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Riflessioni sul nostro destino, rileggendo O. Spengler

Le civiltà sono simili agli organismi viventi: nascono, crescono, raggiungono l’apogeo e infine declinano e muoiono? Ne era convinto Oswald Spengler (Blankenburg am Harz, 29 maggio 1880- Monaco di Baviera, 8 maggio 1936), secondo il quale la civiltà occidentale stava vivendo appunto — il suo capolavoro, Il tramonto dell’Occidente, apparve fra il 1918 e il 1923 — nella fase del declino, che lui chiamava Zivilisation, civilizzazione, una fase alla quale non esiste rimedio, come non esiste rimedio alla vecchiaia e alla progressiva decadenza di un essere vivente. È proprio vero che una civiltà è simile, in tutto e per tutto, a un organismo biologico? Che nasce, si sviluppa e muore come avviene alle piante e agli animali?

Partiamo dal principio, vale a dire dalla chiarezza sui concetti che adoperiamo. Che cos’è una civiltà? Per Spengler, essa è la manifestazione limitata e peritura di una potenzialità illimitata e permanente: l’umanità "primitiva" (egli dice: fanciulla) produce, di tratto in tratto, delle "grandi anime" che si innalzano al di sopra della condizione ordinaria dell’esistenza e imprimono all’intero corpo sociale la svolta da esse intrapresa: una civiltà nasce nel momento in cui una grande anima si distacca dallo stato originario dell’umanità eternamente fanciulla, in cui una forma emerge dall’informe, in cui qualcosa di limitato e di perituro scaturisce dall’illimitato e dal permanente. Pertanto si può definire la civiltà come l’esplicazione della somma delle possibilità creative presenti in essa: infatti egli afferma che una civiltà perisce quando quest’anima ha realizzato l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze.

Ciò è sufficiente per affermare che le civiltà sono l’equivalente di un organismo biologico, caratterizzato dalla nascita, dallo sviluppo, dalla decadenza e dalla morte? E a fissare un tempo prestabilito ad ogni fase della civiltà — infanzia, giovinezza, vecchiaia — asserendo che tutto ciò si ripete continuamente nella storia, con l’insistenza di un simbolo? A nostro parere, no: Spengler è uno di quei filosofi moderni che procedono per affermazioni, come Hegel: essi pongono i loro assunti, ma non si danno la pena di dimostrarli. Oppure, peggio ancora, fanno come Heidegger: ripetono il medesimo concetto, con parole diverse, per tre o quattro volte: poi adoprano un pertanto, o un dunque, e passano all’anello successivo del loro ragionamento, come se avessero esaurito la dimostrazione: senza aver dimostrato un bel nulla. Spengler sostiene che le civiltà sono equiparabili a degli organismi viventi, anzi, che sono degli organismi viventi: e su tale affermazione costruisce un discorso di circa duemila pagine. Ma tutto quel che si può dire è che le civiltà, come le idee, camminano sulle gambe degli uomini: che sono gli uomini a farle, non individualmente, ma collettivamente. Non si può dire, però, che la somma delle idee, del lavoro, delle realizzazioni materiali e spirituali di quegli uomini riproduca esattamente un corpo vivente: come non si può dire che l’uomo è solo un corpo, perché nell’essenza uomo c’è molto di più del suo corpo e delle sue funzioni biologiche.

La definizione di Spengler di che cosa sia civiltà presume un concetto puramente materialista dell’uomo e rigidamente determinista di ciò che l’uomo può fare. La cosa diviene esplicita allorché egli introduce il concetto di destino. Per lui, il destino di tutte le civiltà è quello di passare, a un certo punto, nella fase della civilizzazione, ossia della decadenza, che precede l’esaurimento finale; e la saggezza degli uomini che vivono in una tale fase storica consiste nell’accettare quel destino.

Come egli scrive ne Il tramonto dell’Occidente (titolo originale: Der Untergang des Abendlandes, Introd., 12, vol. I, p. 41; vol. I, II, i, 7 e 8, pp. 142-43, 147: vol. I, V, ii, 13, p. 446; Introd., 15, vol. I, p. 59; in: Lo storicismo contemporaneo, a cura di Pietro Rossi, Torino, Loescher Editore, 1968, 1981, pp. 160-162):

Il tramonto dell’Occidente, considerato in questa prospettiva, non designa nulla di meno che il PROBLEMA DELLE CIVILTÀ IN DECLINO. Si presenta qui una delle questioni fondamentali di ogni storia superiore: che cos’è la civiltà in declino, intesa come conseguenza logico-organica, come compimento e conclusione di una civiltà?

