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17 Giugno 2022Come è noto, non era affatto scontato che, alla fine, sarebbe stata la filosofia di Aristotele ad essere "adottata" dal pensiero cristiano e che da tale connubio sarebbe scaturita la formula vincente, per così dire, alla quale ancora si ispirano quanti, sulla scia di san Tommaso d’Aquino, credono alla rispettiva autonomia e alla complementarietà della ragione e della fede. Per gran parte del Medioevo, anzi, fu il platonismo, con la mediazione agostiniana, a prevalere nettamente nei conventi e nelle scuole vescovili; e anche in seguito, con il sorgere delle università, l’ascesa dell’aristotelismo tomista fu travagliata e dovette scontrarsi con molte ostilità e diffidenze, tanto che poco dopo la morte di san Tommaso alcune sue proposizioni vennero condannate, insieme ad altre del cosiddetto averroismo latino, dal teologo e arcivescovo di Parigi, Étienne Tempier; anche se tale decreto venne poi a sua volta rovesciato.
A prima vista, il pensiero platonica sembrerebbe effettivamente più vicino alla dottrina cristiana, specie per quel che riguarda l’immortalità dell’anima individuale (tralasciando però il non lieve particolare della reincarnazione, descritto dettagliatamente nel mito di Er), mentre non è chiaro se per Aristotele l’anima individuale fosse immortale o se lo fosse solo al livello della specie umana: e il cosiddetto aristotelismo latino, influenzato dalla mediazione degli arabi, giunse in effetti a negare la sopravvivenza dell’anima individuale. Invece, lasciando in sospeso la questione dell’anima, su tutto il resto è la filosofia di Aristotele quella che più si adatta alla dottrina cristiana, anche perché distingue molto nettamente Dio, Atto puro, dalle creature, fatte di potenza e atto; mentre nel platonismo vi è un’intrinseca e incorreggibile tendenza verso il panteismo, ossia l’identificazione di Dio e il mondo: ed è proprio tale distinzione che sta a fondamento della concezione cristiana. Per questo, e per la rigorosa razionalità che ben si adatta alla mentalità europea, mentre le si addice assai meno la spiritualità staccata dalla razionalità, bene ha visto san Tommaso in Aristotele il filosofo greco dal quale era possibile apprendere tutto quanto la ragione naturale può apprendere, e poi proseguire, sempre con il suo metodo, ma anche con la luce soprannaturale della grazia, a indagare le realtà ultime e la Causa prima.
Il contrasto e la continua polemica tra francescani e domenicani, che si protrae per gran parte del Medioevo, ha qui la sua radice e la sua causa. I francescani, più inclini al misticismo, vedono gli aspetti mistici di Platone, mediati da sant’Agostino, e li trovano confacenti al loro approccio alla Rivelazione, che privilegia la spiritualità rispetto alla razionalità. I domenicani, secondo la lezione di San Tommaso e di sant’Alberto Magno, pur non disdegnano affatto la dimensione mistica e spirituale — e anzi vedremo che san Tommaso d’Aquino era un mistico, anche se tale aspetto della sua personalità è tutt’oggi poco conosciuto – prediligevano la via razionale, non vista come qualcosa di assoluto, ma come la via naturale verso il mistero di Dio fino a quando non diviene indispensabile il soccorso della grazia. Oltre a ciò, per quanto riguarda il problema della conoscenza i francescani apprezzavano la concezione platonica delle idee innate, mentre i domenicani, sulla scia di sa Tommaso, vedevano nella gnoseologia aristotelica il giusto approccio al conoscere, secondo la nota formula: Nisi est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, «non vi è alcunché nella mente umana che non vi giunga attraverso i sensi». E anche da questo lato appare evidente che l’approccio al reale platonizzante è essenzialmente idealistico (infatti il reale è Idea), mentre quello aristotelico è rigorosamente aderente al dato reale (la verità è adaequatio rei et intellectus, ossia «adeguamento della cosa e del giudizio» o anche, se si preferisce, «corrispondenza fra la realtà e l’intelletto»). Questo, naturalmente, oltre ad altre ragioni assai più contingenti, e se si vuole più meschine, di contrapposizione fra i due grandi ordini mendicanti, sorti quasi contemporaneamente e portati a gareggiare per attrarre a sé le nuove conversioni e per assicurarsi un ruolo centrale nella vita della Chiesa, nonostante che le rispettive finalità fossero e siano piuttosto complementari che similari, per cui, secondo l’ordine di naturale, ragioni di competizione vere e profonde non avrebbero dovuto esservi.
