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Perché essere è cosa migliore che non essere

Da alcuni decenni in forma massiccia, e da circa due secoli in forma più circoscritta, la cultura dominante ci suggerisce, ora con toni melliflui, ora con toni apocalittici, che non esistere è meglio che esistere; che la vita è brutta e gli uomini, per il solo fatto di viverla, sono dei poveri infelici degni di compassione; che la cosa migliore sarebbe non esistere affatto, non solo per gli esseri umani, ma per tutto ciò che effettivamente esiste. L’ultima versione aggiornata e corretta di questa ideologia di morte, spacciata come la sola Weltanschauung politicamente corretta, è quella pseudo ecologista e pseudo ambientalista dei vari Schwab, Attali, Cingolani, Colao, ecc., che consiste nel presentare l’odio contro la vita nelle forme più disparate, e la promozione di tutto ciò che è scelta di morte, dall’aborto alla contraccezione e dall’eutanasia al suicidio, come la sola modalità "responsabile" di porsi di fronte al mondo, la sola maniera di alleggerire il disgraziato pianeta dal peso insopportabile che gli esseri umani, così diabolicamente dannosi e deplorevolmente prolifici, fatalmente rappresentano.

Il "manifesto" di quei signori può essere considerato quanto scrisse giacomo Leopardi sullo Zibaldone a proposito dell’essere e del non essere:

Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere; non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente;  il complesso dei tanti mondi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perché tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti né di numero né di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir cosí, del non esistente, del nulla.

I mezzi d’informazione e di comunicazione di massa, il cinema, la stampa, la televisione e la pubblicità in ogni sua forma, hanno di fatto "raccolto" questa filosofia e ne hanno fatto la base della odierna cultura politicamente corretta, quella che si addice al cittadino "maturo" e "responsabile". Infatti vediamo continuamente, ad esempio, pubblicità che esaltano il cane e il gatto quali migliori amici dell’uomo, mentre vediamo la vita umana presentata sovente come un disvalore, e infatti l’aborto e l’eutanasia vengo presentati come conquiste di civiltà e sono totalmente spogliati di ogni connotazione sgradevole; meno ancora vi è la percezione, su tali organi d’informazione, che l’aborto, fra le altre cose, è divenuto un colossale business per le multinazionali farmaceutiche, interessate all’espianto di organi dal feto per la fabbricazione dei loro prodotti da immettere a caro prezzo suo mercato, magari sotto forma di "vaccini" finalizzati a salvare milioni di vite da terribili (e inesistenti) pandemie.

Si pone perciò la necessità di rispondere a questa cultura di morte, basata sull’assunto che il non essere è cosa migliore dell’essere, con un’adeguata analisi filosofica che ripristini la sana percezione del reale e restituisca all’essere quel ruolo centrale che esso ha in ogni visione realistica e positiva del mondo, confutando le fallaci teorie dei nemici della vita e restituendo dignità e bellezza alla procreazione, alla famiglia naturale, a tutto ciò che va nella direzione di promuovere, affermare e sostenere l’esistente, contro i cavalieri del nulla che, sotto le bandiere del nichilismo e di un esistenzialismo disperato, vorrebbero accrescere nella società il senso di disagio, smarrimento, confusione e angoscia che già viene alimentato artificialmente dai mezzi d’informazione asserviti al malvagio potere globalista e da una cultura medica, giuridica, scolastica e universitaria che ha smarrito le proprie ragioni e che, lungi dal servire il bene e il vero, si è fatta ancella e prostituta di un piano strategico mondiale d’inaudita malvagità e tracotanza, mirant ad asservire gli esseri umani e a ridurli in condizioni di esistenza sub-umane (perché tale, sfrondato dall’enfasi auto-celebrativa, è il tanto sbandierato transumanesimo).

