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30 Giugno 2022Quale giudizio è stato formulato dalla cultura dominane dal 1945 in poi sul rapporto tra fascismo e cultura? Essa ammette che il fascismo espresse una propria tendenza culturale, anzi tutta una serie di tendenze cultuali molto diversificate e perfino contrapposte (modernismo contro ruralismo, rivoluzionarismo contro conservatorismo, ecc.) e, se sì, quale peso le assegna nel complesso della vita nazionale, quali radici sociali ne individua, e quali prospettive delinea per essa, anche dopo la caduta del fascismo stesso? Oppure nega puramente e semplicemente che il fascismo abbia espresso una sua cultura, e sostiene che esso si limitò a sfruttare, reprimere o strumentalizzare la cultura italiana fra le due guerre mondiali, cercando in essa, opportunisticamente, un valido appoggio e una mediazione nei confronti delle masse? In altre parole, condivide il giudizio di Croce e del liberalismo secondo il quale il fascismo — e perciò, di riflesso, la cultura fascista, se mai vi fu qualcosa del genere – fu simile all’invasione degli Hyksos, una malattia, un corpo estraneo nella vicenda storica italiana, oppure l’interpretazione marxiana, secondo la quale esso fu soltanto il bastone di cui si servirono gli agrari e gli industriali del Nord per reprimere il socialismo e scongiurare la rivoluzione bolscevica mediante — come la chiamava l’anarchico Luigi Fabbri – una controrivoluzione preventiva?
Di fatto, la cultura dominante in Italia da oltre settant’anni, la cultura dei vincitori, democraticista e antifascista, oscilla fra queste tendenze, ma non si spinge oltre. Quasi nessuno storico o critico letterario di formazione accademica arriva a formulare in maniera esplicita il giudizio opposto, ossia che non solo c’è stata una cultura specificamente fascista, ma che essa ha investito tutti gli ambiti possibili e che in alcuni di essi (Piacentini nell’architettura, Sironi nella pittura, Marinetti nella poesia, per esempio) raggiunse risultati validissimi e perfino di eccellenza, tanto che dopo di essa i suoi risultati sono stati bensì ripresi e approfonditi, ma non sostanzialmente superati, e ciò vale anche per il giornalismo e per il tanto decantato neorealismo cinematografico, che effettivamente mosse i primi passi all’ombra del Fascio littorio. E che dire di Giovanni Gentile nell’ambito della filosofia e in quello, non meno importante, della politica scolastica? O del suo ruolo nella concezione e nella realizzazione di un’opera prestigiosa e per ceti aspetti insuperata, come l’Enciclopedia Italia: un’opera così vasta, così ben fatta, così chiara e precisa, così esaustiva in taluni ambito disciplinari, impegnata e comunque valida in tutti, della quale nessun’altra nazione europea, e neppure gli Stati Uniti, hanno conosciuto l’eguale? Oppure che dire degli studi antropologici di Renato Biasutti, di quelli geografici di Giotto Dainelli, di quelli orientalistica di Giuseppe Tucci, dell’archeologo Roberto Paribeni, del filologo Goffredo Coppola e di un poeta come Giuseppe Ungaretti?
Vediamo cosa ne pensano gli autori di un noto testo di storia della letteratura per i licei, La scrittura e l’interpretazione (G. B. Palumbo Editore, 2007, tomo III, pp. 18, 57-58):
È ESISTITA UNA CULTURA FASCISTA? IL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI
Secondo la tradizione dell’idealismo, da Benedetto Croce a Norberto Bobbio, non è esistita una cultura fascista. Il fascismo sarebbe eminentemente una manifestazione di ignoranza, grossolanità, volgarità, e non sarebbe riuscito mai a darsi un’ideologia organica e coerente, limitandosi a unire ecletticamente istanze idealistiche (quelle del filosofo Gentile), teorie di derivazione nazionalistica e imperialistica filtrate attraverso la filosofia nietzschiana (certamente attiva in Mussolini) e la mitologia dannunziana, influenze cattoliche (particolarmente forti dopo l’approvazione dei "Patti Lateranensi"). Dietro la posizione di Bobbio, volta a negare l’esistenza di una cultura fascista, si intravedere il mito liberale di una cultura incontaminata perché, in quanto tale, intrinsecamente antifascista o, almeno, afascista. È stato obbiettato (per esempio, dallo storico Tranfaglia) che in realtà la cultura subì l’influenza ideologica del fascismo, in due modi: o accettandone l’ambito problematico (soprattutto sui temi del ruralismo e della modernizzazione e del corporativismo) o evadendone attraverso l’isolamento e una separatezza che in realtà erano però previsti e teorizzati dai dirigenti più duttili della politica culturale fascista (come Bottai). La cultura ha avuto, insomma, la sua parte di responsabilità nell’affermazione e nel consolidamento del fascismo. (…)
LA CRISI DELLA POLITICA CULTURALE DEL FASCISMO DOPO IL 1936 E IL RUOLO DI "PRIMATO"
Dopo il 1936 i "letterati-ideologi" e i fascisti di sinistra entrano in crisi: da un lato la repressione del regime si fa più dura e severa, dall’altro cadono le illusioni di un autonomo spazio di ricerca. I "letterati-ideologi" [in pratica, i fascisti di sinistra] sono perciò costretti a diventare "letterati-letterati" [in pratica i solariani e gli ermetici] o a trovare le ragioni del loro impegno ideologico fuori dal fascismo e contro di esso.