Sia come sia, che si preferisca Platone o Aristotele, la civiltà cristiana nella sua fase di massimo rigoglio e maturità, dopo i secoli travagliati e turbolenti dell’Alto medioevo, era giunta alla ferma convinzione che, per costruire un edificio filosofico, quale necessario sostrato di pensiero per tutte le manifestazioni della vita pratica, era indispensabile fare i conti con la civiltà pagana e in particolare con la filosofia greca, individuata come la più alta espressione speculativa mai raggiunta dall’uomo. Gli studiosi moderni, a questo punto, insistono sulla profonda differenza che esiste fra l’approccio medievale e quello umanistico ai classici antichi, e quindi anche ai filosofi greci: piuttosto pedissequo e staccato dal contesto il primo, filologicamente consapevole e agguerrito sul piano della consapevolezza storica, il secondo. Lungi da noi voler minimizzare tale osservazione, che è giusta; ma che succederebbe se la si smettesse di chiamare "medioevo" il medioevo, un termine che non significa proprio nulla, e lo si chiamasse invece, come sarebbe logico, civiltà cristiana? Allora si vedrebbe che l’umanesimo non sorge dal nulla: non è stato altro che l’evoluzione (o magari l’involuzione, a nostro parere) della civiltà cristiana verso nuove forme di coscienza e di sensibilità, che hanno reso necessarie nuove modalità e strutture di pensiero.
Scriveva F. Piccolo nel suo breve ma denso saggio L’Umanesimo, scritto con quella chiarezza espositiva che avevano così spesso gli uomini colti di qualche generazione fa, e che oggi è divenuta una dote così rara (Firenze, La Nuova Italia, 1942, pp. 68-70):
Ora, se neoplatonica, per la sua derivazione dai Padri della Chiesa, è la filosofia sino al secolo XII, la conoscenza delle opere fisiche, psicologiche, metafisiche di Aristotele, attraverso traduzioni o dall’arabo e dal’ebraico, o direttamente dal greco, estende l’importanza che il pensiero aristotelico viene ad acquisire gradualmente nelle scuole, ma non interrompe la tradizione neoplatonica la quale peraltro nel secolo XI e nel XII s’era annidata nel sistema di due interpreti arabi di Aristotele, Avicenna e Averroè, mediante due opere d’ispirazione plotiniana che andavano confuse con le aristoteliche. Nel secolo XIII l’aristotelismo domenicano, da Alberto Mago e Tommaso d’Aquino adattato alla dottrina cristiana dell’immoralità dell’anima, è combattuto dalla corrente francescana che vuol rappresentare la tradizione medioevale agostiniana e platonica e, pur accettando il procedimento razionalistico degli aristotelici, postula una facoltà intuitiva superiore alla ragione, più alta, e unica atta alla conoscenza del divino. La rivalità tra la scuola domenicana e la scuola francescana, a parte le ragioni di prestigio, muove da questo presupposto dottrinale, e di tendenza assolutamente mistica, mentre l’aristotelismo domenicano perviene alla cognizione del divino razionalisticamente, per la scuola francescana Dio è l’oggetto di una immediata apprensione intellettuale. Inoltre, alla dottrina aristotelica della conoscenza i francescani oppongono la dottrina platonica delle idee innate, e alla dottrina dell’anima come forma, come parte della sostanza corporea la dottrina dell’anima come sostanza compiuta, indipendente dal corpo. Bonaventura da Bagnorea sviluppa nelle sue opere mistiche, specialmente nel "Breviloquium" e nell’"Itinerarium mentis in Deum", l’aspetto suprarazionalistico della speculazione francescana, procedendo alla cognizione di Dio che rende simile ad esso la creatura attraverso i tre gradi, del vestigio, dell’immagine e della similitudine. Ma non è da credere che il misticismo fosse presente soltanto nella scolastica francescana: il razionalismo steso ne è pervaso, incapace di conseguire, mediante l’attività logica, il possesso di Dio che l’anima ottiene attraverso i suoi slanci, mentre il misticismo a sua volta ammette l’importanza del pensiero in quanto esso affranca la volontà dello spirito umano d’innalzarsi alla conoscenza del bene supremo.
Del dissolversi della scolastica non è qui il caso di parlare. Ma non possiamo andare oltre senza far cenno di due fatti importanti: dell’incorrere sempre più da parte del misticismo verso il panteismo dei neoplatonici, e dell’importanza che la corrente francescana attribuisce all’osservazione diretta e all’esperienza «ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’arte» come Dante si faceva dire da Beatrice; e dalla crisi che il francescano Occam apriva nel seno del realismo riaccendendo il problema del nominalismo, mentre nuovi orizzonti di cultura, languendo le polemiche scolastiche, si aprivano all’interesse degli studiosi che nel mondo classico sempre più svelato coglievamo i germi della letteratura, dell’arte, della speculazione umanistica.
