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A proposito dell’Alleanza divina col “popolo eletto”

A partire dal Concilio Vaticano II, come è noto, vi è stata una svolta nell’atteggiamento della Chiesa verso l’ebraismo. Forse in nessun altro ambito la "rivoluzione" conciliare è stata così evidente e così radicale, al punto da segnare una rottura con il passato e da far archiviare, da un giorno all’altro, tutto ciò che essa aveva sino ad allora insegnato, anche per mezzo del catechismo, circa la salvezza in rapporto alle fedi diverse da quella cattolica, e cioè che non vi è salvezza fuori di lei e che gli uomini non possono meritare la salvezza se rifiutano la Verità e o se, avendola conosciuta, la ripudiano.

È chiaro che gli ebrei si trovano in una condizione particolare rispetto alle altre religioni, poiché non sono equiparabili agli adoratori dei falsi dèi: essi hanno conosciuto il vero Dio ed è con loro che Egli ha stretto il patto dell’antica Alleanza, innalzandoli alla condizione di "popolo eletto" in virtù del loro monoteismo. Al quale monoteismo, è doveroso ricordarlo, essi non sono giunti da se stessi, nel qual caso ci troveremmo di fronte all’ennesimo dio fabbricato dalla mente umana (l’esempio più calzante è quello del culto di Aton, introdotto dal faraone Amenophis IV in Egitto nel tentativo di sostituirlo al politeismo del suo popolo), ma vi sono giunti per la grazia soprannaturale di Dio stesso, che in loro si è compiaciuto di rivelarsi al tempo di Mosè. Pertanto, in buona sostanza, gli ebrei non adoravano e non adorano un dio diverso da quello dei cristiani: è lo stesso Dio, che si è definitivamente manifestato nel Verbo Incarnato, Gesù Cristo, e che la maggior parte degli ebrei non ha voluto riconoscere, né allora, né poi. È a partire da tale rottura che la Chiesa pre-conciliare, cioè la Chiesa nell’arco di circa diciannove secoli, ha tratto la conclusione che l’antica Alleanza era stata oltrepassata e si era pienamente realizzata nella Nuova, il cui destinatario non era più Israele, ma il "nuovo Israele", vale a dire la totalità degli uomini, indipendentemente dal popolo cui appartengono, i quali accettano e riconoscono Gesù Cristo quale Figlio di Dio e Redentore dell’umanità. Chi lo accoglie è il beneficiario della Nuova Alleanza, e chi lo rifiuta ne è rigettato, e ciò vale anche per Israele.

In questo senso, e solo in questo senso, l’antica Alleanza si è rotta: non perché Dio ha ripudiato il suo popolo, ma perché il suo popolo ha ripudiato Dio; e si faccia attenzione che allorché si dice "il suo popolo" non si deve intendere l’espressione in senso letterale, perché il popolo di Dio va inteso in senso spirituale e non biologico e razziale (altrimenti cadremmo nel razzismo della Rivelazione, il che è un assurdo). E dunque è vero, verissimo che Dio resta sempre fedele alle Sue promesse; ma da ciò non si può trarre la conclusione, come la Chiesa post-conciliare ha fatto, che l’antica Alleanza è sempre valida, nei termini in cui era stata originariamente formulata, perché tali termini sono cambiati. La novità è rappresentata dall’Incarnazione del Verbo, che in effetti non annulla e non cancella l’antica Alleanza, ma la perfeziona e le dà il compimento definitivo: e quale suggello più solenne, più profondo, più commovente di Dio che si fa uomo per suggellare con il proprio sangue quella promessa? Ma sostenere che l’antica Alleanza è sempre valida, accanto alla Nuova, e ciò solo per conservare agli ebrei lo statuto di "popolo eletto", è inammissibile, illogico e blasfemo: è come dire che la salvezza viene sia dall’Incarnazione e dal Sacrificio di Gesù Cristo, morto e risorto per gli uomini, sia dal suo rifiuto, accusandolo di essere un impostore, un sobillatore del popolo, un falso profeta e un falso messia. Inconcepibile.