Ogni civiltà ha infatti la PROPRIA civiltà in declino. Per la prima volta i due termini ["Kultur" e "Zivilisation"] — che finora hanno servito a designare una differenza indeterminata di carattere etico — vengono concepiti in senso temporale, come espressione di una SUCCESSIONE ORGANICA rigorosa e necessaria. Le civiltà in declino è l’inevitabile DESTINO di una civiltà. Qui raggiungiamo il vertice dal quale possono essere risolte le questioni ultime, e più difficili, della morfologia storica. Le civiltà in declino sono gli STATI ESTREMI E PIÙ ARTIFICIALI, accessibili a una specie superiore di uomini. Esse rappresentano una conclusione; sono il divenuto che fa seguito al divenire, la morte che fa seguito alla vita, l’irrigidimento che fa seguito allo sviluppo… Esse costituiscono una FINE irrevocabile, ma sono sempre di nuovo riprodotte in virtù di un’intrinseca necessità. (…)

Una civiltà nasce nel momento in cui una grande anima si distacca dallo stato originario dell’umanità eternamente fanciulla, in cui una forma emerge dall’informe, in cui qualcosa di limitato e di perituro scaturisce dall’illimitato e dal permanente. Essa fiorisce sulla base di un territorio ben delimitato, al quale rimane vincolata come una pianta. Una civiltà perisce quando quest’anima ha realizzato l’intera somma delle sue possibilità sotto forma di popoli, di lingue, di dottrine religiose, di arti, di stati e di scienze, e quindi ritorna nel grembo della spiritualità originaria… Quando il fine è raggiunto e la pienezza delle possibilità interiori è giunta a realizzarsi compiutamente verso l’esterno, la civiltà SI IRRIGIDISCE improvvisamente, si avvia verso la morte, il suo sangue si coagula, le sue forze vengono meno — ed essa diventa una CIVILTÀ IN DECLINO…

Ogni civiltà percorre le fasi di sviluppo dell’uomo singolo. Ognuna ha la sua infanzia, la sua giovinezza, la sua maturità e la sua vecchiaia…

OGNI CIVILTÀ, OGNI SUA FASE INIZIALE, OGNI CRESCITA E OGNI DECLINO, OGNUNA DELLE SUE FASI E DEI SUOI PERIODI INTERNAMENTE NECESSARI POSSIEDE UNA DURATA DETERMINATA, SEMPRE EGUALE, SEMPRE RICORRENTE CON L’INSISTENZA DI UN SIMBOLO.

Allorché Nietzsche parlò per la prima volta di "rovesciamento di tutti i valori", il movimento spirituale di questo secolo — in mezzo al quale viviamo — ha trovato finalmente la sua formula. Il rovesciamento di tutti i valori è il carattere intimo di OGNI civiltà in declino. Essa comincia trasformando tutte le formule della civiltà che l’ha preceduta, intendendole e trattandole in maniera differente. Essa non produce più, si limita a interpretare. In ciò consiste l’aspetto negativo di ogni età di questa specie. Esse presuppongono l’atto propriamente creativo; non fanno altro che raccogliere un’eredità di grandiose realtà. (…)

Un secolo di attività puramente estensiva, con esclusione di qualsiasi produzione artistica e metafisica di carattere superiore… è un’epoca di declino. Certamente; però noi non abbiamo SCELTO questa epoca. Non possiamo mutare il fatto che siamo nati uomini al momento dell’inverno incipiente di una civiltà in declino, e non uomini all’apice di una civiltà matura dell’epoca di Fidia o di Mozart. Tutto dipende dal fatto che ci si renda conto di questa situazione, di questo DESTINO, e che si comprenda che si può sì mentire a se stessi a questo proposito, ma non già sottrarsi a tale destino.

Come si vede, per l’individuo vivere in un’età di declino della civiltà implica il concetto di destino in due sensi: sia nel senso di accettarlo, con tutte le conseguenze che ne derivano; sia nel senso che allora, e solo allora, gli uomini "superiori" (concetto nietzschiano riadattato alla filosofia della storia di Spengler) possono "avere accesso" a quella particolare temperie culturale, sviluppando la capacità di interloquire creativamente con essa, tanto sul piano intellettuale, quanto su quello politico: le civiltà in declino, egli dice, sono gli stati estremi e più artificiali, accessibili a una specie superiore di uomini.

