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Se la storia è teofania hegeliana, quale Dio ci salverà?

I drammatici eventi degli ultimi due anni hanno fatto sorgere in alcuni, o piuttosto hanno fatto risorgere, delle domande insolite, dal sapore antico, che parevano incongrue nella cornice culturale della modernità; e in particolare questa: che cos’è e dove va la storia? Una minoranza di persone, i cristiani, e anche questi non certo tutti, ma una minoranza di essi — dunque, una minoranza della minoranza — si sta domandando se per caso, dopotutto, la storia non stia arrivando alle ultime battute; se non stia per finire.

Ecco una domanda che non sorge facilmente in una società convinta di marciare sulle vie trionfali del progresso; ma che sorge quasi spontanea in una società decadente, dove ogni cosa sembra alludere al senso di una prossima rovina. Perché i casi sono due: o la storia è semplicemente l’insieme degli eventi umani, che spontaneamente e disordinatamente si succedono gli uni agli altri, sulla spinta di fattori sostanzialmente casuali, ad esempio una scoperta scientifica e un’applicazione tecnologica che modificano radicalmente il modo di vivere, e quindi anche di sentire e di pensare, della gente; oppure, dietro l’apparente disordine e l’apparente casualità, esiste un ordine, che bisogna saper vedere, e che risponde a un fine, dunque a un’intelligenza. Nel quale caso, non si può fare a meno di chiedersi chi sia il soggetto di tale intelligenza: immanente o trascendente? È una sorta d’istinto collettivo degli uomini, un po’ come quello che guida le api di un alveare o le formiche di un formicaio? In tal caso, la storia sarebbe il dispiegarsi della ragione umana sotto forma di anima universale, sia pure in forme che non sono interamente chiare e presenti ai singoli individui, ma che rivelano, magari sul lungo periodo, una sorta di disegno nascosto, capace di ricavare i suoi fini anche dall’apparente insensatezza o dalla contraddittorietà delle manifestazioni concrete. Hegel parlava, strizzando l’occhio a quelli che lo capivano (e noi non siamo fra quei fortunati) di un’astuzia della ragione. Buon per lui che la sapeva così lunga da innalzarsi al di sopra della ragione dei mortali e riconoscere i piccoli trucchi mediante i quali essa persegue i suoi fini. Inutile dire che il panteismo rientra in questo tipo d’interpretazione della storia, perché se Dio e il mondo sono la stessa cosa, allora anche la storia del mondo è Dio, è il suo dispiegarsi nelle umane vicende.

Se, invece, l’intelligenza che guida la storia non è immanente, ma trascendente, allora il padrone della storia è Dio: ma non un Dio che coincide col mondo, che è una cosa sola con la storia stessa, bensì un Dio trascendente, spirituale, unico e creatore: perché se è il padrone della storia, significa che l’ha creata, nell’atto stesso di creare gli uomini: per essere padroni di qualcosa bisogna che quel qualcosa sia un prodotto creato dal nulla; altrimenti non si è padroni, ma semplicemente affittuari o subaffittuari di quel certo bene. In effetti, la filosofia della storia nasce con il cristianesimo, e precisamente con La città di Dio di sant’Agostino. I greci, gli etruschi, i romani, credevano in un succedersi ciclico delle vicenda umane, e non solamente di quelle umane: ma se il mondo è soggetto a una successione fatale, inesorabile, di cicli vitali e cosmici; se vi è un perenne ritorno delle cose su se stesse, allora non c’è nulla di nuovo da aspettarsi, e in definitiva ciò dipende dal fatto di non credere al fattore decisivo della libertà umana. Se l’uomo non è libero, se è soggetto a una potenza che procede al di sopra di lui e che si serve di lui per replicare incessantemente la stessa vicenda, non ha senso chiedersi cosa sia la storia e dove vada, perché non va da nessuna parte, ritorna sempre su se stessa e non ha nulla da insegnare, né in bene, né in male. Come dice Shakespeare nel Macbeth:

Spengiti, spengiti breve candela! La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.

Una filosofia della storia ha senso laddove si crede che l’uomo sia libero e che la storia, pertanto, non sia un copione già scritto, ma nasca dal gioco della libera volontà umana; altrimenti sarebbe un vuoto esercizio retorico.

