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Chiarezza di veri filosofi, oscurità di pseudofilosofi

Quando il pensiero è chiaro, anche l’espressione del pensiero è chiara; un’espressione confusa tradisce un pensiero confuso. I grandi filosofi, i veri filosofi, pensano sempre in modo chiaro: chiaro e al tempo stesso profondo — le due cose non si escludono affatto, al contrario di quel che sarebbe portato a pensare il pubblico.

Hegel, per esempio, come pure Fichte, è un campione d’incomprensibilità: il suo pensiero è arduo, sconnesso, avvolto in mille veli e in mille fumi — pare che egli stesso riconoscesse talvolta di non saper più spiegare perché avesse scritto una certa cosa. E oltre ad essere oscuro, il pensiero dei filosofi mediocri e degli pseudo-filosofi è anche, quasi sempre, talmente soggettivo da sconfinare nell’autocompiacimento e nel narcisismo più sfrenati. Sempre Hegel è convinto che tutta la parabola della filosofia culmini nella sua filosofia: che il proprio pensiero, cioè, sia il vertice insuperabile del pensiero d’ogni tempo, o meglio, come dice lui stesso, il vertice dello spirito universale.

Nella Enciclopedia delle scienze filosofiche, par. 13, egli se ne esce a dire colla massima tranquillità di questo mondo (cit. in: Nicola-Abbagnano-Giovanni Fornero, Il nuovo Protagonisti e testi della Filosofia, vol. 2 B, Dall’Illuminismo a Hegel, Paravia, 2007, p. 907):

La filosofia, che è ultima nel tempo, è insieme un risultato di tutte le precedenti e deve contener ei principi di tutte: essa è perciò — bene inteso se è davvero una filosofia — la più sviluppata, ricca e concreta.

E se per caso qualcuno nutrisse ancora dei dubbi su ciò che egli intende con l’espressione bene inteso, se è davvero una filosofia, che potrebbe sembrare neutra, benché alquanto criptica, si veda cosa afferma nelle Lezioni sulla storia della filosofia (idem):

L’attuale punto di vista della filosofia è che l’idea sia conosciuta nella sua necessità. […] A questo punto è pervenuto lo spirito universale, e ogni stadio ha, nel vero sistema della filosofia, la sua forma specifica. Niente si perde, tutti i principi si conservano; la filosofia ultima è difatti la totalità delle forme. Quest’idea concreta è la conclusione dei conati dello spirito, in quasi due millenni e mezzo di lavoro serissimo, per diventare oggettivo a se stesso, per conoscersi.

Che tutto il reale sia idea, e che l’idea sia l’attuazione dello spirito universale, e che ogni stadio del pensiero abbia una forma specifica — Dio solo sa cosa egli intenda con quest’ultima espressione — destinata a essere riassunta e ricapitolata nel pensiero finale, quello di Hegel, che sintetizza e attua "la totalità delle forme" (come Cristo, per san Paolo, ricapitola in se stesso l’intera storia dell’uomo, Efesini, 1, 10): tutto questo, e anche paragonare i duemilacinquecento anni di storia della filosofia a dei "conati" che in lui, Hegel, trovano l’inveramento trionfale di tutti i loro principi, il Nostro non si dà la pena di dimostrarlo, ma semplicemente lo "pone", come è solito fare quale suo metodo prediletto. E si dà vanto da se stesso di avere riassunto e portato al culmine il pensiero di tutti i tempi, senza permettere che nulla vada perduto, ma inverando tutto, grazie alla suprema auto-conoscenza del pensiero che lui, Hegel, modestamente attua in se stesso, permettendo a ogni forma precedente di riconoscersi. Ciò potrebbe sembrare il delirio di un pazzo, e invece è il soliloquio di uno dei pensatori più ammirati e apprezzati della modernità: ammirato e apprezzato appunto per il suo illimitato sincretismo che tutto assorbe, tutto assimila e nulla disperde, "oltrepassando", come egli è solito dire, le contraddizioni del reale in una sintesi superiore, che accoglie e rielabora sia la tesi che l’antitesi. Un modo di pensare tipicamente gnostico e cabalistico, secondo il quale Dio non è colui che è, ma è colui che diviene, e diviene grazie ad una crescente auto-consapevolezza; in altre parole, in virtù dell’idea di Hegel che Dio, alla fine dei conti, se proprio vogliamo dargli un nome, si chiama Hegel, se essere dio vuol dire aver capito tutto, aver riconosciuto tutto e non aver gettato via alcunché.

