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L’uomo può vivere senza Dio?

L’uomo può fare a meno di Dio? Può vivere senza di Lui, senza curarsi di Lui, e nemmeno porsi il problema? O, peggio, può vivere addirittura contro di Lui?

La prima domanda da farsi, per rispondere a queste domande, è se l’ateismo sia un fatto originario oppure riflesso. Se è originario, allora fa parte della normale dialettica esistenziale, ed è naturale regolarsi secondo il proprio punto di vista, come meglio si crede; se è riflesso, bisogna chiedersi come, quando e perché sia venuto in luce.

A noi sembra chiaro che l’ateismo, come tutte le negazioni radicali, non é, né potrebbe essere un dato originario della coscienza. Oltre al fatto storico che gli antropologi hanno bensì cercato, ma non hanno trovato, un solo popolo ateo, neppure fra i cosiddetti popoli primitivi, c’è il fatto logico che non si può negare ciò che non esiste: sarebbe assurdo e contraddittorio. Si nega qualcosa che c’è, qualcosa che esiste, non qualcosa che non esiste: non qualcosa della cui inesistenza si è intimamente persuasi. In altre parole, l’ateo nega l’assenso a qualcosa che esiste, ma che egli preferirebbe non esistesse: questo è il vero significato della negazione. Nessuno, che sia sano di mente, si sognerebbe di negare l’esistenza dell’America, o quella della Luna, o quella del mercoledì, o quella dell’inverno; nessuno si darebbe la pena di negare i triangoli, o i numeri dispari, o le rette. Se si nega l’America, si deve per forza negare l’esistenza dell’Oceano Atlantico: bisogna ammettere che le coste dell’Europa sono bagnate direttamente dall’Oceano Pacifico; e basta prendere in mano un globo terracqueo per verificare che le cose stanno altrimenti. Se si nega la Luna, oltre a non poter spiegare cosa sia quel corpo celeste che sorge la sera e tramonta al mattino, e che, quando è al culmine delle sue fasi, illumina debolmente, la notte, la superficie terrestre, bisogna anche negare le maree, o riconoscere che non sappiamo perché esse avvengano: mentre ciò è stato spiegato oltre ogni ragionevole dubbio proprio con l’attrazione esercitata sul nostro pianeta dal suo satellite. Se si nega il mercoledì, bisogna negare la settimana di sette giorni: il che è impossibile. Se si nega l’inverno, si devono negare le quattro stagioni, il che è smentito dalla esperienza immediata, senza bisogno di alcuna dimostrazione. Se si negano i triangoli, bisogna per forza negare che esistano delle figure geometriche con tre lati, il che è illogico: tanto varrebbe negare qualsiasi figura poligonale. Se si negano i numeri dispari, si dovrebbero negare anche quelli pari, cioè si dovrebbe negare il numero in quanto tale: assurdo, illogico e impossibile. Infine se si negano le rette, bisognerebbe negare anche le semirette e i segmenti: il che va a cozzare con la logica oltre che contro l’immagine quotidiana del mondo, che è fatta di semirette, come un lungo viale osservato in prospettiva, o di segmenti, come il contorno dei mobili di questa stanza, o quello delle penne e delle matite che si trovano nel portapenne.

Ma, si dirà, l’esistenza di Dio non è evidente come quella dei viali o delle matite; e non è neppure logica e naturale come quella dei numeri e delle figure. E perché no? Forse perché non si vede? Neanche i numeri si vedono; e neppure i giorni della settimana. Dio è, oltre tutto, un ente logico e non un ente naturale o storico: non lo può "vedere" o dimostrare lo scienziato, né lo studioso di fatti storici. Ma lo può "vedere" e dimostrare il filosofo, in particolare il metafisico: Dio è l’essere, e l’essere è la causa prima, la causa efficiente e la causa finale, incausata, di tutto ciò che esiste. Questo ci dice la sana ragione naturale, laddove essa non sia viziata da sofismi, filosofemi e fumisterie preconcette: cioè laddove non si rifiuti di fare il suo "mestiere", per odio irrazionale contro Dio, ma funzioni in base ai normali principi della logica. Quelli che adoperiamo cento volte al giorno nella nostra vita quotidiana, ad esempio quando vediamo una casa e sappiamo che è stata costruita da qualcuno in base ad un progetto; oppure vediamo un albero e sappiamo che è nato da un seme, secondo certe modalità di sviluppo e di crescita, le quali hanno richiesto, a loro volta, certe condizioni di terreno, di clima, e così via.

