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La pluralità del reale è solo un’illusione?

Meister Eckhart (1260-1317/18) e Nicola Cusano (1401-1464) hanno esercitato un influsso profondo sulla cultura filosofica e religiosa tedesca ed europea: grazie a loro ha ripreso vigore l’idea che esiste una contraddizione insanabile fra la realtà conoscibile dalla ragione umana, che è dualistica, e la realtà vera, la sfera del divino, che è unitaria. In altre parole, da loro, e specialmente dal secondo, si è diffusa l’idea che il sapere umano è illusorio, perché si fonda su mere apparenze: e sappiamo che tale idea verrà codificata da Kant, con la liquidazione della cosa in sé e la conoscenza diretta unicamente al fenomeno; mente Hegel, da pare sua, riprenderà la dottrina di Cusano della coincidentia oppositorum per formulare il superamento dialettico della tesi e dell’antitesi, in una sintesi superiore.

Ma è proprio vero che la dualità del reale è foriera di un sapere illusorio, e che gli opposti, in ultima analisi, coincidono, perché, come dice Cusano, il massimo del sapere coincide con il minimo, in quanto la massima quantità e la minima quantità, a confronto con la verità infinita, sono ugualmente insignificanti e pressoché nulli?

Per sviluppare una nostra riflessione, prendiamole mosse da una pagina del filosofo e storico della filosofia Heinz Heimsoeth (1886-1975), che fu docente a Marburgo, a Königsberg e infine a Colonia, sua città natale, tratta dal suo libro I grandi temi della metafisica occidentale (titolo originale: Die sechs grossen Themen der abendländischen Methaphysik, 1954; traduzione dal tedesco di Francesco Moiso, Milano, Ugo Mursia & C., 1973, pp. 42-44):

L’esperienza quotidiana del reale, in cui noi ci troviamo e agiamo, con la sua pluralità, molteplicità e opposizione, e la così rara, impossibile a fissarsi durevolmente, illuminazione dell’uomo che è alla ricerca di Dio, con cui egli penetra nell’unità priva di opposizioni, stanno ancora accostate nella vita umana, secondo la visione che ne ha Eckhart, sono del tutto prive di mediazione, e non v’è un ponte che conduca dall’una all’altra. Tutte le facoltà dell’anima, le sue "potenze", non sono in grado di condurla al di là dell’apparente scissione; esse rimangono costantemente relegate in una condizione di insufficienza. Non solo le potenze inferiori, quelle sensibili, la cui attività anzi si esplica nel disperderci in uno stato di frammentazione, ma anche quelle superiori, le potenze supreme, rimangono irretite nell’opposizione, Perfino la più pura ragione, che pur genera unità, rimane ancora nella duplicità, nel fronteggiarsi di un conoscente e di un conosciuto; così anche la più nobile volontà, il più alto amore, per quanto in essi possa essere intimamente sentito il contatto, per quanto ardentemente possa essere bramata l’unione, rimangono costretti in questa ineliminabile tensione di io e tu, uomo e Dio, soggetto e essere. Con le sue ‘potenze’ l’anima non perviene alla vera unità. Solamente quando l’uomo allontana da sé non solo desiderio, percezione, sensibilità, ma anche ogni volere, amare e conoscere spirituale, quando egli si raccoglie nel più profondo dell’anima, e, separato profondamente dal mondo, morto alle proprie forze, lascia splendere la "piccola scintilla" e lascia consumare da essa il proprio io, solo allora egli accede all’unione mistica con Dio, allora asce per lui l’unità senza opposizione: egli e Dio sussistono come una sola e indivisa cosa. Tutto ciò che le potenze dell’animo avevamo abbracciato nella pluralità, ciò che doveva essere abbandonato e trascurato, si ritrova ora in una sola volta nella pienezza dell’unità, fuso, del tutto unito a questa anima ‘separata’ che è ascesa alla divinità. Perdere il mondo per guadagnarlo: non si possono contrapporre le due vie così indicate, e la cui sconosciuta unità viene qui ancora presupposta, più crudamente di quanto abbia fatto Eckhart.

Una grave aporia si apre qui, nella vita come nel pensiero. L’uomo rimane prigioniero della pluralità anche con le sue potenze più nobili e profonde: a queste, non meno che tutto ciò che è sensibile e frammentario, egli deve volgere le spalle se vuole giungere all’unità. Così sembra pronunziata una sentenza di morte anche per il pensiero: se ogni scienza per propria natura coglie solo ciò che è diviso e impregnato d’apparenza, null’altro in conclusione che la percezione sensibile e l’esperienza quotidiana, se la stessa filosofia, la conoscenza della ragion, rimane radicalmente schiava della dualità e non può mai rintracciare alcunché della vera unità, è allora vero che ogni ricercare è privo di valore. Concetto e parola, fondazione e dimostrazione sono nulli, debbono ammutolire per fare luogo alla sola estasi mistica.