Anche da questo si vede come la cosiddetta civiltà moderna, figlia di Lutero e della scienza meccanicista, costituisce un ritorno al mondo pre-cristiano e dunque un regresso, non un progresso: essa non crede alla libertà dell’uomo, come Lutero non credeva nel libero arbitrio, anzi lo negava recisamente, per esaltare al massimo la grazia divina; oppure crede che Dio, il principio trascendente, sia sottoposto anch’egli alla necessità, non sia libero di agire liberamente, ma debba a sua volta evolvere, realizzarsi, perfezionarsi, divenire pienamente cosciente di se stesso (gnosticismo e cabalismo, dei quali l’hegelismo è addirittura saturo) e dispiegare nel mondo la propria coscienza: in tal caso, la storia è fatalmente decisa al di sopra del volere degli uomini, perché la storia, a ben guardare — Hegel parlava dello Spirito del mondo, e lo vedeva incarnato ora in Napoleone, ora nello Stato prussiano – è Dio. E se la storia è Dio, che senso ha una filosofia della storia? Bisognerà semmai concentrarsi sulla teologia della storia, che è una continua teofania. Logico: se tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale, come afferma Hegel e come pedissequamente ripete Benedetto Croce, i due massimi esponenti dell’idealismo fra Ottocento e Novecento — allora la storia non va interrogata, ma solamente adorata: la storia è quello che è, perché è: e più non domandare. Inutile dire che in tal modo si cade nella servile adorazione dell’esistente: opporsi alla storia sarebbe come volersi opporre a Dio, somma razionalità; dunque agli uomini non si domanda altro che di essere dei docili, disciplinati soldatini sul palcoscenico della storia. La storia sacralizzata e razionalizzata di Hegel è la figlia legittima della sacralizzazione della ragione operata dall’illuminismo, da un lato, e della grazia divina che fa tutto da sola, indipendentemente dal volere umano, dall’altro..

Scrive il professor Danilo Castellano, da noi già altra volta citato, filosofo del diritto, nell’introduzione a un interessante saggio dedicato a una questione di grande attualità, La guerra russo-ucraina: qualche riflessione (sul periodico cattolico Instaurare omnia in Christo, Udine, gennaio-aprile 2022, pp. 1 e 5):

Il progresso scientifico-tecnologico (…) se non è accompagnato dal progresso morale può risultare dannoso per l’uomo. Esso è veramente utile solamente se è guidato da criteri veramente umani. Ciò, però, presupporrebbe un approccio alla storia molto diverso da quello gnostico di Hegel, il quale riteneva erroneamente che l’effettività rosse la razionalità e che, quindi, il male fosse un falso problema. Un filosofo italiano, Benedetto Croce, sostenne, infatti, che il merito di Hegel è stato quello avere eliminato questo problema: la stria sarebbe il dispiegarsi di Dio, la sua teofania. La stria, perciò, sarebbe tutta sacra: dal fratricidio di Abele in avanti tutto segnerebbe un progresso e, soprattutto, tutto il divenire sarebbe divino. Massacri, guerre, ingiustizie di ogni genere, violenze e via dicendo sarebbero categorie irrazionali: esse sarebbero usate impropriamente; talvolta in senso consolatorio, talvolta in senso ideologico. Esse sarebbero di ostacolo alla comprensione della ragione della storia. Chi le usasse non avrebbe, insomma, capito che al divenire della storia non ci si può opporre. Operare per scongiurare o per mettere fine alla guerra, per esempio, sarebbe una posizione antistorica. Pregare o indire giornate di penitenza e di digiuno, ancora per esempio, per la pace, sarebbe segno di un’illusione, poiché al Dio che si fa storia non si può rivolgere una preghiera contraria alla sua "necessitata" (anche se libera nella sua affermazione) volontà e alla sua epifania. Hegel, che è il san Tommaso del luteranesimo, non poteva che "pensare" così. Il suo giudizio sulla guerra è, infatti, la coerente applicazione del nominalismo di Lutero, che oggi anche diversi cattolici (senza approfondire la sua dottrina) considerano un riformista santo. (…)

La "libertà negativa", magistralmente teorizzata e coerentemente difesa da Hegel, porta al nichilismo teoretico e alla dittatura del relativismo morale. Essa è rivendicazione disumana e anticristiana: la libertà è un valore ma non il valore supremo. Il Vangelo insegna che è la verità che rende liberi, non la liberà esercitata con il solo criterio della libertà (cioè con nessun criterio. La denuncia di Dugin contro l’anti-civiltà della Modernità (occidentale) ha un fondamento. La prova è offerta dall’esperienza che stiamo vivendo. Sono i fatti, pertanto, che evidenziano la dissoluzione della civiltà le cui radici vanno cercate nel nichilismo luterano che sta alla base dell’americanismo.