La furbizia di Hegel e degli hegeliani, peraltro, consiste nell’aver negato quei presupposti del pensiero che poi, specialmente sotto forma della categoria del "passaggio" e del "superamento", affiorano continuamente nel pensiero hegeliano, ma come se venissero fuori da sé, spontaneamente, senza che alcuno si dia la pena di spiegarli e tanto meno di riconoscerli per ciò che sono, cioè dei presupposti: e questo per l’orgoglio di far vedere che la filosofia di Hegel non deve nulla ad alcuno, tranne il fatto che essa ricapitola ogni forma del pensiero precedente e la porta al livello della piena consapevolezza di se stessa, cosa che evidentemente era sfuggita ai filosofi del passato. Come osserva ottimamente Søren Kierkegaard, con la sua penetrante e inconfondibile ironia, ne Il concetto dell’angoscia (da: Kierkegaard, Opere, a cura di Cornelio Fabro, Firenze, Sansoni Editore, 1993, p. 151-152):

Una categoria di cui si fa continuamente uso nella filosofia moderna, tanto nelle ricerche logiche quanto in quelle storico-filosofiche, è la categoria di "passaggio". Però una spiegazione più precisa non si trova mai. Tutti ne fanno un grand’uso, e mentre Hegel e la scuola hegeliana hanno strabiliato il mondo col grande pensiero che la filosofia debba cominciare senza presupposti, o che niente debba precedere la filosofia se non l’assenza assoluta di tutti i presupposti, non si ha poi nessuno scrupolo di servirsi della categoria del "passaggio", della "negazione", della "mediazione", cioè dei principi di moto nel sistema hegeliano, senza che essi nello stesso tempo trovino il loro posto nello sviluppo dl sistema. Se questo non è un presupposto, io non so più che cosa sia un presupposto; infatti, far uso di una cosa che non si spiega mai, si dice precisamente presupporre. Il sistema dovrebbe avere una tal meravigliosa trasparenza e intuibilità che, non diversamente dagli omfalopsichiti, a furia di contemplare immobili il niente centrale di se stesso, dovrebbe arrivare al punto di veder tutto spiegarsi e tutto il suo contenuto nascere da sé. Questa manifestazione rivolta all’interno dovrebbe costituire l’essenza del sistema. Però le cose non vanno così e il pensiero sistematico sembra avvolgere del più profondo mistero suoi movimenti più intimi. La negazione, il passaggio, la mediazione sono tre agenti ("agentia") mascherati, sospetti, segreti, che causano tutti i movimenti. Lo Hegel non li chiamerebbe certamente mai teste irrequiete, poiché è stato con il suo alto permesso ch’essi fanno il loro gioco e con tale disinvoltura nella logica si usano perfino espressioni e frasi dal carattere temporale del passaggio: "poi", "quando", "in quanto è, questo è così", "in quanto diviene è così" ecc.

Ma lasciamo Hegel e gli hegeliani di ieri e di oggi a contemplare, immobili e soddisfatti, il proprio ombelico, scambiando tale contemplazione per l’osservazione e il riconoscimento del reale universale; lasciamoli ai loro giochi di prestigio linguistici, ai loro "passaggi", "superamenti" e "mediazioni dialettiche", che dovrebbero spiegare tutto, mentre essi non si danno mai la briga di spiegarli in se stessi. Lasciamo questi tristi luoghi della (pseudo) filosofia moderna e torniamo a quei sistemi speculativi i quali, sì, si presentano trasparenti e tersi, tali che ogni parte rinvia alla comprensione delle altre, senza lacune, senza salti, senza aporie d’alcun genere, perché tutto, ogni pensiero, ogni concetto, ogni frase, sono puliti e levigati fino a renderli perfettamente lisci e combacianti con gli altri, come le pietre d’una immensa e armoniosa cattedrale, che slancia le sue volte verso il cielo di cui è simbolo, e che è stata edificata per sfidare i secoli, i terremoti, le guerre ed ogni altro genere di calamità terrena.

Stiamo parlando, in primo luogo, del sistema aristotelico, poi di quello tomista: sistemi che non danno per scontato che a fondamento di tutto è l’Idea, ma che si confrontano vigorosamente con la realtà, non a parole, come l’hegelismo, ma nella concretezza della vita; e che adeguano meravigliosamente il giudizio alle cose, senza mai pretendere che le cose si debbano adeguare alla mente e al giudizio, come è divenuto di moda a partire da un altro sistema tanto pazzesco quanto auto-referenziale, quello kantiano, cui va il merito, se così lo si vuol chiamare, di aver stabilito l’agnosticismo per legge, mediante il tribunale della ragione da lui espressamente istituito (cfr. il nostro articolo: Se per Kant la ragione è un tribunale, chi è il boia?, pubblicato sul sito della Accademia Nuova Italia il 17/05/22).

