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La disputa sugli universali, spia di antropocentrismo

Quando, precisamente, ha avuto inizio la "svolta antropologica", a rivoluzione copernicana della teologia, e della filosofia, che ha condotto la nostra civiltà da una visione teocentrica ad una visione sempre più apertamente antropocentrica, fino all’esclusione del divino e alla pretesa dell’uomo di sostituirsi a Dio? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo partire da molto lontano: parecchi secoli prima del Concilio Vaticano II e di Karl Rahner; precisamente dalla disputa scolastica sugli universali. E poiché chi non ha studiato storia della filosofia probabilmente non ne ha mai sentito parlare, ne diamo un breve ragguaglio.

Quando noi, discorrendo, adoperiamo la parola uomo in senso generale, a che cosa ci riferiamo? Evidentemente, alle caratteristiche che fanno dell’uomo un uomo, e che si applicano indistintamente a tutti gli uomini, giovani e vecchi, europei o asiatici, e così via. Ma la categoria uomo, in se stessa, che cos’è? È semplicemente un nome che noi diamo ai membri di quella categoria, o è qualcosa che sussiste autonomamente? Cioè: sappiamo che dire l’uomo è come dire l’insieme degli esseri umani, ossia degli individui che rientrano in quella categoria. Ma la categoria in quanto tale, è reale o nominale? È un puro nome, una convenzione concettuale, o è un qualcosa di concreto? E, in tal caso, questo qualcosa sussiste solo insieme ai singoli individui, all’interno di essi, oppure sussiste anche al di fuori di essi?

Può sembrare strano, ma tali domande, che oggi sono note sotto il nome di disputa sugli universali (quaestio de universalibus), ha appassionato i pensatori medievali per alcuni secoli, e ha chiamato in campo i maggiori filosofi e teologi per dirimere l’intricata e apparentemente effimera questione. Si sono formati due grandi schieramenti, i realisti e i nominalisti: i primi, sostenitori della realtà effettiva delle categorie o universali; i secondi, del valore puramente nominale di essi. A sua volta la presa di posizione pro o contro la realtà concreta degli universali aveva, o poteva avere, riflessi e sfumature tali da coinvolgere l’ortodossia teologica. Roscellino di Compiègne, ad esempio, sostenitore d’un nominalismo radicale, negava ogni reale sussistenza al concetto di uomo e asseriva che esistono effettivamente solo gli uomini, cioè i singoli individui. Da questa affermazione, apparentemente di carattere soltanto logico, scaturivano, invece, conseguenze devastanti sul piano teologico. Infatti se esistono solo gli individui, allora anche le tre Persone della Santissima Trinità non costituiscono una unità, ma sussitono separate e distinte: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: e Roscellino, sfidato su questo terreno, non volle tirarsi indietro, e confermò che tale era la naturale applicazione del suo assunto. Questo naturalmente portò gli altri teologi, come Anselmo d’Aosta e Abelardo (il quale era stato suo discepolo, oltre che di Guglielmo di Champeaux) a rivolgere contro di lui un’accusa estremamente grave, quella di triteismo: egli, per sua stessa ammissione, non affermava di non credere nell’unità di Dio, bensì in tre Persone separate ed autonome, insomma in tre divinità.

Come si vede, da premesse in apparenza modeste si può giungere a conclusioni terribilmente serie. Abelardo, poco caritatevolmente, rivolse al suo ex maestro un’accusa formale di eresia, pur sapendo cosa ciò avrebbe potuto comportare (e infatti le sue testi vennero formalmente condannate nel concilio di Soissons del 1092 ed egli stesso fu bandito dalla Francia e dall’Inghilterra, anche se poi ottenne il perdono del papa:

Il chierico Roscellino afferma che in Dio le tre persone esistono separatamente le une dalle altre, come fossero tre angeli, in modo però che la loro volontà e la loro potenza siano unite.

Aggiungendo poi, per buona misura, questo impietoso giudizio:

[Roscellino] è l’antico nemico della fede cattolica, il più grande avversario di Dio, pieno di sé, arrogante e sempre orgoglioso, la cui detestabile eresia, affermata nel concilio di Soissons, è stata punita con l’esilio, dal momento che egli riconosceva e predicava tre dei.