In realtà, quando si parla di Spengler e del Tramonto dell’Occidente non lo si fa per discettare in maniera asettica sul destino delle civiltà, ma perché ci si chiede se anche la nostra civiltà stia subendo il medesimo irreversibile destino di tutte le altre: morire; e se non sia già entrata da tempo nella fase del declino che prelude alla fine.

Qui però s’impone, ancora una volta, la necessità di adoperare i termini giusti per definire i concetti, in modo da evitare possibili fraintendimenti. Quando usiamo un’espressione come la nostra civiltà, che cosa intendiamo esattamente? Qual è la nostra civiltà? Spengler, come quasi tutti, risponde: la civiltà occidentale. Ma esiste una simile civiltà? Rispondere affermativamente significa affermare che non vi è alcuna sostanziale soluzione di continuità fra la civiltà greca e quella romana, fra quella greco-romana e la cristiana medievale, nonché fra quest’ultima e la cultura ebraica; infine che la civiltà europea moderna, figlia delle tre rivoluzioni — quella scientifica, quella politica e quella industriale — è, ancora e sempre, non tanto l’erede diretta, quanto la continuazione immutata dell’unica civiltà greco-romana-ebraica-medievale. È credibile, è verosimile? Sul piano strettamente storico ci sembra una vera e propria pazzia: una di quelle pazzie che assumono l’apparenza della plausibilità solo perché tutti le ripetono e nessuno si prende la briga di smascherarle, rischiando di passare lui per pazzo.

A noi sembra chiaro che è già una forzatura parlare di una civiltà greco-romana; e lo è ancor di più immaginare che la componente cultuale e religiosa ebraica, lontanissima da entrambe, nondimeno si possa assimilare ad esse. Ma è palese che il sorgere della cristianità medievale, anzi della cristianità tardo-antica (qui c’è un problema di periodizzazione storiografica: quando inizia il tardo-antico? ed è una semplice appendice del mondo antico o contiene già elementi del tutto estranei ad esso?; noi propendiamo per la seconda), segna un distacco, una rottura, una netta soluzione di continuità a tutti i livelli: politico, economico, artistico, e perfino linguistico e razziale, con l’avvento di nuovi popoli e la fine del latino come lingua parlata universale. Sostenere, poi, che la civiltà moderna sia ancora la stessa cosa sia della civiltà cristiana medievale (mentre ne è, semmai, la radicale, programmatica negazione), sia della greco-romana, più la componente ebraica, è una tesi artificiosa, illogica, che fa acqua da tutte le parti e che viene portata avanti per ragioni meramente ideologiche. Inoltre voler denominare una tale civiltà, che oltretutto civiltà non è, perché le manca qualunque base spirituale e perché si caratterizza come radicale rifiuto e negazione della civiltà precedente (cosa che non si addice a una civiltà allo stato nascente e che mai si è vista nel corso della storia universale), volerla dunque qualificare come occidentale non ha senso, tranne quello di voler conferirle un elemento unificatore altrimenti irreperibile perché inesistente.

La civiltà greca non fu affatto occidentale, perché aveva il suo fulcro nel Mediterraneo orientale e traeva alimento e ispirazione, specie a partire dall’ellenismo, assai più dalle culture orientali — l’egiziana, la siriaca, la persiana e perfino l’indiana, ma non l’ebraica, che essa percepiva come un corpo estraneo — che non dall’Occidente, se con tale vocabolo s’intende la parte occidentale, Roma, Cartagine ed Etruria comprese. Le cose non cambiano di molto se si considera la supposta civiltà greco-romana, che fa perno anch’essa sulla metà orientale del Mediterraneo e che si estende, sì, alla Penisola Iberica, alla Gallia, alla Britannia e — molto limitatamente — alla Germania, ma quasi solo per esportarvi il proprio modello, la propria lingua — il latino e in parte il greco — ricevendone solo un apporto minimo. E non è stata per nulla occidentale la civiltà cristiana dei secoli di mezzo, che aveva il suo baricentro politico ed economico nella valle del Reno e nelle regioni circonvicine — l’antica Lotaringia – e quello culturale e spirituale fra il Nord Italia e la Roma papale (mentre l’Italia del Sud, bizantina, araba e normanna, era già un elemento a sé stante), e che dunque si potrebbe chiamare, per la prima volta, europea, perché, se anche le regioni centro-orientali e quelle più settentrionali vennero a farne parte solo gradualmente e faticosamente (si pensi al martirio di san Bonifacio a opera dei Frisoni), in un ampio lasso di tempo, aveva il fulcro nel cuore del continente, e dal lato simbolico-ideale, che rivestiva somma importanza, guardava ancora e sempre a Roma caput mundi, sia pure in un senso diverso da quello della Roma antica, o meglio reinterpretandolo secondo nuove categorie, proprie del Medioevo.

