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5 Agosto 2022È la noia, insieme al pensiero angoscioso della morte, la malattia mortale dell’uomo moderno? Le due cose, del resto, sono correlate: perché la noia ha a che fare con il senso della vacuità del tempo, e l’angoscia della morte deriva precisamente dal pensiero dell’annullamento finale di tutto ciò che è terreno. Non solo della propria morte, ma la fine e l’inutilità di ogni vita, di ogni cosa esistente. Come recita il Libro dell’Ecclesiaste (1,3): Vanità delle vanità, tutto è vanità; vale a dire: tutto è inutile e senza senso apparente.
Gli antichi conoscevano la noia? Certamente sì; e le avevano anche dato un nome che rivela un’acuta introspezione psicologica: taedium vitae, «noia dell’esistenza», collegata, appunto, da un lato al senso del nulla e della morte, dall’altro alla scoraggiante inutilità di ogni passione e di ogni azione. Non era, però, un male granché diffuso: mieteva le sue vittime soprattutto fra le classi alte, quelle che potevano, o meglio che dovevano dedicarsi all’otium: cioè non all’ozio nel senso moderno della parola, ma alla tranquillità d’animo, sgombra da doveri e uffici, necessaria per attendere agli studia humanitatis, gli studi umanistici. Lucrezio soprattutto ne fa una penetrante analisi; dalla quale, peraltro, si deduce che doveva essere un male pressoché sconosciuto alla stragrande maggioranza degli uomini. E non solo perché il lavoro necessario al mantenimento della famiglia non doveva lasciare abbastanza tempo da annoiarsi, ma soprattutto perché la noia è il tipico male di una società decadente, che ha smarrito la propria ragion d’essere e ha perso di vista tutti i valori e i punti di riferimento: a cominciare dall’istinto della riproduzione, così necessario alla collettività, ma anche all’equilibrio mentale dell’individuo, e specialmente della donna. Tutte le società "evolute", nelle quali la donna smette di avere figli per avere, in cambio, dei problemi, secondo l’icastica freddura di Oswald Spengler, imboccano al strada della decadenza, la cui prima avvisaglia è data dalla diffusione della noia.
Nella civiltà medievale la noia non esisteva, a quanto ne sappiamo, se non, talvolta, fra le mura del convento, sotto forma di tentazione diabolica: perciò l’abate, o il direttore spirituale, la trattavano alla stregua di un peccato, scaturente dalla negazione della bontà e della bellezza del mondo creato da Dio, e presupposto per la tentazione e il peccato, che trovano in essa un terreno reso fertile dallo sbrigliarsi ozioso dell’immaginazione. Tutto il contrario di quel che avviene ai nostri dì, quando pare che la società moderna abbia deciso di lanciare una crociata contro tutto ciò che potrebbe distrarre l’anima dall’inerzia e dalla noia esistenziale, richiamandola al senso del dovere e più in generale alla serietà della vita. Laddove vige la diffusa convinzione che la vita è una cosa seria, e che essa ha uno scopo e un fine, non vi sono le condizioni per annoiarsi; il compiacimento masochista e depressivo di vedere l’assoluta inutilità del tutto trova la sua espressione esemplare nei versi del Sabato del villaggio di Leopardi (diman tristezza e noia / recheran l’ore, ed al travaglio usato / cascuno in suo pensier farà ritorno) e, venendo più vicini a noi nel tempo, nelle pagine deliranti e deprimenti de La nausea di Jean-Paul Sartre. La poesia di Leopardi è del 1829, il romanzo di Sartre del 1938: poco più di un secolo separa le due testimonianze, ma è facile vedere quanta strada abbia fatto la diffusione di una tale lebbra morale, e quanto abbia infiacchito l’animo; basta confrontare il pessimismo agonistico del primo con l’esistenzialismo nichilista del secondo. Se l’Europa del primo Ottocento era malata, l’Europa alla vigilia della Seconda guerra mondiale (e, a tanta maggior ragione, dopo di essa) è praticamente in coma, e pare che nemmeno le cure più energiche la possano ridestare.
