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Europa 1940/45: la resa dei conti che non si può dire

C’è qualcosa che non torna nella narrazione corrente sulla Repubblica di Vichy, e più in generale sui Paesi europei alleati od occupati dalle forze dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale; qualcosa che riguarda da un lato il grado di consenso popolare che ebbero quei governi, che poi furono spregiativamente chiamati "collaborazionisti" dagli storici e dai politici della vulgata resistenziale/antifascista; dall’altro il carattere di conflittualità interna che li caratterizzò, non tanto quale effetto dell’occupazione, quanto (e lo si vide specialmente in Jugoslavia) per il venire al pettine dei mille nodi irrisolti creati dai trattati di Versailles, non solo nei rapporti fra gli stati, ma anche all’interno di essi.

Ora, se si fa astrazione (non è cosa facile, specie dopo decenni d’indottrinamento ideologico) dal fatto dell’occupazione militare o della sudditanza politica, che in se stesse, come è sempre stato da che mondo è mondo, sono mal tollerate per il fatto stesso di essere straniere, a prescindere da ogni altro fattore, e ci si concentra sull’aspetto interno, chiedendosi ad esempio come mai l’Asse trovò dei pronti e volonterosi collaboratori in ogni angolo del continente, dalla Norvegia (come Quisling, il quale fu persino troppo pronto e volonteroso per i gusti degli stessi tedeschi), all’Olanda, al Belgio, alla Slovacchia, alla Romania, alla Croazia, alla Bosnia, all’Ucraina, alla Crimea, e infine alla Francia stessa, si arriva alla conclusione, se si è intellettualmente onesti, che le nazioni dell’intero continente erano travagliate da una guerra civile latente fra due schieramenti fondamentali, fatte salve ulteriori differenze più che altro a carattere locale: un fronte rivoluzionario e un fronte conservatore. Attenzione: né il comunismo, né il fascismo e neppure lo stesso nazismo rientrano in queste categorie, che sono quelle reali: in un certo senso sia il consumismo, sia il fascismo, e, in misura minore, il nazismo (che comunque è cosa diversissima dal fascismo) sono stati, a un certo punto, dei "catalizzatori", ossia hanno convogliato al proprio interno persone di estrazione diversa e ideologie che esistevano da prima. Per esempio, i socialisti rivoluzionari, in Russia, sono stati inglobati dai bolscevichi, facendo leva sui socialisti rivoluzionari di sinistra, i quali fin dall’inizio accettarono di collaborare con Lenin; mentre i nazionalisti italiani, a un certo punto, scelsero la via dell’unione col fascismo, ed esponenti di spicco del nazionalismo, come Federzoni, ricoprirono alte cariche nello Stato fascistizzato.

Questo, per quanto riguarda persone e movimenti in senso strettamente politico; ma se parliamo dell’orientamento generale di gruppi e di masse, determinato da valori e sentimenti più che da precisi ragionamenti di ordine ideologico, e in particolare dall’attaccamento ai valori tradizionali, in primis la religione cristiana cattolica, vediamo che essi, negli anni in cui l’Asse dominava l’Europa, più che identificarsi con questo o quel credo politico, cercavano, quasi istintivamente, il sostegno di quelle forze — anche straniere, e certo non amate per se stesse, semmai viste in senso strumentale — le quali avrebbero potuto proteggerli da ciò che identificavano come il vero nemico, e che oggi chiameremmo la globalizzazione: ossia la cultura apolide, l’ostilità al cristianesimo, la grande finanza divoratrice del lavoro e del risparmio, in gran parte dominata da banchieri ebrei, e il comunismo ateo, percepito come una maschera di quelle stesse forze antitradizionali, anticristiane e nemiche della famiglia e della morale, così come quest’ultima si era definita nel corso dei secoli precedenti.

Non si capiranno mai movimenti come il rexismo in Belgio, o come la Guardia di Ferro in Romania, se non li si inquadra in questa prospettiva; e si pretende di equipararli, sic et simplciter, al "fascismo" (o, peggio, a un fantomatico "nazifascismo"), ossia finché non si comincia a tener contro delle circostanze concrete e delle preoccupazioni reali e sentite da larghe masse dei popoli europei, i quali vedevano minacciato tutto il loro sistema di vita (anche a livello economico) e i loro punti di riferimento etici da una omologazione culturale che si era apertamente mostrata dopo la Prima guerra mondiale, con la dissoluzione (voluta dalla massoneria) dei quattro imperi "conservatori", il germanico, l’austro-ungarico, il russo e l’ottomano, e con l’irruzione da sulla scena, da un lato del bolscevismo, dall’altro dello stile di vita "americano", consumista e materialista, incentrato sul culto del denaro e perciò lontanissimo, e anzi incompatibile, con tutti i sani valori della civiltà europea.