La riflessione del professor Castellano è chiara, lineare, conseguente: ci sentiamo di sottoscriverla in pieno. Arguta e felice la definizione di Hegel come il san Tommaso del luteranesimo: in Hegel come in Lutero vi è lo stesso sprezzo per la libertà del singolo individuo, lo stesso senso di fatale necessità della storia, per cui quest’ultima non è che il manifestarsi di ciò a cui Dio, che alla fine dei conti è una cosa sola con il mondo, ha destinato gli uomini. Opporsi ai piani della storia è sacrilego, perché la storia è tutta sacra, tutta, senza residuo alcuno: è la teofania, l’incessante manifestazione di Dio. Anche Auschwitz, anche Hiroshima, tutta sacra senza eccezioni. E Dio non sa che farsene dei desideri e dei capricci dei singoli uomini: Dio pensa solamente in grande, non ha tempo per fisime e quisquilie come il libero arbitrio. Del resto, il libero arbitrio sarebbe in se stesso un atto di lesa maestà: sarebbe un’interferenza umana nei progetti divini. Solo un testone professore tedesco, per giunta luterano e illuminista, poteva arrivare al punto di dire che lo Spirito del mondo, cioè Dio stesso, si manifesta nello Stato prussiano.

In questo senso, sì, bisogna avere il coraggio di ammettere, anche se è politicamente molto scorretto, che i tedeschi non sono arrivati a credere ciecamente in Hitler per una disgraziata fatalità: certe premesse conducono fatalmente a certi risultati. Le idee non sono acqua fresca, non sono un mero epifenomeno dell’economia, come voleva quell’altra testa quadra di Marx: sono l’anima della storia. E se un intero popolo — s’intende con le debite eccezioni: il libero arbitrio, appunto — s’innamora di certe idee, è pressoché inevitabile che a un certo punto resti folgorato da un qualsiasi pifferaio magico che sembra incarnare quelle idee, e lo segua disciplinatamente senza far domande, fosse pure verso l’abisso. Del resto, in quasi tutti i filosofi tedeschi del XIX e XX secolo è presente lo stesso sottofondo concettuale: non ci si può opporre al destino, e la storia è un destino, quindi una necessità inesorabile e immodificabile; si può solo cogliere il momento giusto per inserirsi nel gioco del destino e farsene strumento, ritagliandosi così il ruolo di protagonisti, oppure rassegnarsi all’insignificanza. Questa, in estrema sintesi, è la filosofia della storia di Oswald Spengler, con tutta la sua teoria del cesarismo, che in parte è derivata dal nostro Machiavelli. Sommate Lutero, Hegel e Machiavelli e avrete Spengler. Da Lutero il senso della nullità dell’uomo; da Hegel la fatalità della storia; da Machiavelli l’astuzia di saper cogliere le condizioni favorevoli per sferrare il colpo: un cocktail esplosivo. E sulla sfondo, uno sfondo più cupo che mai, l’incombere del destino, che contempla la sconfitta e la morte di Dio stesso: si pensi al Crepuscolo degli dei (Göttendammerung) della mitologia germanica e dell’opera musicale di Richard Wagner, che tanto è piaciuta al pubblico tedesco in quella fase storica.

È strano che i cristiani se ne siano dimenticati: avrebbero sempre dovuto sapere che la storia ha un disegno ed un senso, per il semplice fatto che ha un fine; ed è lo stesso fine per cui esiste l’uomo: conoscere, amare e servire la Verità, che è Dio. O forse non è poi così strano, da quando i cristiani — prima con Lutero e Calvino, poi con la nuova teologia e il Vaticano I — sono diventati "adulti", vale a dire moderni. La modernità, come osserva giustamente Danilo Castellano, si fonda sul nichilismo teoretico e sul relativismo morale: è quindi in se stessa radicalmente disumana e anticristiana: perché solo il cristianesimo ha una visione umana dell’uomo. Questa è la grande e perenne verità che la cultura moderna, con malizia infernale, ha cercato costantemente di occultare, e in buona sostanza ci è riuscita. Essa ha detto e ripetuto mille volte (e una menzogna ripetuta all’infinito diviene verità) che il cristianesimo nega i diritti dell’uomo e reprime la sua libertà; e lo ha fatto per introdurre politiche e stili di vita disumani e disumanizzanti, i quali — loro sì — negano la vera libertà dell’uomo in nome del progresso e reprimono il suo bisogno naturale del vero per asservirlo e renderlo un fantoccio sradicato e senz’anima, prono a qualsiasi potere. È questo il paradigma che va rovesciato: solo se è illuminata dalla grazia la ragione sa vedere il vero e la volontà sa volere il bene.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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