Ebbene, noi riteniamo che una tale azione di rinnovata consapevolezza filosofica ed esistenziale debba partire dalla concezione speculativa più solida, più vera, più concreta che la nostra civiltà ma abbia prodotto nel corso dei secoli e dei millenni: quella aristotelico-tomista, fondata sulla retta percezione del mondo non come riflesso d’idee inafferrabili (Platone) o come trastullo di quache divinità malvagia o come luogo del perenne non-senso, ma come gioiosa affermazione degli enti che vengono spinti all’esistenza da una forza più grande di loro e che trionfano sul nulla del non-essere, testimoniando, con la loro attualità, che ciascun ente, dal filo d’erba a Dio stessa, rappresenta l’essenza che esiste. A san Tommaso infatti va il merito imperituro di ave "scoperto" ed evidenziato la centralità dell’essere, inteso come esistere, e la sua necessità per sostenere ogni aspetto della realtà fattuale: centralità che si armonizza con l’essenza (la quiddità: vale a dire il quid est?, il «che cos’è?», ovvero la natura, la forma di un ente) ma che in definitiva la oltrepassa, perché noi possiamo concepire l’essenza senza l’esistenza, mediante un’astrazione logica, ma non l’esistenza senza un’essenza, il che evidenzia come l’essere è alla base di tutto e il sostegno di tutto, e che senza l’attualità dell’essere, di nulla si potrebbe predicare alcunché, né considerare alcun tipo di essenza.

Tale è il merito imperituro di san Tommaso d’Aquino, che lo pone a pieno diritto come uno dei più grandi, se non il più grande, pensatore di tutta la storia. Infatti sia Parmenide che Eraclito, pur nelle opposte concezioni del reale, il permanere e il divenire, concordavano sul fatto di considerare l’essere come un dato di fatto; mentre Platone e Aristotele hanno intravisto che si tratta di un atto, ma poi, in pratica, hanno seguitato a ragionare su di esso come un dato di fatto, ossia come qualcosa di statico e determinato, tralasciando di approfondire quello che avrebbe potuto rivelarsi come l’aspetto più innovativo e vivificante delle rispettive concezioni del reale. San Tommaso, e solamente san Tommaso, ha visto con lucida chiarezza che l’essere è a tutti gli effetti un atto, ossia non qualcosa di statico, ma qualcosa che si pone nel suo concreto esserci, e dunque un modo attivo di manifestarsi da parte di ciò che è reale: A lui va dunque il merito imperituro di aver fatto dell’essere il fondamento della concezione realistica del mondo, che è, al tempo stesso, una concezione gioiosamente positiva ed ottimistica, poiché rende conto di tutto ciò che esiste, sino, appunto, al più umile filo d’erba, nulla rigettando come inutile o superfluo (il che invece accade nella filosofia di Platone e in tutte le filosofie idealiste), nulla trascurando o considerando come un semplice "duplicato" di una realtà superiore; ma, al tempo stesso, non si ferma al reale come dato di fatto, non idolatra l’esistente così come appare, bensì valorizza gli enti in quanto atti o modi dell’esistere e del manifestarsi di un principio superiore, ossia l’Essere in grado assoluto, poiché l’ente è, per definizione, actus essendi, l’atto di esistere, e perciò qualcosa di attivo, di vivo, di bello, che scaturisce dalla verità e dalla bontà della sorgente che lo ha originato, ossia la somma verità e la somma bontà dell’Intelletto divino, autore di tutte le cose e dunque garante della loro unicità e preziosità, della loro intrinseca bontà e del loro intrinseco valore, senza sprecare o disperdere o disprezzare nulla, assolutamente nulla, ma anzi abbracciando ogni singolo ente, dal più grande al più piccolo, dal più accidentale al più necessario, come parti di un tutto unitario, armonioso e magnifico.