Prendiamo, a titolo d’esempio — ma anche perché è una gran bella pagina di filosofia pura — quel luogo di san Tommaso d’Aquino ove si definisce l’essere come la massima perfezione consentita ad un ente (De potentia, q. 7, a. 2; cit. in: Abbagnano-Fornero, Protagonisti e testi della Filosofia, 1999, Paravia, vol. A, tomo 2, p. 633):

Ciò che chiamo essere è la massima perfezione. La cosa appare chiara considerando che l’atto è sempre più perfetto della potenza. Orbene una qualsiasi forma non la si intende in atto se non in quanto vien posto l’essere. Così la forma uomo o la forma fuoco può essere considerata esistente nella potenzialità della materia, oppure nella capacità operativa della causa, oppure anche nell’intelletto: ma essa diviene esistente in atto solo per il fatto che ha l’essere. È quindi chiaro che ciò che chiamo essere è l’attualità di ogni atto e perciò stesso la perfezione di tutte le perfezioni.

Non si deve pensare che a ciò che dico essere si possa aggiungere qualcosa di più formale, che lo determini come fa l’atto con la potenza: l’essere così inteso, infatti, è essenzialmente diverso da ciò cui si aggiunge una determinazione. Nulla infatti può aggiungersi all’essere che gli sia estraneo, dato che all’essere è estraneo solo il non essere, che non può essere né forma né materia. L’essere non viene quindi determinato da qualcos’altro da sé, come avviene per la potenza che è determinata dall’atto, bensì come l’atto che è determinato dalla potenza. Infatti anche nella definizione delle forme ci si riferisce alla loro materia per determinarne la differenza, come quando si dice che l’anima è l’atto di un corpo fisico organico. Allo stesso modo questo essere si distingue da quell’altro essere in quanto è l’essere di questa o quella natura.

Per questo Dionigi ("De Div. Nom. 5) afferma che benché i viventi siano più perfetti degli esistenti, tuttavia l’essere è più perfetto che il vivere: i viventi non hanno solo la vita ma con la vita anche l’essere.

Altro che "superamento", "passaggio" e "mediazione"; altro che autoconoscenza dello spirito e oggettivizzazione del pensiero, dove ogni singolo concetto andrebbe spiegato, mentre Hegel li adopera per spiegare tutto, ma senza spiegarli mai: qui tutto è chiarezza, lucidità, luminosa evidenza e armonia del pensiero. I pensieri si sostengono a vicenda, con meravigliosa sobrietà ed efficacia, come in una dimostrazione geometrica: nulla è sovrabbondante e inutilmente ripetitivo, ma nulla è dato per scontato, senza ricevere un’adeguata spiegazione. Leggere una pagina di san Tommaso d’Aquino è anche un piacere dello spirito, come lo è ascoltare un concerto di Johann Sebastian Bach: tutto è armonia, simmetria, vorremmo dire contrappunto. E invece quanto è faticoso, quanto è ingrato leggere Kant, o Hegel, o Heidegger, i cosiddetti maestri del pensiero moderno, senza contare la turba innumerevole dei loro seguaci! Si fatica terribilmente ad andare avanti ad ogni pagina, ad ogni frase; si ha il fiato grosso, il piede rischia ad ogni passo di scivolare oltre il ripido e malagevole sentiero; i conti non tornano: si ha l’impressione d’una colossale forzatura, una colossale bolla d’aria sempre sul punto di scoppiare. Eppure bisogna far finta che sia tutto a posto: l’hanno detto e ripetuto centinaia di professori, dall’alto delle loro cattedre; e gli studenti, intimidititi e pieni di timore reverenziale, si son fatti l’idea che quei sistemi sono semplicemente meravigliosi, sono perfetti, sono quanto di più sublime sia mai scaturito dallo sforzo speculativo della mente umana, in tutti i secoli della storia della filosofia.

Lasciamo che i morti seppelliscano i morti e che il pensiero oscuro, confuso, delirante, si seppellisca da se stesso, e seppellisca con sé tutti i suoi seguaci, discepoli e ammiratori. Noi non ne abbiamo bisogno, perché non ci piace nutrirci di cadaveri. Noi abbiamo bisogno di un pensiero puro, limpido, pulito; di un pensiero razionale ma anche ragionevole e umano, non razionale di una razionalità puramente strumentale, che rende accettabile la follia e ci familiarizza con l’assurdo di un mondo capovolto. Per vedere il modo com’è — una mela è una mela — ci serve un pensiero vivo…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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