Per fare degli esempi concreti: non è che monsignor Tiso, il presidente slovacco, amasse Hitler, o che Pétain avesse una speciale simpatia per i tedeschi, o che Salazar o lo stesso Francisco Franco godessero all’idea d’infeudarsi alle potenze dell’Asse; piuttosto, il fatto è che Tiso, Pétain, Salazar e Franco rappresentavano, per i rispettivi popoli, la ricerca di una "terza via" che rifiutasse sia il comunismo sovietico, sia il capitalismo apolide che aveva provocato la crisi disastrosa del 1929. Invece i nostri storici e i nostri programmi scolastici continuano, a quasi un secolo di distanza, a raccontarci la favola che, nell’Europa fra le due guerre, e poi durante la Seconda guerra mondiale, esisteva solo l’alternativa secca fra le "democrazie" (con lo stranissimo alleato comunista) e le dittature "nazifasciste": il che è un falso storico e corrisponde ad una inaccettabile semplificazione del quadro politico, economico, culturale e spirituale. Monsignor Tiso, per esempio, aveva cercato di dare una risposta ai bisogni naturali del suo popolo: l’indipendenza da quella creazione artificiale di Versailes che era la Repubblica cecoslovacca e la difesa della classe media locale dall’invadenza della finanza ebraica. Non era per niente un programma "nazista" e neppure fascista: era un programma che somigliava, mutatis mutandis, a quello degli uomini di Vichy in Francia. In breve, era la reazione difensiva, pressoché istintiva, dei popoli e delle classi medie contro i due mostri della globalizzazione: comunismo e capitalismo di rapina (cfr. il nostro articolo: Perché l’Europa dell’Asse non sopravvisse alla sconfitta del 1945?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 09/12/08 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 12/12/17).

A proposito del caso francese, scrive il saggista americano Herbert R. Lottman (Brooklyn, 1927-Parigi, 2014), corrispondente a Parigi per il Publisher Weekley, autore di una quindicina di volumi dedicati a personaggi francesi, fra i quali Albert Camus, nella sua biografia Pétain. Eroe o traditore? (titolo originale: Pétain, Editions du Seuil, 1984; traduzione di Erica Joy Mannucci, Milano, Frassinelli, 1985, pp. 21-22 e 172-173):

Nel settembre 1899, quando ormai quasi tutte le prove originarie contro Dreyfus erano state dimostrate false, l’esercito lo condannò lo stesso una seconda volta con le stesse accuse e venne salvato solo dal perdono presidenziale. Le elezioni nazionali del 1902 portarono al governo i moderati. Allora il generale André, ministro della Guerra sotto il presidente Emile Combes, riaprì la pratica di Dreyfus per esaminare le falsificazioni e la distruzione delle prove, dando il via a una revisione giudiziaria che si concluse solo nel 1906 con la riabilitazione definitiva di Dreyfus per decisione della corte d’appello.

L’epurazione dei "duri" dall’esercito fu invece compromessa nel 1904 dall’"affare delle schede". In quell’anno un deputato, Jean Guyot de Villeneuve, che si era dimesso dall’esercito in seguito ad alcune sanzioni che aveva subito per le sue dichiarazioni anti-dreyfusiane, denunciò la prassi della compilazione di elenchi di ufficiali notoriamente credenti o con tendenze antidemocratiche,. Descrisse il sistema di schedatura seguito nell’ufficio del ministro della Guerra André, con la supervisione di Percin, e su informazioni fornite dal Grande Oriente massonico. Non servì che il ministro André spiegasse di fronte a quello stesso pubblico che la schedatura veniva usata per eliminare l’intolleranza e i sentimenti antirepubblicani che aveva scoperto nell’esercito; ormai l’opposizione aveva in mano una grande arma contro il governo liberale di Combes. Il morale dell’esercito ne risultò scosso; gli ufficiali si schierarono in due fronti. I massoni erano sempre stati un bersaglio dei cattolici militanti, che gli attribuivano la rivoluzione del 1789 e ogni altro avvenimento democratico successivo: la caduta di Napoleone III, la debolezza della Francia di fronte ai prussiani, il governo parlamentare, la Terza repubblica e la difesa di Dreyfus; e ora venivano fuori le schede.

