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Il tempo,per l’uomo,è la chiave del suo destino eterno

Che cos’è il tempo? Che cos’è, in effetti, quella cosa che noi chiamiamo passato, presente e futuro, come se fossero tre cose diverse e al tempo stesso come se fossero tre cose naturalmente collegate, come un fiume formato da più affluenti, sì che si tratta, alla fine, della stessa acqua, e dunque di una stessa realtà complessiva?

Per san Tommaso d’Aquino, nostra guida pressoché infallibile, il tempo è, aristotelicamente, un movimento, il quale esercita nel suo scorrere un’azione modificatrice sulle cose. Tuttavia la riflessione sul tempo da parte del Dottore Angelico si fonde con un’altra questione, più specifica: se cioè il mondo sia stato creato nel tempo o fuori del tempo, questione che scaturisce naturalmente dalla prima. Infatti, se il tempo è un movimento, sorge la domanda su ci sia colui che viene mosso e chi sia colui che muove. Per il secondo termine, non ci sono dubbi: se non si vuol risalire all’infinito nella catena delle cause motrici, il che sarebbe inutile e assurdi, bisogna per forza arrivare alla nozione di una Causa prima incausata, ovvero di un Motore immobile, che tutto muove senza essere mosso da alcuno. Per il primo termine, evidentemente si tratta delle cose terrene, le quali, essendo contingenti, subiscono l’azione del tempo, si modificano in un modo che noi chiamiamo invecchiamento e che appare percettibile, prima o dopo, in tutti gli enti materiali: dalla farfalla che vive un giorno alle montagne o ai pianeti o alle galassie che "nascono" e "vivono" nell’arco di milioni e miliardi di anni.

È anche, o almeno lo era ai tempi di san Tommaso d’Aquino, una questione particolarmente spinosa perché quanti sostenevano la creazione fuori del tempo ne traevano il corollario dell’eternità del mondo, il quale, evidentemente, esisteva prima del tempo e dunque non scaturiva da un atto creatore di Dio. Tommaso affronta la questione nel secondo libro della Summa contra gentiles: dal capitolo 32 al 34 espone le tesi di quanti, con Averroè, affermano l’eternità del mondo (così come sostengono l’unità dell’intelletto possibile per l’intera specie umana, e anche ciò in contrasto con la Rivelazione). Dal capitolo 35 al 37 le passa al vaglio della sua critica e ne dimostra il carattere non decisivo dal punto di vista rigorosamente razionale, per cui conclude sospendendo il giudizio filosofico e asserendo che si deve credere a quanto dice la fede, ossia che il mondo è stato creato da Dio e dunque ha avuto origine nel tempo. È un buon esempio dell’idea che ha Tommaso dei limiti e delle possibilità della ragione: non sempre essa ci può condurre ad una certezza positiva (ed egli, sommo pensatore, è abbastanza grande da avere l’umiltà di riconoscerlo), ma in ogni caso ci fornisce i mezzi per confutare chi pretende di attaccare la fede. In questo senso ragione e fede non possono essere in contrasto, poiché entrambe scaturiscono da una stessa origine, che è Dio, il quale ci ha dato la fede per giungere alla salvezza e la ragione per sostenere e "aiutare", fin dove possibile, la fede stessa. È quasi inutile aggiungere che Tommaso, nella sua limpida razionalità speculativa, respinge sdegnosamente qualunque forma di doppia verità, contrariamente a quel che fa Averroè: non è assolutamente immaginabile che vi sia una verità di ragione diversa da una verità di fede, perché entrambe vengono da Dio.