Al che l’ex maestro, esasperato, rispondeva intingendo la penna nel vetriolo con la famosa Lettera ad Abelardo del 1120 (l’anno prima della morte), che è anche, ironia della sorte, il suo unico scritto pervenutoci (cit. da Wikipedia):

Tu hai spedito una lettera straripante di critiche contro di me, fetida delle immondizie contenute, dipingendo la mia persona come fosse coperta di macchie d’infamia come le macchie scolorite della lebbra. Niente di strano se tu arrivi a trasporti furiosi nelle tue vergognose proposte contro la Chiesa tu, che sei così violentemente all’opposto, per la qualità della tua vita, a questa santa Chiesa. Però ho deciso d’ignorare la tua presunzione perché tu non agisci così riflettendo ma spinto dall’immensità del tuo dolore. E come il danno subito dal tuo corpo, del quale ti lamenti, è irreparabile, così il dolore per il quale ti opponi a me è inconsolabile. Ma tu devi temere la giustizia divina: la coda della tua impurità, con la quale prima, finché ne avevi la possibilità, tu pungevi senza discernimento, ti è stata a buon diritto tagliata, fa’ attenzione che la tua lingua, con la quale pungi adesso, non ti sia egualmente strappata. Prima, pungendo con la tua coda, sembravi un’ape, mentre, ora che pungi con la lingua, sembri un serpente.

Roscellino prosegue rinfacciando ad Abelardo tutte le pagine oscure della sua vita, compresa la seduzione di Eloisa, la nipote del chierico Fulberto, e l’enorme scandalo che ne era seguito; non esita neppure a compiacersi della crudele punizione che gli era stata inflitta dall’adiratissimo zio, cioè l’evirazione. Questo, per dare un’idea dell’asprezza che poteva assumere una polemica nata inizialmente su un terreno speculativo molto lontano dalle faccende quotidiane, quasi astratto. Certo gl’intellettuali medievali — presbiteri o no – non erano una razza d’uomini che se le mandava a dire; la nostra civile società, fatta d’ipocrisia e buona maniere, stenta a credere che due pensatori possano giungere a simili estremi verbali.

Tornando alla disputa sugli universali, c’è un aspetto particolare che deve essere valutato, anche per comprendere come mai i filosofi e i teologi della Scolastica si siano così vivamente appassionati ad essa, ma soprattutto per rispondere alla domanda che ci eravamo posti all’inizio: quando nasce, cioè, l’indirizzo antropocentrico della teologia.

Tutta la questione è stata riassunta efficacemente nel manuale La ricerca del pensiero. Storia, testi e problemi della filosofia di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero (Torino, Ed. Paravia, 2014, vol. 1b, pp. 210-212):

A partire dal XII secolo, uno dei più frequenti temi di discussione tra gli scolastici medievali fu il cosiddetto "problema degli universali".

In filosofia, per "universali" si intendono quei concetti generali che possono venir riferiti a più individui o cose, come ad esempio i generi (animale) o le specie (uomo). Per "problema degli universali" si intende la questione relativa allo status ontologico di tali concetti, cioè asl loro ipotetico corrispettivo reale. In atri termini, poiché gli enti che ci circondano sono individuali e i concetti sono universali, sorge il problema della validità e verità di questi ultimi, ossia l’interrogativo circa l’esistenza o meno di realtà universali.

La diatriba fu impostata a partire da un passo dell’"Isagoge" (introduzione) di Porfirio alle "Categorie" di Aristotele e secondo i relativi commenti di Boezio:

«Intorno ai generi e alle specie non dirò qui se essi sussistano oppure siano posti soltanto nell’intelletto; né, nel caso che sussistano, se siano corporei o incorporei, se separati dalle cose sensibili o situati nelle cose stesse ed esprimenti i loro caratteri comuni» ("Isagoge", I).

Tra le alternative indicate da Porfirio, una sola non trova riscontro nella storia della disputa: quella secondo la quale gli universali sarebbero realtà corporee. In compenso, i dottori medievali si chiesero: gli universali esistono come "conceptus mentis", ossia come concetti, o nozioni, della nostra mente; oppure esistono anche nella realtà? E in quest’ultimo caso: esistono separati dalle cose, in modo analogo alle idee platoniche; oppure esistono "dentro" le cose, alla maniera delle forme aristoteliche?