Il ponte viene qui gettato da Nicolò Cusano, tra i seguaci di Eckhart il più propriamente filosofo, con la sua dottrina della "docta ignorantia", dl sapiente non-sapere. In ogni caso l’intelletto ("ratio"), raccogliendo realtà sperimentate, comparando, traendone concetti, misurando le cose l’una con l’altra, rimane legato a ciò che è dato dai sensi, e pertanto insolubilmente irretito nella pluralità e nell’opposizione. Di per sé sola la scienza intellettuale non è un sapere del vero essere, che è uno; pertanto è un non-sapere. Ciò non significa tuttavia che ogni conoscenza sia alfine senza valore, sia da abbandonare, che si debba "perdere" il mondo volgendogli la schiena, spegnendo i sensi e l’intelletto e disprezzando il loro vedere e ricercare. Infatti tra questo intelletto e l’ineffabilità dell’unione con Dio agisce una forza superire dello spirito che MEDIA tra di loro e fa sì che anche la conoscenza della molteplicità acquisti senso e valore per ogni ricerca ultima nei confronti dell’essere-uno, di Dio. La ragione (in Nicolò "intellectus") è infatti conscia che il sapere del singolare è un non-sapere. Certo essa non possiede mai la totalità: Eckhart aveva veduto giusto ritenendo che la"massima eguaglianza", che non contiene più differenza da nulla, la identità totale, stia al di là di qualsiasi concetto. Tuttavia la ragione si solleva al di sopra di ogni conoscenza della pluralità mediante il suo sapere del non-sapere di questa, e tende verso ciò che è senza pluralità. Ora, questa non è solo un’isolata ammonizione a non prendere per definitivi l’intelletto e le sue affermazioni, un semplice isolato accenno alla altrimenti inaccessibile unione mistica con Dio, ma tutta la rigorosità del concetto, conducono da tutti i contenuti del sapere di ciò che è singolare all’unità attraverso la pluralità, dagli opposti al loro convergere, alla coincidenza. La linea retta e la linea curva coincidono totalmente, quando il raggio di questa sia pensato come infinitamente grande. Così accade con movimento e riposo, con tutte le opposizioni che attraversano la realtà: solo nel finito i membri si escludono l’un l’altro: nella perfetta unità tutto coincide.

È una strana pretesa, quella di Meister Eckhart e di Nicolò Cusano, che non dovrebbe esserci un’antinomia insolubile tra il finito e l’infinito, il terreno e il divino. O meglio, è strano il loro continuo lamentarsi che tale differenza ontologica si riverberi sul piano della conoscenza, e che pertanto — essi dicono – il sapere umano è solo un non sapere, un sapere di saper poco più che nulla. Strana, perché nessuno meglio di un pensatore cristiano dovrebbe sapere che la differenza ontologica implica necessariamente e logicamente una distonia gnoseologica; che qualunque sapere umano, anche il più rigorosamente razionale, è solo un balbettio sconnesso in confronto alla maestosa, abbagliante realtà di Dio. Ma questo che cosa significa? Che senso ha lamentarsi di questo fatto e vederlo quasi come una maledizione, o comunque una sorta di condanna? Niente affatto: la ragione è la ragione, signora della conoscenza terrena; e se essa, applicandosi alle cose contingenti, non conduce ad alcuna certezza definitiva quanto all’assoluto, non vi è il benché minimo motivo di stupore o di amarezza, semmai il contrario: è la conferma che esiste una differenza fra il Creatore e le creature, compresa la creatura razionale che è l’uomo, e che tale differenza va accettata pienamente, con tutte le sue conseguenze. Essi dicono: sì, ma in questo modo non riusciamo a giungere all’Uno. E dunque? Chi vi ha detto che Tutto è uno? Plotino, forse, ma non Gesù Cristo. Niente affatto: Dio è Dio e il mondo è il mondo; e le creature, che sono parte del mondo, non formano una cosa sola con Dio, sono altra cosa, benché da Lui provengano e a Lui siano chiamate a ritornare. Per cui si può dire che tutto sarà Uno, quando il mondo verrà ricapitolato in Dio; ma non è vero che Tutto è uno già adesso.

Come scrive san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (26-28):

26 L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, 27 perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. 28 E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

Infatti non solo gli uomini, ma tutte le cose create, attendono la redenzione di Cristo affinché divengano una cosa sola, come dice ancora san Paolo in un passo famoso e assai suggestivo della Lettera ai Romani (8, 19-23):

9 La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza 21 di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22 Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; 23 essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.