Ad ogni modo, per quanto riguarda la natura del tempo, ci sembra che il più persuasivo approfondimento sia stato fatto da san’Agostino, ed è a lui, in questo caso, che ci rivolgiamo per avere lumi, e precisamente alla lettura del libro undicesimo delle Confessioni (facciamo riferimento all’opera omnia pubblicata sul sito augustinus.it e curata dal padre Franco Monteverde; i brani citati e tradotti sono in: https://www.augustinus.it/italiano/confessioni/conf_11.htm):

20. 26. Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa. Mi si permettano queste espressioni, e allora vedo e ammetto tre tempi, e tre tempi ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro, secondo l’espressione abusiva entrata nell’uso; si dica pure così: vedete, non vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo esattamente; per lo più ci esprimiamo inesattamente, ma si riconosce cosa vogliamo dire.

Impossibile resistere alla forza di argomentazione logica di questo ragionamento. Il passato non è più, è ricordo; il futuro non è ancora, è attesa: solo il presente esiste realmente e concretamente, ed esso comprende anche il presente come coscienza del passato, per mezzo della memoria, e il presente come coscienza del futuro, sotto forma di anticipazione. A ben guardare, peraltro, neppure il presente ha una durata e dunque una reale consistenza ontologica: esso si riduce all’istante, e l’stante non ha durata, come il punto geometrico non occupa spazio; è assenza di tempo, come il punto è assenza di spazio. Ma in tal caso il tempo sarebbe solo una gigantesca illusione? Dalla prospettiva dell’essere, cioè della realtà vera e permanente, sì: il tempo è l’illusione della durata, e a tale illusione noi attribuiamo una consistenza ontologica, che in effetti non ha. Il tempo è durata, e precisamente la durata stabilita da Dio per tutti gli enti, sia quelli esistenti, sia quelli logici (in quanto pensato da altri enti esistenti, gli uomini): quando tale durata ha termine, gli enti cessano di esistere, vale a dire che tornano alla fonte del loro essere, che era comunque un essere partecipativo e non originario, cioè tornano a Dio.

21. 27. Dissi poc’anzi che misuriamo il tempo al suo passaggio. Così possiamo dire che questa porzione di tempo è doppia di quella, che è semplice, o lunga quanto quella; oppure, misurandola, indicare qualsiasi altro rapporto fra porzioni di tempo. In tal modo, come dicevo, misuriamo il tempo al suo passaggio. Se mi si chiedesse: "Come lo sai?", risponderei: "Lo so perché misuriamo, e non possiamo misurare ciò che non è, e non è né il passato né il futuro". Il tempo presente, poi, come lo misuriamo, se non ha estensione? Lo si misura mentre passa; passato, non lo si misura, perché non vi sarà nulla da misurare. Ma da dove, per dove, verso dove passa il tempo, quando lo si misura? Non può passare che dal futuro, attraverso il presente, verso il passato, ossia da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più. Ma noi non misuriamo il tempo in una certa estensione? Infatti non parliamo di tempi semplici, doppi, tripli, uguali, e di altri rapporti del genere, se non riferendoci a estensioni di tempo. In quale estensione dunque misuriamo il tempo al suo passaggio? Nel futuro, da dove passa? Ma ciò che non è ancora, non si misura. Nel presente, per dove passa? Ma una estensione inesistente non si misura. Nel passato, verso dove passa? Ma ciò che non è più, non si misura.

Questo passaggio del ragionamento di sant’Agostino è molto sottile e originale. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, il tempo, in quanto fluire, non va dal passato al futuro, cioè da quello che è stato a quello che deve ancora essere, bensì dal futuro, che ancora non è, al passato, che lo consuma e lo deposita. Se paragoniamo il tempo ad un fiume che scorre, la cosa diviene ancora più chiara: la sporgente del tempo è nel futuro, perché se fosse nel passato, dovrebbe risalire da ciò che non è più a ciò che non è ancora, ossia fare un percorso innaturale e logicamente impossibile, più ancora del risalire dei salmoni, controcorrente, dal mare verso la sorgente del fiume. Il passato è finito, dunque non può alimentare il tempo: ciò che non è non può dare origini a ciò che è. Per trovare alimento, il tempo deve "attingere" a qualcosa che non è ancora, come i fiumi della terra attingono l’esistenza dalle nubi, che non sono ancora acqua, perché i fiumi, una volta confluiti nel mare, hanno cessato di esistere e non possono rifare il loro percorso. È utile concepire il tempo come flusso, e dunque come movimento che procede dal futuro verso il passato, per poterlo misurare: ma in se stesso, cioè considerato separatamente dalle cose che divengono, e quindi dal suo stesso fluire, il tempo è inintelligibile, perché, come si è detto, parlando in termini assoluti, esso è inesistente. Come potremmo considerare esistente ciò che non è più e ciò che non è ancora? Non lo potremmo neppure aggrappandoci all’istante, perché l’istante è un’astrazione.