Questa situazione rappresenta una sconfitta per la politica culturale avviata da Bottai (ministro della cultura, a partire dal 1936). Per tentare una riconquista degli intellettuali non poteva ovviamente servire la rivista culturale del regime, "La critica fascista". Bottai preparò quindi una nuova rivista, rivolgendosi sia ai "letterati-ideologi" dissidenti, sia ai "letterati-letterati". Questa rivista è "Primato" (1940-43), il cui primo numero uscì proprio nel momento dell’entrata in guerra dell’Italia (maggio 1940). Bottai abilmente vi proponeva il "coraggio della concordia", cioè l’unità degli intellettuali in nome della cultura e nell’"interesse della Patria" impegnata nel conflitto mondiale. Egli riconosceva cioè i privilegi di casta degli intellettuali e prometteva loro un nuovo ruolo prestigioso proprio mentre tentava di reinserirli nei meccanismi del sistema fascista; ne esaltava lo "spirito di corpo" e la tradizionale missione di superiorità per farli "funzionare" nella macchina da guerra statale.
Gli intellettuali risposero in massa: collaborarono a "Primato" non solo giovani accademici e saggisti legati a un gusto più tradizionale, come Praz, Contini, Macchia, ma quasi tutti i protagonisti della cultura di sinistra nel dopoguerra: scrittori come Pratolini, Gatto, Pavese, critici e filosofi come Muscetta, della Volpe, Seroni, Alicata. Ma, per il regime, era troppo tardi. Il fallimento della politica fascista nella conduzione della guerra era ormai sotto gli occhi di tutti.
La domanda iniziale: è esistita una cultura fascista?, di per sé assurda, ha tuttavia qualcosa di promettente, visto che da settanta anni si fa finta che non sia necessario porsela e meno ancora rispondere, perché la risposta è intuitiva e cioè no, quella barbarie assoluta che è stato il fascismo non avrebbe mai potuto, in alcun caso, produrre cultura. Perciò, il fatto di porre la domanda lascia sperare qualcosa: che si sia disposti a considerare seriamente una tale possibilità, fino ad ora esclusa a priori perché considerata dai vigili custodi della cultura oggi dominante come una forma di revisionismo, o peggio. Ma poi ci si rende conto che è stata formulata solo per dare una certa impressione di apertura e oggettività di giudizio, mentre la conclusione è sempre nel solco del politicamente corretto: il fascismo non ha avuto una sua cultura, in compenso ha cercato di asservire la cultura. Cioè si gioca sui due significarti della parola: cultura come fatto antropologico e sociale, nel senso che tutte le epoche storiche hanno una loro cultura; e cultura come fenomeno "alto" della vita sociale, qualcosa che trascende le miserie della contingenza, politica compresa (a meno che si tratti di suonare il piffero per il comunismo e per tutte le altre ideologie rivoluzionarie e progressiste, nel qual caso la cultura non solo è scusata, ma anzi è invitata a dire la sua, a schierarsi e a farsi strumento di propaganda. In questo senso, Guernica di Picasso è, oltre che un’opera d’arte (?), una manifestazione di vera cultura, perché denuncia la crudeltà del nazismo e suona la squilla per le forze democratiche e antifasciste; ma il Duce di Gerardo Dottori non è che espressione della rozzezza della non-arte e della incultura fascista.
Dunque, dopo aver sottinteso che la cultura "vera" è quella politicamente corretta, cioè democratica e antifascista, e quindi aver posto le premesse per l’inevitabile conclusione, cioè che la cultura fascista non può, per definizione, essere esistita, ma che il fascismo, come un organismo parassita, ha sfruttato (e addomesticato) la cultura esistente, si passa ad esaminare la posizione degli intellettuali italiani che aderirono massicciamente alla "proposta" rappresentata da Primato e poi si fa la constatazione che, per l’andamento sfavorevole della guerra, gli intellettuali rimasero delusi e si volsero altrove: ad esempio, a guerra finita, verso il comunismo. E non si vede che, se questa analisi è esatta, essa dimostra il contrario di quel che si vorrebbe far apparire: cioè che il problema non fu il fascismo, ma l’inguaribile, inestirpabile opportunismo degli intellettuali italiani, i quali credono in una causa, e sono disposti a seguirla, fino a quando le prospettive sono favorevoli, non solo sul piano generale, ma anche per la loro riverita carriera personale ed i loro personali vantaggi, economici e di prestigio; altrimenti sono pronti ad affossare quello stesso potere che fino al giorno prima avevano celebrato ed esaltato con pifferi e tamburi. Il che è vero alle lettera: tutti fascisti fino al 24 luglio del 1943, tutti antifascisti dal 25 luglio.
