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Sicurezza contro libertà: ecco il trionfo di Hobbes

Se costretta a scegliere, la società dovrebbe rinunciare alla libertà in favore della sicurezza, oppure posporre la sicurezza alla libertà? Quale dei due elementi deve essere considerato prioritario rispetto all’altro e assolutamente irrinunciabile: la sicurezza o la libertà? I fautori della sicurezza sostengono che questa viene per prima in ogni caso, perché se diviene incerta, ogni altro aspetto della vita sociale e individuale, e dunque anche la libertà, rischia di venir cancellato. Quanti invece danno la precedenza alla libertà sostengono che senza di essa la vita sociale e individuale scade a un punto tale da divenire indegna d’essere vissuta, per cui la società diverrebbe una prigione nella quale l’individuo sarebbe protetto, sì, da eventuali minacce esterne, ma al prezzo inaccettabile di vederlo ridotto al rango di uno schiavo; e l’intera società non sarebbe che un gregge di animali sottoposti a una sorveglianza opprimente.

La questione, posta così, avrebbe suscitato la perplessità degli antichi, per i quali la libertà dell’individuo non era neppure concepibile disgiuntamente da quella del corpo sociale. Quanto alla respublica christiana, né l’una né l’altra erano elementi irrinunciabili: prima di tutto veniva la tensione verso il Regno di Dio e quindi, necessariamente, l’obbedienza alla dottrina cattolica e la fedeltà alla Chiesa di Roma. E ciò perfino negli imperatori più "ghibellini" e recalcitranti, sul terreno politico, alla guida dei papi, come nel caso di Enrico IV con Gregorio VII e, più tardi, di Federico II con Innocenzo III. Questo, si capisce, a livello ideale piuttosto che pratico: ma nel Medioevo l’ideale non era ancora separato dal reale, né l’individuale dal sociale: l’uomo medievale poteva essere un idealista, non però un buffo sognatore. Don Chisciotte sarebbe venuto più tardi, con l’affermazione della modernità.

Il pensiero politico moderno invece pone in maniera drammatica e talora impietosa la divaricazione fra sicurezza e libertà e fra dimensione individuale e dimensione collettiva. Tra i filosofi della politica, ci sembra che un posto di primo piano vada riconosciuto senz’altro a quel Thomas Hobbes (1588-1679) che ancor oggi viene presentato agli studenti come un teorico dello stato assoluto e un precursore del giuspositivismo senza però evidenziare il ruolo decisivo che occupa nella formazione del pensiero politico moderno, non secondo ad alcuno e quindi neppure a Machiavelli (1469-1527) che lo precede di sessant’anni, ossia quasi tre generazioni, e che gli prepara il terreno, restando però indietro quanto alla ferrea coerenza con cui l’inglese, posto l’assioma fondamentale dello stato di natura come terribile anarchia, precarietà e insicurezza, nel quale l’uomo non può assolutamente sopravvivere, trae le logiche conclusioni. Ossia che lo Stato, oltre che necessario, deve essere un vero e proprio Leviatano, un mostro biblico, tale da incutere rispetto e un certo grado di paura anche nei più riottosi, quelli incapaci di vivere in pace coi loro simili perché l’uomo, per Hobbes, è lupo per gli altri uomini, e la vita sociale allo stato di natura non è che è una guerra incessante e rovinosa di tutti contro tutti.

Ha osservato in proposito Giorgio Luppi (in: Cioffi, Luppi e altri, I filosofi e le idee. Esperienze filosofiche e storia del pensiero, vol. 2, L’età moderna, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2005, pp. 346-347):

Il filosofo italiano Norberto Bobbio (1909-2004) individua con chiarezza la motivazione fondamentale della riflessione politica di Hobbes: si tratta di quella che Hobbes chiama l’"ossessione" del filosofo inglese per l’idea che l’eccesso di libertà possa avere come effetto la caduta nell’anarchia e della guerra di tutti contro tutti, propria dello stato di natura.

«L’ideale che gli (Hobbes) difende non è la libertà contro l’oppressione, ma l’unità contro l’anarchia. Hobbes è ossessionato dall’idea della dissoluzione dell’autorità, dal disordine che consegue alla libertà del dissenso sul giusto e l’ingiusto, dalla disgregazione dell’unità del potere, destinata ad avverarsi quando si comincia a sostenere che il potere deve essere limitato, in una parola, all’anarchia che è il ritorno dell’uomo allo stato di natura. Il male che egli paventa maggiormente, e contro il quale si sente chiamato ad erigere la suprema e insuperabile difesa del proprio sistema filosofico, è non l’oppressione che deriva dall’eccesso di potere, ma l’insicurezza, che deriva, se mai, dal difetto di potere. Insicurezza prima di tutto della vita, che è il primum bonum, e poi dei beni materiali, e infine anche di quella poca o molta libertà che a un uomo in società è concesso di godere» (N. Bobbio, "La teoria politica di Hobbes", in "Thomas Hobbes", Einaudi, Torino1989).