Alcuni storici del passato hanno sopravvalutato il problema degli universali, tanto da fare di esso "il" problema per eccellenza della filosofia del Medioevo. Altri studiosi lo hanno invece considerato, per reazione, come qualcosa di secondario, o di marginale. Come succede spesso in questi casi, la verità sta probabilmente nel mezzo. In altri termini, la disputa sugli universali, pur non esaurendo tutta la problematica filosofica del Medioevo, ne costituisce pur sempre un elemento basilare e imprescindibile.

La nascita, o meglio la formulazione esplicita, del problema degli universali (già presente in modo implicito nel pensiero precedente) non derivò semplicemente dal fatto che i testi filosofici a disposizione nel Medioevo erano soprattutto testi di logica, ma da una ragione più profonda, e cioè dal ripiegamento critico della logica su se stessa, ovvero dal passaggio dallo STUDIO della logica al PROBLEMA della logica, consistente nella domanda intorno al valore della conoscenza razionale: In altri termini, INTERROGARSI SUL PROBLEMA DEGLI UNIVERSALI SIGNIFICA INTERROGARSI SUI POTERI STESSI DELLA RAGIONE E SULLA VALIDITÀ DEGLI STRUMENTI INTELLETTUALI DI CUI ESSA SI SERVE per parlare del mondo.

Storicamente parlando, questo atteggiamento può essere assunto come un segno del nuovo spirito che cominciò a pervade la scolastica a partire dagli ultimi decenni dell’XI secolo. Anteriormente a questo periodo nessun pensatore aveva potuto dubitare del fatto che i generi e le specie fossero le idee archetipiche nella mente divina e forme impresse alle cose da questa stessa mente. In questa prospettiva, il problema degli universali non aveva senso. Porlo significava infatti ammettere la possibilità di risolverlo anche in modo difforme rispetto alle dottrine che la prima scolastica aveva desunto dalla patristica facendone il patrimonio della speculazione teologica. Significava, in altre parole, assumere un punto di vista non più soltanto teologico, ma filosofico, che vedeva negli universali non più soltanto gli strumenti dell’azione creatrice di Dio, ma anche e soprattutto gli strumenti, o le condizioni, delle operazioni conoscitive dell’uomo. In questo senso la formulazione del problema degli universali rappresenta L’INSTAURAZIONE DI UN PUNTO DI VISTA CHE GUARDAVA PIÙ ALL’UOMO CHE A DIO.

Anche le innumerevoli sottigliezze a cui il problema dette luogo possono essere considerate come l’espressione della nuova libertà con cui l’uomo guardava a se stesso. Questa nuova libertà, che si manifestò anche (…) attraverso la rinnovata attenzione che i filosofi prestarono al mondo, accompagnò e sorresse la rinascita economica e sociale dell’epoca, che si espresse nella formazione o nel consolidamento delle repubbliche marinare e dei comuni, negli scambi, nei viaggi, nell’economia mercantile e, in generale, nella ripresa di uno spirito laico e intraprendente.

Rinascita economica e Repubbliche marinare a parte, resta il fatto che, a partire dall’XI secolo, si sente aleggiare un’atmosfera nuova nella teologia e nella filosofia. Si sente che l’interesse dei pensatori è rivolto al mondo per spiegarlo a partire dalla realtà umana e non da quella divina. Se la polemica divampò sul terreno della logica, ciò si deve sia al fatto, sopra ricordato, che allora erano soprattutto i libri di logica a circolare nei conventi e nelle università, soprattutto le traduzioni arabe di Aristotele; sia al fatto che il terreno della logica è in apparenza neutro e quindi non coinvolge direttamente questioni più scottanti, che allora un po’ tutti erano riluttanti a sollevare (anche se ciò può accadere ugualmente, come nel caso di Roscellino). In ogni caso, la disputa assunse una portata tale da indurre i due campioni del pensiero domenicano, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, proporre una soluzione che si può definire realista moderata. Gli universali esistono ante rem, da prima delle cose materiali, perché presenti da sempre nella mente divina; in re, perché trasfusi da Dio negl’individui all’atto della creazione; e post rem, perché la mente umana può tradurli in concetti. E se due giganti come loro sentirono il dovere di scendere in campo le implicazioni antropocentriche della disputa dovevano essere abbastanza chiare da suscitare la loro preoccupazione.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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