senso ben preciso, che non è neppure di neutralità o agnosticismo, ma è funzionale alla crudele ideologia oggi imperante, tutta protesa ad attuare i fini della globalizzazione e decisa a tirare un colpo di spugna sui valori assoluti. Perciò non è stata l’introduzione dell’aborto a mutare il paradigma deontologico e morale dei medici; al contrario, è stato il mutamento di paradigma dell’intera società a trovare poca o nessuna resistenza nei medici di fronte a un nuovo indirizzo che contraddice frontalmente il sacro giuramento d’Ippocrate.

Ci aspettiamo a questo punto un’ulteriore obiezione. Non è forse per custodire un bene assoluto, il rispetto della vita, che la classe medica, istigata dall’alto, si è arrogata un potere così maligno e incontrollato, come quello che da due anni e mezzo ha fatto scendere una cappa di piombo sulla società? Certo che no. Quando diciamo che la medicina deve difendere i valori assoluti, ad esempio il diritto del nascituro di venire al mondo, intendiamo sempre e comunque qualcosa di certo, evidente e oggettivo. La pretesa emergenza sanitaria scattata nel marzo del 2020, che qualcuno vorrebbe prolungare a tempo indefinito, non costituiva una minaccia per la vita delle persone e per il bene della società, tale da poter essere definita un fatto certo, evidente e oggettivo. Al contrario, tutti i dati reali smentivano tale interpretazione del fatto. Non solo: tutti i parametri scientifici finora ammessi come veritieri indicano che il rimedio proposto, e imposto, era ed è tutt’altro che sicuro…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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