Citiamo parte di un piccolo saggio di Amedeo Vigorelli, Perché ci si annoia?, tratto dal testo I filosofi e le idee. Esperienze filosofiche e storia del pensiero, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2005, vol. 2, L’età moderna, p. 304):
È stato detto (a partire dal Romanticismo) che la noia esprime uno stato d’animo tipico dell’uomo moderno, una MALATTIA DEL SECOLO (l’Ottocento), che colpisce soprattutto le classi sociali elevate, gli intellettuali e gli artisti, che hanno più tempo per riflettere sulla condizione umana. La noia è infatti il sentimento rivelatore di una ASPIRAZIONE VAGA ALLA FELICITÀ, di un tendere ("streben") senza oggetto, destinato a venire costantemente frustrato dalla realtà. Essa è affine alla MELANCONIA, allo stato d’animo nostalgico dei poeti romantici, che sovente reagiscono a essa con l’umorismo, ma talvolta con il pessimismo.
Si dice che gli antichi non conoscessero l’universalità di un tale stato d’animo, e che esso sia un contrassegno della modernità. Il Medioevo cristiano conosce in realtà la noia, che stigmatizza come peccato ("acedia"): è l’APATIA MORALE, di cui si rimproverano spesso i monaci, votati alla vita contemplativa, e di cui san Benedetto troverà la terapia nel lavoro manuale ("ora et labora"). Ma la concezione cristiana del tempo, fortemente orientata in senso escatologico (la vita è solo un breve passaggio, una prova dolorosa, in vista dell’eternità) impediva agli uomini del Medioevo di sentirsi seriamente minacciati dal "taedium vitae" (sinonimo, appunto, della noia: spinta all’estremo del fastidio e del ribrezzo nei confronti della vita stessa, di cui si avverte la fondamentale nullità). (…)
È Pascal a dare voce filosofica al sentimento della noia, come universale condizione umana: «Descrizione dell’uomo, dipendenza, desiderio d’indipendenza, bisogno. Condizione dell’uomo: incostanza, noia, inquietudine» ("Pensieri", 126-127). Egli colloca tale sentimento (di cui sono vittima specialmente le persone altolocate) all’interno della propria più personale disamina della miseria dell’uomo senza Dio. Posto tra due infiniti (quello che precede la nascita e quello che succede alla morte), l’uomo avverte il senso della propria NULLITÀ. La sua aspirazione alla felicità e alla stabilità (di cui è simbolo l’eternità della vita beata di Dio) è definitivamente frustrata dal peccato. Solo la grazia SOPRANNATURALE può venire in soccorso, ma di essa non abbiamo nessuna garanzia psicologica. Sul piano puramente immanente del vivere, sperimentiamo appunto la noia, che segue immancabilmente ogni nostro piacere e distrazione. Essa ci fa avvertire il "VUOTO DEL CUORE", ossia la sproporzione tra la nostra aspirazione alla felicità e qualsiasi possibilità di un suo positivo riempimento oggettivo.
Pascal distingue due forme di NOIA:
– quella comune e SUPERFICIALE, che cerchiamo di scacciare nel gioco, nei passatempi, nelle occupazioni quotidiane ("divertissement");
– quella PROFONDA, che si rinnova e si accentua allo spegnersi di ogni piacere, e che ci fa percepire, nel suo fondo, il sentimento di nullità e di mortalità che ci caratterizza (la morte è infatti la conseguenza prima del peccato).
Il primo moderno nella cui vita interiore la noia occupi uno spazio decisivo è senza dubbio Petrarca: seguiranno, fra gli altri, Montaigne e Rousseau. Abbiamo detto che la noia ha a che fare con il sentimento del nulla e lo scorrere vano del tempo, e perciò con l’angoscia della morte, come si vede in Orologio da rote di Circo di Pers, dove allo scorrere inesorabile del tempo, scandito dal ticchettio dell’orologio, si associa l’avvicinarsi della morte e l’immagine della tomba, evocatrice del nulla che inghiotte ogni cosa terrena:
Mobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore,
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: sempre si more…
Aggiungiamo che la noia ha a che fare anche e specialmente con l’ego. Si annoiano coloro i quali sono afflitti da un’ipertrofia dell’ego, coloro i quali vedono la propria immagine riflessa in cento e cento specchi, ovunque volgano lo sguardo: perché tale assolutizzazione dell’io, che corrisponde a una soggettivizzazione radicale del mondo (vedi Cartesio), svuota il reale di ogni nota diversa, di ogni voce o immagine differente da quella del soggetto stesso, col risultato di creare una terribile, ossessionante monotonia esistenziale.
Infine la noia, come aveva visto Lucrezio, deriva dall’impossibilità di soddisfare i propri desideri. E in una società, come quella del consumo, che è letteralmente dominata dalla frenesia di sempre nuovi desideri e sempre nuovi capricci, fatti però passare, anche alla coscienza di chi li nutre in se stesso, per legittimi e normalissimi bisogni, è logico che tante persone finiscano per ammalarsi di quella malattia che è la costante, sistematica frustrazione, generatrice a sua volta di noia e disgusto per il grigiore dell’esistenza.