La nozione di Dio, più o meno chiara, più o meno pura, è presente nella mente umana e appartiene alla storia di tutti i popoli e tutte le culture; la nozione opposta, cioè la negazione dell’esistenza di Dio, è, viceversa, un fatto episodico e relativamente tardo. Di più: essa è una particolarità della civiltà occidentale moderna: come fenomeno sociale, è pressoché irrilevante fino a tutto il secolo XVI. Solo a partire dal secolo XVII compaiono alcuni gruppi di atei e si diffondono dei centri culturali, in particolare a Parigi, dai quali si diffonde l’ateismo; prima di allora, i pochi negatori di Dio costituivano una rarissima eccezione alla regola, una minoranza pressoché insignificante, che suscitava scandalo e incredulità. Potremmo anche dire che l’ateismo è una malattia del mondo moderno, presente solo ed esclusivamente nelle società occidentali o in quelle occidentalizzate (ad esempio, presso le comunità d’immigrati); nell’ambito culturale islamico, o induista, o ebraico (tranne che in certi ambienti cosmopoliti, tipici delle grandi città) l’ateismo, come fatto sociale, è praticamente sconosciuto.

Ci è parso utile e opportuno riprendere alcune riflessioni di un pensatore che di tale problema, l’eclisse di Dio nella civiltà moderna, ha fatto praticamente la sua ragione di vita, di studio e di sacerdozio: il padre stimmatino Cornelio Fabro (Flumignano di Talmassons, Udine, 1911- Roma, 1995) nel suo saggio L’uomo e il problema di Dio (contenuto nell’antologia curata da Giuseppe Ricciotti, Dio nella ricerca umana, Roma, Coletti Editore, 1954, pp. 19-21):

Il bambino richiama sotto molti aspetti l’uomo primitivo: quel ch’è il bambino nell’evoluzione individuale, sembra sia il primitivo nell’evoluzione dell’umanità; ne costituisce cioè il primo stadio dai contenuti più incerti e rudimentali. L’analogia potrebbe anche difendersi, non però nel senso dei positivisti e della Scuola sociologica che l’ha inventata, ma secondo il rovescio o il capovolgimento che tale tesi ha subito in questi ultimi decenni. Come ormai si ammette che i (veri) primitivi sono in possesso — non meno dei popoli civili — di un concetto assai puro di Dio e osservano i precetti fondamentali della morale naturale, si deve altrettanto dire del bambino rispetto all’adulto: il suo concetto di Dio confrontato coi concetti che il bambino ha delle altre cose, è senza dubbio più completo e consistente, benché tale concetto dal punto di vista scientifico sembri e sia realmente più complesso ed abbia sempre i suoi lati tremendamente oscuri.

Questo benefico paradosso, che scandalizza la filosofia e mette a duro cimento la teologia, si continua anche nell’"uomo comune", nell’adulto il quale, cresciuto in un ambiente moralmente sano, attende ai doveri urgenti della vita e non inciampa, salvo eccezioni, nei dubbi teologici. Questo non significa affatto che la teologia dell’adulto resti allo stato infantile, ma dice soltanto che i problemi, arricchiti di tutta l’esperienza degli anni, conservano la trasparenza che avevano nella prima età. Le vicende liete e dolorose della vita non si sono contese la vittoria di una soluzione unilaterale, ma le une e le altre hanno confluito per una misteriosa coincidenza, a radicare le buone convinzioni dell’infanzia. Le anime in crisi, le profonde scosse di coscienza che possono venire nella prima giovinezza o nella prima maturità sono eccezioni e possono avere le cause più disparate, dalle disfunzioni del sistema neuro-endocrino, alle perversioni demoniache (le "crisi" di perversione); come anche possono indicare le vocazioni spirituali superiori (le "crisi" di conversione) e portare agli slanci mistici.