Come nota Bobbio, per Hobbes il difetto di potere e l’eccesso anarchico di libertà minano non solo la scurezza della persona e dei beni, ma anche quella libertà di cui è possibile godere in società, , a patto che questa sia regolata da un potere forte e stabile. Bisogna però intendersi sul significato della parola "libertà" in Hobbes. E a questo fine può essere utile leggere i seguenti passi tratti dal capitolo XXI del "Leviatano", nel quale il filosofo — dopo aver tratto della libertà naturale, che porta alla «guerra di tutti contro tutti», affronta il tema della libertà dei sudditi.

«Penso che gli uomini per procurarsi la pace e, grazie ad essa, l’autoconservazione, hanno costruito un uomo artificiale, che si chiama stato, essi hanno anche costruito dei vincoli artificiali, chiamati "leggi civili. […] È solamente in base a questi vincoli che io ora mi appresto a parlare della libertà dei sudditi. Poiché in effetti non esiste uno stato al mondo in cui vi siano regole stabilite in numero sufficiente per determinare tute le azioni e le parole degli uomini (il che sarebbe impossibile), ne consegue necessariamente che in tutti i campi d’azione trascurato dalle leggi gli uomini hanno la libertà dio fare ciò che la loro ragione gli suggerirà come la cosa più vantaggiosa per loro. Se infatti prendiamo il termine libertà nel suo senso proprio, di libertà corporea, vale a dire libertà da vincoli e imprigionamento, sarebbe veramente assurdo che gli uomini facessero il clamore che fanno, per rivendicare una libertà che manifestamente già godono. Se poi prendiamo il termine libertà nel senso di una esenzione dalle leggi, non risulta meno assurdo che gli uomini domandino, come fanno, quella libertà, in grazia della quale tutti gli altri potrebbero disporre della loro vita. Eppure, per quanto assurdo sia, questo essi domandano; senza rendersi conto che le leggi non hanno il potere di proteggerli, se non c’è una spada nelle mani di uno o di molti uomini, che faccia sì che quelle leggi vengano eseguite. La libertà dei sudditi risiede quindi solo in quelle cose che il sovrano, nel regolamentare le loro azioni, ha trascurato:come la libertà di comprare, di vendere, e comunque di contrattare gli uni con gli altri; di scegliere il proprio domicilio, il proprio tipo di alimentazione, il proprio modo di vivere, e di istruire i propri figli come ritengano conveniente e simili. (…)

La libertà di cui si trova così frequente e onorevole menzione nelle opere storiche e nella filosofia dei Greci e dei Romani, e negli scritti e discorsi di coloro che da quelli hanno tratto tutto il loro sapere in politica, non è la libertà dei singoli, ma la libertà dello stato, che è poi la stessa che avrebbe ogni singolo uomo, se non esistessero leggi civili, né stati. E anche gli effetti sono i medesimi. Come infatti tra gli uomini senza padrone sussiste una guerra perpetua, di ciascuno contro il suo vicino, e non vi è eredità da trasmettere al figlio e da aspettare dal padre, né proprietà di beni e terreni, né sicurezza, ma una integrale e assoluta libertà in ogni singolo individuo: così anche nel caso degli Stati e delle repubbliche indipendenti, ogni stato (non ogni uomo) ha l’assoluta libertà di fare quel che giudicherà (vale a dire, quel che l’uomo o l’assemblea che rappresenta questo stato giudicherà) più vantaggioso per i suoi interessi (…)».

Ebbene la vicenda dell’emergenza sanitaria (o piuttosto pseudo-sanitaria) che è piombata sul mondo e particolarmente sul nostro Paese, da due anni e mezzo a questa parte, illustra nella maniera più chiara che le idee di Hobbes si sono imposte e hanno vinto, sbaragliando ogni concorrente. Oggi è Hobbes, non Marx, né Rousseau, né Locke, il grande maître à penser della nostra società; sono le sue teorie e le sue convinzioni ad essersi imposte su tutte le altre; la nostra Bibbia non è più Il capitale, né il Contratto sociale, e nemmeno il Trattato teologico-politico di Spinoza, ma il Leviatano di Thoms Hobbes. Secondo il quale non esistono, propriamente parlando, diritti dei sudditi, tranne che là dove lo Stato — che è la materializzazione dell’insieme degli uomini — si astiene dal legiferare; anche perché il diritto fondamentale, in ragione del quale lo Stato è nato da un patto sociale irreversibile, è il diritto alla vita, ed esso è il diritto per difendere il quale si possono limitare o revocare tutti gli altri. Per Hobbes il timore di essere uccisi è talmente forte negli uomini da indurli a sottomettersi spontaneamente a qualsiasi potere, purché sia abbastanza forte da sapersi imporre a ciascuno: la paura della morte è infatti, per lui, il fattore più potente della psicologia umana.