Ma la sedicente civiltà moderna, che nasce e si sviluppa a partire dal tardo Medioevo, poi con l’Umanesimo e il Rinascimento (Lutero compreso), per giungere alla piena affermazione con l’Illuminismo e infine la Rivoluzione industriale, ammesso che si possa definire occidentale perché crea una vasta appendice realmente occidentale, il Nuovo Mondo al di là dell’Atlantico (e il Nuovissimo al di là dell’Indiano) conquistato e colonizzato dalle potenze dell’Europa atlantica (mentre la Russia, per secoli dominata dall’Orda d’Oro, è ancora marginale rispetto all’Europa, e i Balcani giacciono sotto gli ottomani, che tentano d’imporvi il proprio modello culturale), qual legame di continuità presenta con la Grecia, con Roma, e col mondo cristiano dell’età di mezzo? Qual legame se non quello d’un drastico rifiuto e una lotta senza quartiere (vedi la scristianizzazione, esplicita nelle rivoluzioni moderne: francese, russa, messicana, spagnola, e implicita sempre) e una sistematica negazione sul piano della filosofia, della scienza, dell’arte e dello stesso sentimento religioso, prima col protestantesimo, poi con la secolarizzazione e infine col modernismo, eutanasia del cattolicesimo?

Ora, per concludere, la domanda è: la supposta civiltà occidentale, che altro non è se non la pseudo civiltà europea moderna, o meglio l’anti civiltà europea, del tutto staccata e contrapposta alla civiltà che l’ha partorita, ossia la civiltà cristiana medievale, è giunta alla fine? Molti, troppi indizi dicono di sì. Non si può dire, sul terreno puramente filosofico, che questa sia una legge, e tanto meno un destino: si può solo constatare che tutte le civiltà umane sono tramontate. Ma quella attuale, ripetiamo, non è una civiltà: è il contrario di ciò che una vera civiltà deve essere. Non è nata da una sovrabbondanza di forze creatrici, ma dalla sterilità di un rancore patologico verso la civiltà dei padri, ossia la civiltà cristiana. In questo senso, invece di chiedersi se stia tramontando e quanto possa durare il suo tramonto, sarebbe più giusto dire che non è mai stata realmente viva: è nata morta, e i suoi prodotti recano il marchio della morte. Non vi si trova l’impronta del genio, o se ciò accade, si tratta d’un genio misconosciuto e incompreso: Bach, Kierkegaard, Van Gogh, sono altrettanti esempi di geni che la modernità non ha compreso, che ha rifiutato, che ha onorato troppo tardi e senza vera convinzione, semmai con atteggiamento archeologico e quindi necrofilo. Ed è giusto che sia così: la modernità è fatta su misura per i grandi distruttori, non per i creatori; per gli apologeti del disordine e del nulla, o meglio ancora per i sadici, i masochisti, gli anormali, non per quelli che Kierkegaard chiamava i cavalieri dell’ideale. Ogni civiltà ha i "grandi" uomini che si merita. E se i grandi uomini della modernità sono Cartesio, Kant, Hegel e Heidegger, o magari Bertrand Russell, e gli espressionisti tedeschi, e Marx, Freud, eccetera, fino a Eugenio Scalfari (che ieri ci ha lasciati, sia pace alla sua anima), e invano vi si cercherebbe l’equivalente, non diciamo di Dante, Giotto e san Tommaso d’Aquino, ma almeno qualcosa di meglio di Andrea Zanzotto, Andy Warhol e Umberto Eco, qualche cosa vorrà pur dire. L’albero si conosce dai frutti: e i frutti della modernità sono questi, o — se possibile – anche peggiori. Ciascuno ne tragga onestamente le proprie conclusioni.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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