Già gli antichi avevano osservato che "popoli atei" non esistono, asserto confermato dalla moderna storia delle religioni. L’ateismo è un fenomeno individuale, di natura sporadica e posteriore all’atteggiamento religioso, un atteggiamento involutivo e non originario come pretendeva il liberalismo ottocentesco. Egregiamente dichiara G. van der Leuuw: «Non esistono popoli senza religione. All’inizio della storia non esiste alcuna forma di ateismo; la religione c’è sempre e dappertutto» ("Fenomenologia della religione", Tubinga, 1933, p. 570). Perché, come dice il medesimo Autore, l’ateismo rappresenta nello sviluppo della coscienza umana il momento negativo, cioè «la religione della fuga» davanti a Dio, che suppone perciò il momento positivo cioè la religione come culto della Divinità padrona dell’uomo e del suo destino.

Però l’ateismo, la possibilità cioè che ha l’uomo di passare al la negazione dell’assoluto e del sacro come trascendente, mostra a suo modo il paradosso del momento teologico nell’umana esistenza, rivela cioè la sua quasi-immediatezza nel farsi presente alla stessa coscienza infantile, ed il "mistero" che lo circonda e che cresce in proporzione dello sviluppo della coscienza. Nell’uomo comune l’immediatezza e la imprescindibilità del momento teologico e l’abisso di mistero del suo oggetto convivono senza urti e contrasti notevoli: la sua coscienza non ha perduto la tranquillità dell’infanzia ma con la più vasta conoscenza della realtà essa ha raggiunto un equilibrio spirituale robusto e capace di autoregolazione rispetto alle crisi che possono venire sia dal mondo interiore come da quello esteriore.

La filosofia, diceva padre Cornelio Fabro, deve essere misericordiosa e compassionevole, perché ha a che fare con la fragilità umana. Perciò una filosofia atea, togliendo all’uomo le basi fondamentali della vita, privandolo di ogni punto di riferimento superiore, negandogli il conforto della certezza dell’amore divino e il rasserenamento nei dolori dell’esistenza e di fronte al mistero della morte, è una filosofia spietata, malvagia, disumana, oltre che illogica e irrazionale. La nemesi dell’uomo moderno è aver scelto di usare il dono della ragione naturale per rivolgerlo contro il suo Creatore, per negare il rapporto creaturale, e prostituirla facendole escogitare mille falsi ragionamenti pur di escludere Dio dal proprio orizzonte esistenziale. La ragione infatti presuppone il retto uso della libertà: ma la libertà non può essere usata in maniera retta se la ragione smette di funzionare come dovrebbe e si trasforma in uno strumento di auto-accecamento e di auto perdizione. Come scrive con parole di fuoco san Paolo nella Epistola ai Romani (1,18-32), evidenziando lo stretto legame che esiste tra la follia e la superbia di non voler riconoscere il vero Dio, da un lato, e la depravazione morale, specie nell’ordine sessuale, dall’altro: perché quando la ragione si corrompe, l’uomo cade in balia di passioni degradanti:

18 In realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, 19 poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. 20 Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità; 21 essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. 22 Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti 23 e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili.

24 Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, sì da disonorare fra di loro i propri corpi, 25 poiché essi hanno cambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno venerato e adorato la creatura al posto del creatore, che è benedetto nei secoli. Amen.

26 Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. 27 Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini, ricevendo così in se stessi la punizione che s’addiceva al loro traviamento. 28 E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balìa d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, 29 colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, di omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, 30 maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, 31 insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia32 E pur conoscendo il giudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa.

Che cosa resta da fare all’uomo moderno, dunque, se non ritornare a Dio, gettarsi in ginocchio e dirgli: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di Te! Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, ma trattami come uno dei tuoi servi. Allora, forse, rientrato in se stesso, sarà ancora in tempo non a salvare il mondo, ché forse è ormai troppo tardi, ma la cosa più preziosa di tutte: la sua anima.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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