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Contro lo strutturalismo

Proseguendo nel lavoro che ci siamo proposti, di mostrare al pubblico la debolezza, la vacuità e la miseria della cosiddetta filosofia moderna e post-moderna, ora ci occupiamo brevemente dello strutturalismo, un importante indirizzo di pensiero che, affermatosi inizialmente in ambito linguistico, si è esteso all’antropologia, alla critica letteraria e alla filosofia stessa, esercitando un influsso notevolissimo, sia diretto che indiretto, sulla cultura e sul modo di porre le questioni teoretiche e metodologiche negli ultimi sessanta anni.

Cosa c’è al cuore del pensiero strutturalista, o meglio, più che del pensiero in senso stretto, cosa c’è al cuore dell’approccio strutturalista al reale? C’è l’idea che il reale è formato non da atomi e da soggetti isolati, ma da una fittissima rete di relazioni: per cui tutto ciò di cui possiamo fare esperienza non può essere compreso considerandolo isolatamente, ma solo mettendolo in relazione con tutti gli altri elementi. La più immediata conseguenza di questa impostazione — e scusate se è poco — è che l’uomo non è libero e pienamente padrone della propria coscienza, ma è il risultato di una fitta rete di relazioni sociali, culturali, psicologiche, esistenziali, per cui con lo strutturalismo si può parlare di una vera e propria dissoluzione del soggetto umano. Sotto questo punto di vista, gli strutturalisti dovrebbero eleggere a loro testo fondamentale non il Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure o Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss, bensì Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello: perché nessuno come lo scrittore siciliano, in quel suo famosissimo romanzo, ha descritto con eguale efficacia, più e meglio di Freud e Lacan, l’idea che l’uomo non ha un proprio centro unificatore, ma è solo una "maschera" che gli viene applicata dalla società e che egli è costretto a portare, calandosi in una parte che non è veramente la sua e che anzi sente non appartenergli.

Anche la concezione della storia degli strutturalisti si pone all’opposto dell’idea razionale che ne hanno gli idealisti, secondo la nota formula di Hegel: tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale. Al contrario, essi pensano che la storia sia la risultante di un complesso gioco d’interazioni, spesso casuali, di ordine economico, politico, sociale, culturale, senza una linea di sviluppo precisa, senza un indirizzo, senza un fine. Anche qui si potrebbe fare una opportuna citazione letteraria, da Shakespeare questa volta, e precisamente dal’atto quinto del Macbeth, mettendo solo "storia" al posto di "vita":

Spengiti, spengiti, breve candela! La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si agita sul palco, e poi non se ne sa più nulla. È un racconto fatto da un idiota, pieno di strepito e di furore, che non significa niente.

Opponendosi agli empiristi, gli strutturalisti sostengono che per fare storia bisogna staccarsi completamente dall’oggetto studiato e assumere un punto di vista che sia del tutto oggettivo. Come diavolo ciò sia possibile, è un altro paio di maniche; comunque essi sostengono che, ad esempio, per studiare l’antropologia, bisogna guardare l’uomo "dal di fuori", addirittura da un altro pianeta (questa perla è di Lévi-Strauss: potremmo perciò chiamarlo l’antropologo caduto dalle stelle), qualsiasi cosa ciò possa significare — e noi francamente non lo sappiamo. Insomma gli strutturalisti, a ben guardare, ripudiano l’idealismo, la fenomenologia, il pragmatismo, l’empirismo e perfino, almeno in parte, il mostro sacro del marxismo, perché questi indirizzi non sono sufficientemente scientifici e rigorosi nella loro indagine sui fatti umani. Pertanto potremmo definirli dei super-scientisti, a dispetto del fatto che nessuno di loro sia uno scienziato e che nessuno di loro mostri di possedere una vera mentalità scientifica. Insomma, con lo strutturalismo la velleità dello scientismo di andare sempre oltre se stesso ha fatto l’ennesima vittima.