La polemica quattrocentistica tra aristotelici e neoplatonici non è dunque una novità: essa s’inquadra nella tradizione filosofica europea ed italiana. Questa tradizione s’era giovata della scoperta degli antichi testi, la filosofia medievale era stata vivificata dal lavoro di traduzione e di assimilazione prodotto sia dai rapporti ci greci, sia per mezzo degli arabi. Esiste tuttavia una differenza grandissima tra la cultura filosofica del medioevo e quella schiettamente umanistica. Prima di tutto, lavorando sul materiale tramandatigli dall’antichità, e su quello che si veniva gradatamente scoprendo, e traducendo, patristica cioè e Aristotele, il medioevo era dominato dall’esigenza teologica di piegare il pensiero degli antichi ai dettami della fede e ignorava la preoccupazione filologica non diciamo della critica del testo, ma dell’interpretazione esatta del testo quale si presentava, mentre l’umanesimo alla restituzione del testo accoppia il bisogno dell’intelligenza integrale dei classici, e non solo nella lettera, ma nello spirito, e nel quadro storico del loro tempo. Inoltre, lungi dal lasciarsi dominare da presupposti dommatici, l’umanesimo aderisce, sino ai limiti delle possibilità dell’intelletto, agli ideali di vita che i classici rivelano, cosicché l’imitazione, che regola l’attività creatrice dell’arte, investe i vari rami dell’attività dello spirito che scorge il suo modello nelle forme di pensare e di agire degli antichi.
Forse non molti sanno che nelle ultime settimane del 1273, cioè alcuni mesi prima di morire (il 7 marzo 1274), san Tommaso, mentre celebrava la santa Messa, ebbe una visione celestiale e da quel momento non prese più la penna in mano, e anzi addirittura si disfece del suo materiale per scrivere. Al suo confessore ed amico Reginaldo da Piperno, suo amatissimo e fedelissimo compagno (il quale sarebbe poi riuscito, utilizzando alcune note personali, a pubblicare il Supplemento per la terza sezione della Summa Theologiae), che se ne meravigliava e gli chiedeva spiegazioni, rispose solamente: Non posso più scrivere. Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia in confronto a quello che ho visto.
Citiamo dall’articolo di Sandra Isetta Il piccolo Tommaso e l’"appetito" per i libri (su L’Osservatore Romano del 28 gennaio 2010):
Conversava con gli Apostoli, così testimonia un altro episodio. Immerso nella comprensione di un difficile passo di Isaia, restò per tre giorni digiuno e in preghiera. Cominciò quindi a dettare il suo commento con una rapidità eccezionale, mentre sembrava parlare con qualcuno: riferì che Pietro e Paolo e la Vergine gli avevano suggerito l’interpretazione di passi oscuri.
Dunque l’epiteto ["il bue muto"] indica la santità della sua parola ispirata: san Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto. Ultimato il trattato sull’eucaristia, lo depose sull’altare davanti al crocifisso per ricevere dal Signore un segno. Subito fu sollevato da terra e udì le parole: «Bene scripsisti, Thoma, de me; quam ergo mercedem accipies?» E rispose: «Non aliam nisi te, Domine».
Tale era il vero san Tommaso: un gigante del pensiero che fu anche un gigante di silenzio, umiltà e discrezione. Alcuni moderni, leggendo le sue opere, lo giudicano un razionalista freddo e impassibile: invece egli era talmente "caldo", addirittura ardente, da chiedere e ottenere l’intervento diretto di Dio, della Vergine e dei Santi per assisterlo nei passi oscuri delle Sacre Scritture ed aiutarlo a chiarire i punti più difficili della gigantesca cattedrale filosofica che andava edificando per il bene delle menti e delle anime. Egli vide in Aristotele non il pensatore freddo e razionale, ma la guida più sicura e compatibile con la visione cristiana; mentre vide e giudicò esattamente che Platone, in apparenza più vicino alla visione cristiana, perché più "spirituale", quasi mistico, e insomma quasi più teologo che filosofo, è realmente incompatibile con essa, perché tutto, nel suo pensiero, conduce verso il panteismo, mentre in quello di Aristotele il panteismo è solo una possibilità, che venne bensì sfruttata dagli interpreti arabi, ma non è strutturale all’insieme del suo pensiero, che può invece essere propedeutico, sul piano della ragione naturale, alla verità cristiana.
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