L’ultimo periodo è quasi un capolavoro di autoironia involontaria. Dapprima, l’ammissione che gli intellettuali italiani, davanti al ghiotto invito di Primato per la loro carriera e la loro personale vanità, risposero in massa: dunque, anche quelli di loro che poi aderirono, altrettanto in massa, al P.C.I., non provavano alcun senso di ripulsa per il fascismo, beninteso fino a quando il fascismo aveva delle possibilità di reggere alla prova della Seconda guerra mondiale; e poi la constatazione, vergognosa non per il fascismo, ma per essi, che l’andamento sfavorevole delle vicende belliche operò su di loro la prodigiosa conversione antifascista, democratica e resistenziale. Collaborarono a "Primato" non solo giovani accademici e saggisti legati a un gusto più tradizionale, come Praz, Contini, Macchia, ma quasi tutti i protagonisti della cultura di sinistra nel dopoguerra: scrittori come Pratolini, Gatto, Pavese, critici e filosofi come Muscetta, della Volpe, Seroni, Alicata. Che bei nomi, che bell’elenco. Tutti pronti ad affiancare il fascismo, dunque finché esso aveva delle carte in mano abbastanza buone; ma poi, che disastro!, le cose volsero al peggio. Infatti, osservano giudiziosamente gli Autori sopra citati, ormai per il regime, era troppo tardi. Il fallimento della politica fascista nella conduzione della guerra era ormai sotto gli occhi di tutti. Era troppo tardi per il regime; non per la sagra dei voltagabbana: no, per costoro c’erano ancora margini di recupero, semplicemente saltando a pie’ pari sull’altra barricata, o, come si dice volgarmente, sul carro dei vincitori. Potevano farlo e lo fecero: mentre il regime, vale a dire gli uomini più compromessi, ma soprattutto i più coerenti, quelli che non vollero fare il salto della quaglia ma restare al loro posto, pur coscienti della fine che inesorabilmente s’avvicinava, i vari Gentile, Coppola, Pavolini, Preziosi, ecc. (ne citiamo solo alcuni e alla rinfusa, scegliendoli volutamente in ambiti diversi e di differente statura intellettuale), andarono incontro a una tragica resa dei conti, la sorte dei vinti che non sono disposti a vendesi o a piegarsi.
Tutto l’andamento del ragionamento ha peraltro qualcosa d’ironico e quasi di beffardo; come se si dicesse: peccato, se il fascismo avesse vinto la guerra tutti questi magnifici intellettuali che avevano aderito al Primato avrebbero anche potuto restare a bordo; ma poiché la perse, cosa volete, si affrettarono a lanciarsi l’un l’altro l’inevitabile si salvi chi può e a calarsi nelle scialuppe. C’est la vie. Il che ci riporta al discorso precedente: a chiederci non che cosa non abbia funzionato nel fascismo al puto da perdere così malamente la guerra, ma che cosa non abbia funzionato e non funzioni nel popolo italiano, il quale ogni volta che le cose si mettono male, preferisce scatenarsi nella guerra civile piuttosto che far fronte comune contro il pericolo. Una debolezza del senso dello Stato, evidentemente, e quindi della coscienza nazionale: proprio ciò su cui Mussolini aveva speso le sue energie nel tentativo di recuperare il ritardo storico, l’unità nazionale fatta solo nel 1860 dopo secoli di divisioni. Unità, per giunta, fatta senza la maggioranza del popolo e perfino contro di essa, cioè, massoni contro cattolici. Chiaro che l’Italia, pur avendo raggiunto sulla carta lo status di grande potenza (firma del Patto Tripartito con Germania e Giappone, 27 settembre 1940) seguitava a essere un vaso di coccio fra vasi di ferro; e non era solo questione di ritardo industriale ma proprio di struttura morale della nazione. Lo si vide quando arrivarono i "liberatori" e vennero accolti con scene di festa e di tripudio: ma se la guerra fosse finita in altro modo, quelle feste sarebbero state celebrate per gioire della loro sconfitta. Questa è la realtà, che piaccia o no. Mussolini a Piazzale Loreto fu il capro espiatorio sul quale sfogare la gioia feroce di un popolo imbelle e opportunista, che plaude sempre il vincitore e maledice il vinto: specie se questo, per un attimo, lo ha fatto sognare.
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