Ma c’è un altro aspetto del quale, a nostro avviso, non si tiene mai abbastanza conto, quando si ragiona intorno a tale questione, e cioè che il patto fra Dio e il popolo eletto si era rotto ancor prima della venuta del Verbo incarnato, e precisamente nel momento stesso in cui Mosè riceveva, sul Monte Sinai, le tavole dei dieci comandamenti Mente egli era ancora alla presenza di Dio, il suo popolo già aveva tradito il Signore si era abbandonato all’idolatria del Vitello d’Oro. Si è trattato di una vera e propria rottura dell’alleanza, perfettamente consapevole, da parte del popolo ebreo; e se Dio, a causa di ciò, non ha rigettato Israele, è stato solo per l’intercessione di Mosè, che, informato da Dio stesso dell’apostasia, prima ancora di averla verificata con i propri occhi, ha supplicato e scongiurato il Signore di non allontanare da Sé gli ebrei, ai quali egli si sentiva talmente legato da preferire piuttosto di essere rigettato anch’egli, piuttosto che separare il proprio destino dal loro, come Dio era propenso a fare, investendolo di una nuova autorità sacerdotale, da rivolgere a beneficio di altre nazioni. Solo per l’intercessione di Mosé il popolo ebreo non è stato scacciato dal piano provvidenziale di Dio, però da quel momento ha cessato di essere il "suo" popolo: da allora, Dio lo avrebbe chiamato, parlando con Mosé, il "tuo popolo". Il senso di tale cambiamento è chiaro: Israele, inteso come popolo materiale, non è più il popolo eletto; le conseguenze del suo peccato gli sono state condonate, ma il peccato in se stesso rimane, perché umanamente inespiabile: a partire da quel momento, "Israele" , ossia popolo eletto, sarà qualsiasi uomo e qualsiasi nazione si aprano al mistero della Rivelazione. L’esclusivismo giudaico è finito per sempre, non ha più ragione di esistere.

La venuta di Cristo, la sua Passione, Morte e Resurrezione e il suo ripudio da parte degli ebrei avrebbero aggiunto l’ultimo tassello al disegno: ma il nuovo scenario era già delineato prima ancora che gli ebrei entrassero nella Terra Promessa. Dio aveva dovuto prendere atto della loro infedeltà, e sapeva che, nel fondo dei loro cuori, non lo avevano accettato con piena e incondizionata fiducia; dunque erano essi, e non Lui, ad aver fatalmente incrinato il patto di fiducia che deve esistere alla base di un evento così solenne come l’Alleanza fra Dio e gli uomini. In altre parole, quando si parla dell’"alleanza" non si deve mai scordare che si tratta di un termine inadeguato, perché ci si serve di un’immagine umana per simboleggiare qualcosa che è inesprimibile e ineffabile. Lo sbaglio più grande che si possa fare è quello d’intenderla in senso grossolanamente materiale, come un "contratto" che il contraente può sventolare e rinfacciare a Dio, qualora ritenga di essere stato defraudato dei propri diritti. L’uomo, davanti a Dio, non ha alcun diritto da sventolare o da rivendicare: tutto ciò che riceve, compresa la nozione del vero Dio, viene da Lui e non è opera propria; qualunque rivendicazione di "esclusiva" nei confronti di Dio, da parte di un singolo uomo come di un singolo popolo, è follia ed empietà, e rivela una totale incomprensione della grazia divina. L’uomo non ha nulla da rivendicare perché non possiede nulla: tutto quello che ha, compresa l’Alleanza,è un dono divino; ma Dio, che è sempre fedele a se steso, non può impedire che l’uomo, dotato di libero arbitrio, disprezzi e respinga la sua alleanza: e con ciò stesso rescinda irreparabilmente il "patto", se così lo vogliamo chiamare, ma solo per chiarezza e purché la parola non generi equivoci, con Lui.

Questo concetto ci è parso espresso con chiarezza esemplare in un manuale per il catechista apparso in Germania pochissimi anni prima del Concilio Vaticano II e subito tradotto in Italia, ma del quale — a quanto ne sappiano – si sono poi subito perse le tracce, probabilmente perché non era sufficientemente informato a quei criteri allora dominanti di "dialogo" e "rinnovamento", nonché a quella particolare cautela circa la suscettibilità dei "fratelli maggiori", e che tuttavia a noi è sembrato ben concepito, ben fondato, ben argomentato (da: Fritz Andreae e Christian Pesch, Guida alla Bibbia per la gioventù; titolo originale: Handbuch zur Katolischen Schulbibel, Düsseldorgf, Patmos-Verlag, 1960; traduzione dal tedesco di L. Schiro e L. Benna, a cura del Centro Catechistico Salesiano, Torino, 1961, pp. 139-141):

Il culto idolatrico del vitello d’oro mostra chiaramente che il popolo nella stragrande maggioranza non si era ancora in nessun modo adattato a una profonda fede nel Dio dell’alleanza. C’erano molti che avevano accolto solo di malavoglia gli statuti di Jahvè. Non osavano ancora opporre alcuna resistenza alla forza coercitiva di Mosè. Se non ammettiamo una forte opposizione che già serpeggiava nascostamente, è difficile spiegare la repentina apostasia del popolo, perché nessun popolo cambia dall’oggi al domani la sua condotta; movimenti rivoluzionari come questo sono preparati in antecedenza da lungo tempo. I grandiosi fenomeni della natura in occasione della teofania avevano ridotto al silenzio gli occulti avversari. Essi continuavamo a celebrare in comune e solennemente il giorno della conclusione dell’alleanza. Ma quando Mosè salì sulla cima del Monte per ricevere la legge di Dio scolpita su tavole di pietra, quasi documenti della ratificazione, e dimorò per lungo tempo lontano dal popolo nella vicinanza di Dio, allora le forze reazionarie cedettero giunta la loro ora. (…)