Pétain era stato vittima della schedatura? Negli anni di Vichy un giornalista sostenne che Jean Bidegain, un membro del Grande Oriente la cui defezione aveva scatenati l’affare delle schedature, gli aveva detto di possedere la scheda di Pétain. «È molto singolare e farebbe chiasso», è tutto quello che si spinse a dire. Dopo la seconda guerra mondiale una delle persone coinvolte nella purga antimassonica di Vichy, Bernard Faÿ, dichiarò al proprio processo che Pétain gi aveva dato l’incarico contro i massoni «perché questo vecchio soldato aveva ancora in mente l’affare delle schedature». (…)

«Un ebreo — Du Moulin cita il suo maresciallo [Pétain] non è mai responsabile delle sue origini; massoni si diventa per scelta». Della intensa diffidenza che Pétain provava da sempre dei massoni si è già detto; le sue convinzioni in proposito erano condivise da molti francesi di destra, in particolare dai seguaci dell’Action Française. L’idea che la Terza repubblica fosse stata nefasta, che avesse avuto la responsabilità del declino e poi della caduta francese, e che i massoni fossero i segreti dirigenti di questa Terza repubblica, domina la propaganda di Vichy e i discorsi del maresciallo. «Politica e massoneria […] sono una cosa sola» disse Pétain a un visitatore; «insieme ci hanno fatti cadere».

Un decreto datato13 agosto 1940 mise fuori legge le società segrete e ne confiscò i beni. I dipendenti statali furono obbligati a dichiarare sotto giuramento che non avevano mai fatto parte, o che non facevano più parte della massoneria (e a promettere di non entrarvi mai). Un altro decreto stabilì addirittura che si pubblicassero i nomi dei massoni sul "Journal Officiel", mentre il divieto di ricoprire incarichi pubblici già applicato agli ebrei venne esteso ai massoni. Il segretario personale di Pétain dice che nel 1940 in Francia c’erano centomila massoni, quarantamila dei quali pagavano quote

Si ritiene che l’autore dei decreti antimassonici fosse Raphaël Alibert. E il loro teorico fu certamente Bernard Faÿ, responsabile di un ambizioso programma di propaganda pagata dallo stato, che prevdeva il mantenimento di una biblioteca e di un museo, lì’organizzazione di mostre itineranti, la pubblicazione di periodici. Faÿ dirigeva il Servizio società segrete, che pubblicava il mensile "Les Documents Maçonniques". In questa rivista, parlando della sua crociata personale contro i massoni, cominciata vent’anni prima, raccontò un colloquio con il capo dello Stato. Faÿ dice che quando descrisse a Pétain le difficoltà legate alla continuazione della guerra contro i massoni il maresciallo replicò: «Non si deve esitare. La massoneria è la causa principale della nostra sventura; ha mentito ai francesi e gli ha dato l’abitudine a mentire. E sono le menzogne, e l’abitudine a mentire, che ci hanno portato dove siamo adesso». Non si dovevano diminuire gli sforzi, disse Pétain a Faÿ, ma intensificarli, «senza mai stancarsi».

A quanto pare, l’Autore non trova particolarmente rilevante il fatto che nel 1904 l’esercito francese schedasse gli ufficiali che erano cattolici praticanti insieme a quelli considerati antidemocratici (il che è fuorviante perché la Francia dei primi anni del XX secolo era una democrazia più esibita che effettiva), evidentemente equiparandoli nello steso calderone; e il fatto che i materiali per la schedatura venissero forniti gentilmente dal Grande Oriente di Francia non è che un dettaglio secondario, una cosa di poco o nessun conto. Strano. Da un lato egli sottintende che il pericolo, per le istituzioni repubblicane, veniva proprio dal cattolicesimo "di destra", dall’altro ammette che, se esisteva un sistema di controllo preventivo che faceva carta straccia dei diritti costituzionali dei cittadini, in questo caso degli ufficiali, insomma un sistema antidemocratico per eccellenza, esso era proprio quello creato dai governi progressisti, laicisti e anticlericali della Terza repubblica, con la collaborazione diretta della massoneria.

Anzi, si sarebbe portati a credere che, se il ministero della Guerra chiedeva e otteneva la collaborazione del Grande Oriente, è perché quest’ultimo godeva, sia nel governo che nell’esercito, di eccellenti entrature: diversamente si stenta a capire come possa essere nata ed essersi fattivamente sviluppata una simile alleanza fra una società segreta e gli apparati burocratici dello stato che, in teoria, dovrebbero essere al di sopra delle parti, e mai e poi mai schedare dei cittadini con l’aiuto di altri cittadini, appartenenti a quella società segreta che vede in essi dei nemici irriducibili. A questo punto, è davvero esagerato parlare di sistema democratico-plutocratico-massonico? Era solo propaganda quella che, quaranta anni dopo, all’ombra del governo di Vichy, denunciava l’asservimento della politica alle logge massoniche e la subordinazione dell’interesse nazionale ai privati interessi finanziari dei frammassoni e dei loro inseparabili alleati, i grandi banchieri ebrei come i Rotschild? Oppure i fatti, nella loro nuda realtà, mostrano che quasi mezzo secolo prima di Vichy tale infeudamento dello stato alle logge e alle banche era già ben avviato e strutturato?