Tuttavia non si deve confondere quello che sarà il compimento dei tempi, quando Dio chiamerà a sé tutte le cose, ricapitolando l’intera storia umana in Gesù Cristo, e ciò che si verifica ora, con la netta e ontologica distinzione fra i due ordini di realtà. Pretendere di giungere alla visione dell’Uno significa voler abolire la differenza fra creatura e Creatore: è un immenso peccato di superbia, e in ciò sia Eckhart, sia Cusano somigliano più agli gnostici e, per certi aspetti, ai maghi medievali, che a dei veri cristiani, perché, in quanto tali, dovrebbero adeguarsi alla volontà di Dio. La quale è chiarissima: Venite a me voi tutti, dice Gesù Cristo; e non dice: Voi che siete già in me, fondetevi con Me, perché Io e voi siamo una cosa sola. Ma quando mai? Ciò non sarebbe cristianesimo: ciò sarebbe platonismo, gnosticismo, cabalismo, panteismo e Dio sa che altro; ma non cristianesimo, assolutamente.

Il problema della conoscenza, che a Cusano appare quasi insolubile, tanto da spingerlo a cercare un escamotage nella dottrina della "dotta sapienza" per salvare il salvabile, dopo aver affermato chiaramente che tutto ciò che possiamo sapere è semplicemente un non-sapere, è a ben guardare nient’altro che un falso problema. È evidente che l’uomo, nella dimensione della vita terrena, non può conoscere in senso assoluto, perché non può conoscere Dio: ma quando mai gli è stato chiesto di sapere quel che non può sapere? Il cristiano sa che Dio, in se stesso, è inconoscibile; ma tutta la sua fede si fonda su Gesù Cristo, che è il Dio che si fa conoscere (chi ha visto me, ha visto il Padre: Gv 14,9), e che l’ha fatto nella maniera più esplicita e clamorosa: facendosi uomo, pur conservando in tutto la propria natura divina, e accettando di essere messo a morte per mano degli uomini, per amor loro.

Per usare ancora le parole di san Paolo nel suo memorabile discorso ai filosofi greci riuniti ad ascoltarlo nell’Areopago di Atene (At 17,22-31):

22 Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dèi. 23 Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. 24 Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo 25 né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26 Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, 27 perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28 In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto:

Poiché di lui stirpe noi siamo.29 Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana. 30 Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, 31 poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».

Tutto questo non significa in alcun modo svalutare la conoscenza umana che viene dalla ragione naturale. Gli uomini non sono spiriti disincarnati: hanno un corpo e vivono in mezzo alla realtà del mondo. La ragione naturale è una cosa buona, anzi eccellente, perché è il dono divino che fa la differenza fra l’uomo e gli altri esseri viventi, che non la possiedono. È evidente pertanto che Dio desidera che l’uomo ne faccia uso, il miglior uso possibile, per cercare la verità: e la Verità in definitiva è Dio stesso. Pertanto il giusto atteggiamento dell’uomo è quello di utilizzare al massimo la propria ragione naturale per capire ciò che aiuta a trovare, in Dio, il fine al quale l’uomo è ordinato. E questo è l’atteggiamento di san Tommaso d’Aquino, grandissimo filosofo e grandissimo mistico. In una prospettiva sana, non c’è contraddizione fra le due cose, la via razionale e la via mistica. Dopo aver dedicato l’intera vita a cercare la verità con lo strumento della ragione, egli ebbe una visione soprannaturale, in seguito alla quale non volle scrivere più nulla, perché, come disse, tutto il suo sapere non era che paglia in confronto alla splendente Verità divina. In quella visione egli udì una voce che gli diceva: Bene hai scritto di me, Tommaso; quale ricompensa desideri avere? Al che egli rispose: Nient’altro che Te, Signore. Come dire: il sapere umano è lodevole in se stesso, ma a paragone della visione della realtà assoluta, chi non desidererebbe rinunciare a quello per avere questa?

Tuttavia, ripetiamo, Dio è Dio, e l’uomo è uomo: non esiste unità fra il Creatore e le creature; le creature sono e restano solamente creature. Perciò, finché esisterà la dimensione terrena, il dualismo non è illusione, ma realtà. Quando i veli cadranno, le creature vedranno il Creatore faccia a faccia: e allora troveranno la risposta ad ogni loro domanda.

Ancora san Paolo (1 Cor. 13,11-12):

11 Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; ma quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. 12 Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte; ma allora conoscerò pienamente, come anche sono stato perfettamente conosciuto.

Fonte dell'immagine in evidenza: Francescoch - iStock

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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