Ma che cos’è la struttura, per gli strutturalisti? Non è solo un sistema complesso nel quale le parti ricevono impulso e significato dal gioco di tutte le altre, ma qualcosa di ancor più complesso e difficile da definire, perché ne fanno parte non solo le determinazioni reali delle singole parti e dei singoli individui, ma anche quelle potenziali, cioè quelle teoricamente possibili, anche se non destinate a esplicitarsi. Inoltre, ogni struttura fa perno su se stessa e "funziona" solo in base alle proprie leggi e ai propri dinamismi; per cui si potrebbe dire che la essa è, per gli strutturalisti, l’equivalente della monade senza porte né finestre nella filosofia di G. W. Leibniz. E su quale base essi sostengono una cosa del genere? Perché ammettere che la struttura condiziona in maniera determinante l’essere umano, al punto che quasi ne opera la dissoluzione, e al tempo stesso escludere che la struttura sia influenzata da altre strutture, così come c’è un’attrazione, negli atomi, del nucleo sugli elettroni, ma c’è anche l’attrazione esercitata sull’atomo dagli altri atomi e dalle altre molecole? Insomma, come si può affermare che ogni struttura è auto-centrata, dopo aver teorizzato che nulla, neppure l’essere umano, è realmente auto-centrato, ma riceve le condizioni del proprio esistere da qualcosa che è altro da sé?

Un’altra affermazione caratteristica degli strutturalisti è che la struttura ha come scopo il proprio funzionamento. Quindi essi reintroducono nel panorama speculativo il tanto aborrito finalismo, ma lo concepiscono come un fine che è determinato dal fatto stesso che la struttura esiste. Un po’ come il fine dell’alveare non è il bene delle singole api, ma la preservazione dell’alveare stesso, per cui va eliminato tutto ciò che lo ostacola o lo influenza negativamente, e in particolare ciò che non serve al processo produttivo del miele (la sopravvivenza dei fuchi dopo che l’ape regina è stata fecondata). Se poi le strutture esistano materialmente, in concreto, o solo come concetti generali, è una cosa che non viene mai chiarita e resta perciò in sospeso, avvolta nell’indeterminatezza: acutamente Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero, nel testo al quale facciamo riferimento per sviluppare questa riflessione, Percorsi di filosofia, istituiscono un parallelismo fra la discussione sulla natura delle strutture e quella della scolastica sulla natura degli universali, della quale abbiamo già parlato in altra sede (cfr. l’articolo: La disputa sugli universali, spia di antropocentrismo, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 20/06722). In ogni caso per gli strutturalisti d’indirizzo metodologico (corrispondenti ai vecchi nominalisti, e che si differenziano in questo dai "realisti") il mondo e l’uomo stesso sono dei modelli ipotetici che permettono di individuare delle relazioni, ma non hanno una consistenza effettiva: sono solo l’insieme delle relazioni che li sostengono. E dunque, se vogliamo spingerci ancora più in là sul terreno delle similitudini, si potrebbe dire che gli strutturalisti "realisti", che fanno riferimento a delle strutture "solide", sono paragonabili ai fisici seguaci della meccanica newtoniana, mentre gli strutturalisti metodologici sono paragonabili a quelli che lavorano sulla meccanica quantistica.

E ora passiamo ai principali esponenti dello strutturalismo. De Saussure è importante nella storia della linguistica, più che in quella della filosofia. Di Lévi Strauss abbiamo già parlato (v. l’articolo: Quanta nostalgia del ‘buon selvaggio’ di Rousseau nei "Tristi Tropici" di Lévi-Strauss, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 05/02/18); restano Foucault, Althusser e Lacan. Anche di Althusser ci siamo occupati in precedenza (v. Se il vostro maestro è un pazzo, voi che cosa siete?, sempre sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 20/12/18); perciò adesso diremo qualcosa di Michel Foucault (1926-1984), il più radicale e provocatorio esponente di questa corrente di pensiero, forse anche il più noto, certo il più controverso.

Per capire chi è Foucault, del quale non pretendiamo di dare un ritratto esauriente, basterebbe la sua affermazione: prima della fine del XVIII secolo l’uomo non esisteva. I suoi esegeti si affrettano a spiegarci che egli intendeva dire che, prima di quella data, non esisteva l’uomo che come oggetto e al tempo stesso come soggetto di scienza (sempre il mito della scienza: di quella particolare forma e idea di scienza che è la scienza moderna). Infatti, avendo definito epistemi le grandi strutture mentali che caratterizzano la storia europea (qualcosa di simile a ciò che Thomas Kuhn aveva definito paradigmi), egli alla fine ne riconosce non più di tre: quella rinascimentale, quella che lui chiama classica e che corrisponde al periodo che va da Cartesio alla fine del 1700 e quella moderna. Pertanto egli salta, ignora e disprezza sia l’antichità classica, sia i lunghi secoli della civiltà cristiana: evidentemente non trova in essi nulla di scientifico, nulla che sia degno di essere paragonato a Copernico e a Cartesio. Platone, Aristotele, sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino? Nulla che riguardi il pensiero scientifico, cioè, secondo la sua concezione, nulla che faccia dell’uomo un soggetto, oltre che un oggetto, di scienza. Queste idee egli le espone nel suo capolavoro, o quello che dai suoi ammiratori è ritenuto tale, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, del 1966, al quale si può accostare il non meno conosciuto Storia della follia nell’età classica, del 1961. In seguito egli si è concentrato sulla critica alle strutture di potere, e il libro più noto di questa seconda fase è Sorvegliare e punire, del 1975.