Ora, si prenda questa idea di Hobbes e la si applichi alle azioni, ai decreti e ai provvedimenti di emergenza presi dai governi in questi ultimi due anni e mezzo, e si scoprirà che essi sono stati una clamorosa conferma dell’assunto fondamentale del pensiero politico di Hobbes. Aggiungendo però due cose, che senza dubbio il filosofo inglese non aveva considerato e che non rientravano nella sua concezione: primo, che chi detiene un potere di tipo monopolistico, quindi anche il potere della informazione, può creare la paura a tavolino, scegliere il tempo e il modo per scatenare una ondata di terrore senza precedenti e, volendo, pressoché permanente, facendo leva sulle paure più oscure ed ataviche dell’uomo, a cominciare da quella della morte; secondo, che non c’è alcun bisogno che la campagna di diffusione della paura poggi su un dato reale, o un insieme di dati reali: basta semplicemente ripetere: al lupo!, al lupo! migliaia di volte, e l’effetto sarà perfettamente reale, anche se il dato fondamentale non lo è. Il che è esattamente quanto è accaduto con la pretesa emergenza sanitaria del marzo 2020. Per convincersene, basta confrontare le misure adottate dai governi con i dati reali dei decessi (peraltro artificialmente gonfiati oltre ogni limite di credibilità e decenza) e la percentuale di mortalità effettiva causata dal virus sull’insieme della popolazione, da una parte, e il modo in cui le pubbliche autorità e i mezzi d’informazione hanno trattato, nel corso del XX secolo, altre epidemie influenzali, oggettivamente più letali di questa, senza drammatizzarle e anzi sforzandosi di tranquillizzare e rasserenare l’opinione pubblica, e soprattutto senza sognarsi di voler imporre misure di contenimento estreme (e del tutto antiscientifiche) né, quel che più conta, una pseudo vaccinazione di massa destinata a provocare danni per la salute assai più gravi, statisticamente, di quelli che a parole si volevano scongiurare. Il che è la prova provata della malafede con cui è stata condotta tale politica e delle finalità malvagie, non certo dichiarate, ad essa sottostanti.

La cosa è stata tanto più facile in quanto la nostra cultura, ormai da parecchi decenni, soprattutto per effetto del consumismo e delle sue sirene, aveva smesso di considerare la morte come un evento ineliminabile dal quadro esistenziale, o meglio, come il solo evento esistenziale assolutamente certo e inevitabile. Da quando la società ha smesso di pensare alla morte e da quando sono state fatte sparire le immagini della morte, ad esempio ospedalizzando i malati terminali e con ciò sottraendo alle famiglie lo spettacolo concreto della morte delle persone care, e d’altra parte bombardando il pubblico con immagini stereotipate e incessanti di salute e di giovinezza perenni (al punto che, nella pubblicità odierna, anche i vecchi appaiono sanissimi e sessualmente tuttora desiderabili), si sono create le condizioni perché, in presenza di un pericolo sanitario molto grave, o — il che è lo stesso — presentato e creduto tale — scattasse nella gente un terrore cieco e irrazionale di quella cosa ormai sconosciuta che è la morte, magari preceduta da sofferenze indescrivibili, come l’impossibilità di respirare e la conseguente asfissia. Un altro fattore decisivo si è rivelato, contro la nobile tradizione che risale a Cicerone, san Tommaso d’Aquino, Grozio e Radbruch, la progressiva erosione e infine la scomparsa dell’idea del diritto naturale, interamente assorbita dalla teoria e dalla pratica del diritto positivo. In altre parole, le persone sono state indotte a non interrogare più la propria coscienza, a non pretendere più che le leggi umane accompagnino e assecondino la legge naturale, ma a considerarle come la sola base del diritto e pertanto che vadano osservate e obbedite, qualsiasi cosa impongano o proibiscano.

Sì: il mondo attuale è la malvagia realizzazione integrale delle malvagie idee di Thomas Hobbes. E il sospetto reciproco che è stato instillato fra gli uomini, anche fra amici e parenti, anzi soprattutto fra essi, è la realizzazione integrale della filosofia secondo la quale homo (est) homini lupus. Inutile dire che tutto ciò non ha nulla di cristiano: al contrario, è la piena realizzazione dei piani di Satana…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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