27. 36. È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L’impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l’estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato.

Abbiamo saltato alcuni capitoli e siamo arrivati al nocciolo del discorso di Agostino. Se il tempo è futuro che diventa passato, e poiché esso è un movimento che riguarda le cose terrene, finite, e non le infinite, dovrà consumarsi interamente, divenendo tutto e solo passato. A quel punto vi sarà solo il presente, ma non un presente illusorio, come quello delle cose terrene, bensì un eterno presente che è l’eternità stessa di Dio. Dio è eterno, dunque è eterno tutto ciò che si trova in Lui; non è eterna la creazione, poiché essa viene da Lui, ma si manifesta fuori di Lui, e quindi è soggetta alle leggi della contingenza. Allora, se vogliamo misurare il tempo, lo possiamo fare solamente riferendoci a Dio, che ne è l’autore e che pertanto si trova fuori e al di sopra di esso: qualunque altra unità di misura sarebbe impossibile, poiché sarebbe come voler trovare ciò che ci manca, servendoci di ciò che ci manca. Se noi vogliamo misurare il tempo, non possiamo servirci del tempo, perché il tempo è appunto la cosa che vogliamo conoscere, ma che ancora non conosciamo e dalla quale stentiamo a comprendere la natura. Dunque non è nostro; non solo non ci appartiene, semmai siamo noi che gli apparteniamo: il tempo misura lo scorrere della nostra esistenza terrena e quindi siamo noi enti finiti la sua unità di misura, non viceversa. Ora, la scoperta che la misura del tempo è in Dio ed è Dio, equivale a porre l’ente finito, l’uomo, di fronte al suo destino infinito, l’eternità. Perciò chi riflette sul tempo giunge alla conclusione che il tempo è un enigma e una porta chiusa, ma che tale porta si apre e svela il suo segreto allorché noi smettiamo di guardare ad esso come a qualcosa di estrinseco, qualcosa che è indipendente da noi, e ci rendiamo invece conto che noi, per la nostra parte mortale, siamo una cosa sola con esso.

Secondo san Tommaso d’Aquino l’uomo è un’unione di essenza ed esistenza, e tale essenza è composta, essendo costituita di una forma, che è la ragionevolezza, e di una materia, la sua animalità: l’uomo infatti è un animale ragionevole. In lui si fondono la sua natura, la sua essenza (la quidditas, il «che cos’è?») e la sua esistenza, il suo atto di esistere (actus essendi). L’uomo in quanto uomo sussiste fino a che sussistono le due dimensioni del suo essere che, nella vita concreta, diventano quasi una cosa sola; ma quando viene meno il loro legame perché il tempo è consumato, l’esistenza prosegue per la parte spirituale, mentre dell’essenza resta solo la natura specificamente umana, ossia la ragionevolezza: infatti la parte umana dotata di ragione non è il corpo, ma l’anima. A quel punto si rivela il destino eterno dell’uomo: e lo scioglimento del legame personale fra corpo e anima e fra essenza ed esistenza (terrena) coincide con la fine del tempo. La morte è la fine del tempo soggettivo, il Giudizio Finale sarà la fine del tempo oggettivo. Ed è lì che siamo incamminati.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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