Quando poi Lottman osserva, con tono di deplorazione, come non servì che il ministro André spiegasse di fronte a quello stesso pubblico che la schedatura veniva usata per eliminare l’intolleranza e i sentimenti antirepubblicani che aveva scoperto nell’esercito, perché ormai l’affare della schedatura aveva provocato uno scandalo, gioca a fare l’ingenuo su una faccenda che era oggettivamente gravissima. Dunque: per eliminare l’intolleranza e i sentimenti anti-repubblicani, da lui "scoperti" nell’esercito (ma dove era vissuto fino a quel momento, il ministro André? sul pianeta Marte?) il ministro della guerra poteva ritenersi moralmente e legalmente giustificato nello schedare segretamente gli ufficiali potenzialmente sospettabili di tali sentimenti, e per giunta a farsi fornire i dossier da quella società segreta che, a sua volta, li aveva schedati perché li riteneva nemici da neutralizzare alla prima occasione? E tutto ciò viene presentato come un atto legittimo, giustificato, appunto, da quei sentimenti d’intolleranza e di ostilità verso il sistema repubblicano, che l’affare Dreyfus aveva svelato!

Osserviamo una cosa soltanto: che tutti gli uomini di Vichy che si distinsero nella campagna antimassonica, non solo sul terreno politico e istituzionale, ma anche solamente sul terreno culturale, fecero una brutta fine: come se da ultimo quelle schedature fossero sfociate nella condanna a morte, definitiva rivincita della massoneria giunta a insediarsi incontrastata ai vertici delle strutture statali. Per esempio, abbiamo già narrato come l’ex massone Paul Richet, nome d’arte Jean Mamy, dopo aver girato nel 1943 il film Forces occultes, che rivelava i segreti della massoneria, a "liberazione" avvenuta venne condannato a morte e giustiziato nel 1949; e la mano della "giustizia" si abbatté pesante anche sullo sceneggiatore e su tutti quanti avevano collaborato a realizzare quel mediometraggio (cfr. l’articolo Quelle forze occulte che non si devono nominare, pubblicato sul dito dell’Accademia Nuova Italia il 20/06/20). Quanto ai politici, è noto che Pierre Laval venne fucilato nel 1945 (lo portarono davanti al plotone d’esecuzione in condizioni precarie, perché qualche ora prima aveva tentato di avvelenarsi); Philippe Pétain venne anch’egli condannato a morte, ma graziato per ragioni di età (aveva quasi novant’anni) e per i meriti conseguiti nella Prima guerra mondiale, e condannato alla prigionia a vita; mentre Raphaël Alibert, cattolico fervente e principale ispiratore di quella politica, fu condannato a morte in contumacia e sfuggì al capestro o alla ghigliottina solo rifugiandosi in Belgio, per ottenere poi l’amnistia nel 1959 e spegnersi pochi anno dopo, per malattia, nel 1963. In tutti questi casi, e in molti altri, compreso quello di Drieu La Rochelle, la domanda è: si volle far pagare a questi uomini "solo" la collaborazione con i tedeschi, oppure anche la loro politica e le loro idee antimassoniche e, in parte, antisemite?

Insomma: è nel 1945 che la massoneria si prese la rivincita e fece le sue vendette, dopo aver corso il pericolo, per l’ultima vola nella storia, di vedersi estromessa dalle istituzioni statali e di perdere la propria influenza ideologica sulle masse, a causa di una rimonta vittoriosa del cattolicesimo? Se consideriamo la storia di questi ultimi ottanta anni, non solo della Francia, ma di tutti i Pesi che ora formano l’Unione Europea, e osserviamo come la massoneria abbia svolto la parte decisiva nella costruzione del "nuovo ordine" globalista, e come tenga saldamente in pugno tutti i governi e tutte le forze del mondo finanziario, imponendo sempre più la propria ideologia, anche con strumenti coercitivi, come il nuovo credo indiscutibile: ebbene la risposta pare scaturisca da sé, senza bisogno di altri argomenti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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