Come Pasolini, in quanti omosessuale che non nascondeva le proprie inclinazioni, anzi ne parlava apertamente (dopo aver avuto una relazione con un compositore francese all’Università di Upsala, in Svezia, nel 1960, a trentaquattro anni iniziò il lungo legame con l’allora studente Daniel Defert, ventitreenne, seguendolo in Tunisia, ove fu oggetto di accuse, non provate, di pedofilia verso i ragazzini locali), forse nutriva un rancore inconfessato verso la società dei "normali" e tendeva a vedere ovunque la presenza di un potere impegnato al controllo e alla sorveglianza. In questo è stato buon profeta: solo che la società del controllo che si è instaurata ai nostri giorni è figlia legittima di quel ’68 nel quale egli si schierò con gli studenti e che diede inizio alla svolta liberale-libertaria-libertina delle attuali classi dirigenti europee. In altre parole, la stretta liberticida non è maturata dal ceppo del "vecchio" potere statale, ma dal nuovo, che altro non è se non l’espressione del grande capitale finanziario. E Foucault, come tanti altri intellettuali francesi di sinistra degli anni ruggenti, i Sessanta e i Settanta (si pensi a Bernard Henry-Lévi, o André Glucksmann, per citarne solo un paio, ma l’elenco sarebbe infinito), se oggi fosse vivo, chissà se riconoscerebbe nei vari Attali, Schwab, e in tutti i teorici, anche nostrani, della transizione ecologica, fautori di un neo-malthusianesimo alla cinese e ferocemente nemici delle famiglie naturali, specie se numerose, e di tutte le libertà tranne quella di abortire, suicidarsi e cambiare sesso, i suoi legittimi discepoli e nipotini: di lui che predicava la liberazione sessuale come strumento decisivo per capovolgere le oppressive strutture di potere.

Resta lo psicoanalista Jacques Lacan (1901-1981), radicale nemico di ogni umanismo e assertore della centralità dell’inconscio nella vita dell’uomo, sostenendo che la dimensione cosciente e razionale è stata gonfiata a dismisura dalla filosofia tradizionale. La parte più originale del suo pensiero risiede nell’idea che l’Es, ossia l’inconscio, è strutturato (ecco lo strutturalismo!) come un linguaggio; e che il complesso di Edipo (vale a dire, è bene ricordarlo, una controversa teoria freudiana, non provata e che non ha nulla di scientifico, ma che qui viene data per verità sacrosanta) riflette una condizione simbolica della lingua e della società. Filosofemi bislacchi, grazie ai quali però Lacan si è guadagnato un posto "onorevole" fra i maîtres à penser del progressismo parigino degli anni ’60, al punto che alcune sue formule sono entrate a far parte del quotidiano bagaglio di citazioni e riferimenti del progressista semicolto, come molte del suo maestro: per cui si può dire che il principale merito di Lacan, se merito lo si vuol chiamare, è stato quello di aver rivitalizzato le ormai stanche teorie di Freud e aver dato loro, nel quadro culturale degli anni intorno al ’68, una seconda giovinezza, un po’ come ha fatto Altuhusser per il marxismo con la pubblicazione del suo libro Per Marx, del 1965.

Come si vede, nello strutturalismo si trova un concentrato di quanto di peggio ha prodotto la cultura moderna: cascami di teorie decrepite e aberranti come la psicoanalisi, accanto a nuove formulazioni che tagliano le radici della civiltà e del pensiero europeo e negano che prima dell’illuminismo ci fosse un soggetto "uomo" degno di questo nome. L’imperativo di Arthur Rimbaud, bisogna essere assolutamente moderni, ha trovato qui, forse, la sua massima espressione, sia pur condita (adelante, Pedro, con juicio) con generose iniezioni di pensieri non proprio all’ultimissima moda, come la psicoanalisi freudiana o come il marxismo, magari reinterpretato e corretto da questi nuovi filosofi, ma insomma ancor buono per scaldare i cuori e mobilitare le piazze. Quel che di anormale c’è nella biografia di tali personaggi (Altuhusser ha ucciso la propria moglie, strangolandola, ma ha evitato il carcere per infermità mentale) dovrebbe fungere da spia su quanto di anormale c’è nei loro pensieri.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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