Mosè aveva nominato Aronne come rappresentante durante la sua assenza. A lui si rivolsero gli avversari di Mosè e domandarono un’immagine visibile e materiale di Dio, che doveva essere portata davanti a loro nel resto del viaggio, forse in forma di uno stendardo sul quale era affissa l’immagine plastica di in torello, come quella trovata negli scavi del 1933-34 a Mari, sulle rive occidentali del Medio Eufrate. Il culto di Jahvè senza immagini superava la fprza immaginativa religiosa d’Israele che, sia in Canaan che in Egitto, aveva visto lo sfarzoso culto davanti alle immagini di statue degli dèi della regione.

In tutto il Vicino Oriente erano venerati degli dèi sotto l’immagine di torelli. Sin, il duo Luna, Marduk, il dio di Babilonia, Baal in Canaan, Tot ed Osiride nell’antico Egitto. Tori viventi erano venerasti in Menfi, come Api, e in Eliopoli, come Mnevis. Essi erano considerati come incarnazioni della divinità. L’immagine del toro poi non rappresentava una determinata divinità, ma in generale simboleggiava la forza virile, vita esuberante e fecondità traboccante. Così si pensava la divinità onorata in queste immagini.

Per distanziarsi da ogni religione naturistica, ancora tenuta in così grande considerazione, e per contraddistinguere la nuova religione di Jahvè come un puro dono soprannaturale della grazia, il Dio d’Israele non tollerò nessuna di tali immagini, le quali volgevano le idee religiose del popolo solo verso le forze naturali del mondo. Infatti nella natura non c’è nessuna immagine che possa rappresentare il Dio della grazia.

Aronne seguì il desiderio del popolo, sia pur malvolentieri. Troppo vile per rischiare la propria vita per la causa di Dio, cercò di ovviare con l’astuzia a questa rivoluzione religiosa. Forse il popolo avrebbe desistito dalla sua richiesta se avesse dovuto sacrificare i suoi gioielli per la fabbricazione di questo idolo. Ma il fanatismo è capace di tutto e il popolo offrì prontamente oggetti d’oro. Un nucleo di legno, tagliato nella forma di torello, fu ricoperto di lamine d’oro.

Per l’indomani Aronne fece annunziare una festa di Jahvè, per salvare ancora il salvabile. Come nelle feste degli dèi pagani, con divertimenti d’ogni genere, il popolo infedele celebrò il giorno del vitello d’oro. La parte di Aronne in tutti questi avvenimenti fu molto meschina. Come fu di scandalo il futuro Sommo Sacerdote di Jahvè!

Dio comunicò a Mosè ancora sul monte il gran movimento idolatrico del popolo. Con questa violazione dell’alleanza, Israele non era più il popolo di Dio. Perciò, parlando con Mosè, Jahvè non lo chiamò più come prima "mio popolo", ma "tuo popolo". Con questo delitto Israele aveva pronunciato su se stesso la sentenza di morte, Dio voleva sradicarlo e fare di Mosè il capostipite di un nuovo popolo, grande e fedele, che avrebbe avuto origine dai pochi fedeli. Ma Mosè si presentò come intercessore per i fratelli colpevoli. Certamente era lungi dallo scusare il fatto. Ma egli credeva nella misericordia di Dio, pronta al perdono, misericordia più grande della sua giustizia. E Jahvè si lasciò placare.

Quando Mosè discese dal monte e vide con i propri occhi la danza attorno al vitello d’oro si adirò contro il popolo e ridusse in frantumi contro una pietra le tavole della legge. A che cosa dovevano servire ancora questi articoli della legge quando l’alleanza era stata così infedelmente violata? Pieno di disprezzo, ridusse l’idolo in polvere, la sparse nell’acqua e la fece bere agli Israeliti, per far loro comprendere l’impotenza dell’idolo che si erano fabbricati con le loro mani.

E che l’intenzione originaria di Dio fosse quella di distruggere il popolo idolatra, non si può mettere in dubbio, perché è nella Sacra Scrittura, là dove il Signore dice a Mosè (Esodo, 32,9-10): Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione. I teologi e i sacerdoti i quali vanno ripetendo che l’Antica Alleanza è tuttora valida e che gli ebrei non si devono convertire al cattolicesimo, ma fanno benissimo a restare fedeli alla loro religione, non sanno quello che dicono.

Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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