Da quanto abbiamo fin qui detto dovrebbe risultare anche quale sia la strada per vincere la noia ed espellerla dalle nostre vite: combattere il sentimento del nulla riscoprendo il fine del nostro esistere, e limitare lo straripamento patologico dell’ego con l’imporgli una bella cura dimagrante, ad esempio riscoprendo il valore del "tu" e l’importanza delle relazioni non utilitaristiche con l’altro, quelle fondate sull’umana simpatia, il rispetto e l’amore disinteressato (fermo restando che l’amore è sempre disinteressato, se no è un’altra cosa). È impossibile che una persona sana, ben centrata in se stessa, non "compensi" la malinconia del tempo che scorre e tutto divora con il pensiero rasserenante dei figli e dei nipoti, della vita che continua e di una parte di noi che sopravvive in loro e nelle nostre opere. Se ciò non accade, significa che quella persona non ha raggiunto un normale equilibrio esistenziale e, in particolare, che è letteralmente soffocata nel proprio egoismo, il quale le impedisce di vedere il mondo più in là del suo naso. Un artigiano, un commerciante, un insegnante, un imprenditore che fanno il loro lavoro con passione, che cercano di dare il meglio di sé e di essere d’esempio ai colleghi o ai dipendenti, non trovano il tempo d’annoiarsi; né lo trovano il genitore che si occupa dei figli, o il nonno che pensa ai nipotini, e neppure il pensionato che finalmente si può dedicare al suo passatempo preferito, coltivare una sua passione, o impegnarsi in qualche opera parrocchiale o di volontariato sociale. La mala pianta della noia, figlia del disincanto e del disgusto verso la vita, non trova il terreno adatto per affondare le sue radici velenose, né il nutrimento per alimentarsi. Perché il cibo di cui si nutre la noia è la frustrazione mescolata al risentimento, e tale miscela esplosiva non trova luogo in un animo ben educato e ricco di valori, conscio che la vita ha un senso, uno scopo ed un fine.
Giunti a questo punto bisogna seriamente domandarsi se la pianta mortifera, ma fortunatamente rara in natura, della noia esistenziale, non sia oggi così diffusa perché un disegno scellerato di chi controlla e indirizza il sentire comune, attraverso il monopolio della cultura, dello spettacolo e dei mezzi d’informazione, consiste precisamente nella sua diffusione sistematica, allo scopo di sradicare e distruggere il normale senso di amore per la vita e il sano orizzonte di speranza che accompagna da sempre la condizione umana. Persone annoiate dalla vita ce ne sono sempre state, in tutte le epoche; ma una società sana ha in sé gli anticorpi per difendersene. Quando la società si ammala, perde gli anticorpi ed è costretta a inventarsi sempre nuove, e talvolta perverse, distrazioni, per dare ai suoi membri l’illusione di salvarsi dalla noia. Tali erano i crudeli spettacoli del circo nell’antica Roma, e tale è anche la moderna passione del calcio, perlomeno nei termini alienanti e deliranti nei quali si esprime sovente a livello di tifoserie fanatiche, vero e proprio surrogato della fede religiosa. Perché l’anticorpo più efficace era, ed è, quello della fede religiosa: dove la società nutre in se stessa un autentico sentimento del sacro e del divino, e vede la vita sotto la luce soprannaturale che la illumina e la riempie di significato, e attenua perfino il naturale orrore della morte, lì si può dire che la noia non riesce a mettere radici e non è in grado di attentare all’equilibrio complessivo delle persone comuni, ad offuscare in esse il normale amore per la vita, pur con tutti i suoi rischi e le sue incertezze.
Ed è qui che s’intravede il ghigno infernale dell’antico avversario, il quale da sempre induce l’uomo in tentazione, e ora più che mai ha trovato la maniera più efficace e radicale d’indurvelo: servendosi di una cultura degenerata e di un sistema di vita immorale e innaturale che conduce gli uomini, servendosi di quelli che dovrebbero fare da guida, cioè i sedicenti intellettuali, a provare nausea, disgusto e odio per la vita, dono inestimabile che Dio fa all’uomo affinché questi ne abbia cura e lo usi per amare i suoi simili e per conoscere, adorare e servire Colui che move il sole l’altre stelle.
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