Citiamo una pagina del fortunato manuale scolastico di Abbagnano e Fornero Protagonisti e testi della filosofia (vol. A, Tomo 2, Paravia, 1999, pp. 609-610):

[…] l’ontologia tomista implica un esplicito primato dell’esistenza (o "actus essendi") rispetto all’essenza: «Prima di avere l’essere, l’essenza è un puro nulla» ("De potentia, 3,5, ad 3 q.). Anzi, l’esistenza o l’essere, configurandosi come quella «spinta vittoriosa mediante la quale anche la più umile cosa trionfa sul nulla» (Martitain) appare a Tommaso come una "perfezione", e precisamente come la perfezione MASSIMA: Su questo punto- che secondo taluni interpreti odierni (cfr. ad es. gli studi di B. Mondin) rappresenterebbe la parte più ORIGINALE di tutta la metafisica tomistica — i testi sono particolarmente eloquenti: «Fra tutte le cose l’essere è la più perfetta ("esse est inter omnia perfectissimum")» (ivi, 7, 2, ad 9); «Ciò che chiamo essere è l’attualità di tutti gli atti, e quindi la perfezione di tutte le perfezioni» (ivi); «tra le cose, l’essere è la più perfetta, perché verso tutte sta in rapporto di atto. Niente infatti ha l’attualità se non in quanto è: perciò l’essere stesso è l’attualità di tutte le cose, anche delle stesse forme» (S. th, I,4, 1 ad 3); «L’essere… è ciò che nelle cose vi è di più intimo e di più profondamente radicato, poiché… l’essere è l’elemento formale rispetto a tutti i principi e i componenti che si trovano in una data realtà» (ivi, I,8,1) ecc.

Questa concezione dell’essere, che Tommaso cerca di evidenziare con dei superlativi ottenuti tramite dei sostantivi, secondo lo stile ebraico (per es: «esse est actualitas omnium actuum»), costituisce anche il presupposto delle dottrina dei "trascendentali".Mentre le categorie sono gli aspetti che distinguono l’essere in diversi generi (qualità, quantità, ecc.), i trascendentali sono invece quei caratteri che, TRASCENDENDO le stesse categorie, qualificano l’essere in quanto tale e competono, per ciò stesso, ad OGNI ente.

Tommaso enumera cinque proprietà trascendentali: "res", "unum", "aliquid", "verum", "bonum". Poiché "res" non significa se non l’essere preso assolutamente e "aliquid" implica l’"unum", i trascendentali si riducono a tre: "unum" ("l’uno"), "verum" ("il vero"), "bonum" ("il bene).

Dire che ogni ente è UNO significa che ogni ente è indiviso in sé e distinto da qualsiasi altro. In altri termini, secondo Tommaso, «una realtà in tanto può dirsi realtà, ente, in quanto ha una certa unità e quindi tanto più reale (ente) quanto più è una. Ad esempio, un mucchio di sassi in tanto può dirsi una realtà, un ente, in quanto ha una certa indivisione in sé (è UN mucchio, i sassi sono dunque riuniti) e una certa distinzione dalle altre cose che lo circondano. Se, in quel mucchio, considerassi solo la pluralità, i tanti sassi, senza considerare la loro, sia pur labile, unione, non potrei più parlare del mucchio di sassi come di una realtà»(S. Vanni Rovighi). Dire che ogni ente è VERO significa che esso corrisponde all’Intelletto divino che lo ha creato (o progettato) e risulta quindi intrinsecamente intelligibile e razionale (verità ontologia), cioè in grado di farsi cogliere da un’intelligenza e di configurarsi come fondamento dell’adeguatezza del pensiero (verità logica o gnoseologica). A sua volta, dire che ogni ente è BUONO significa che esso corrisponde ad una ben precisa volontà o progetto divino e costituisce, in quanto tale, una perfezione appetibile o desiderabile anche dall’uomo: «ogni ente, in quanto ente, è in atto, e in qualche modo perfetto… Ora, il perfetto ha ragione di appetibile e di bene (S: th. I, q.5, a 3,4)». L’essere, secondo Tommaso, presenta quindi un indubbio primato metafisico rispetto al vero e al bene. Tant’è che la verità e la bontà di un ente risultano PROPORZIONALI al GRADO di essere che esso possiede (sino ad arrivare al caso di Dio, che è somma Verità e sommo Bene IN QUANTO sommo Essere). Ciò non toglie, tuttavia, che il vero e il bene siano così INSEPARABILI dall’essere da CONVERTIRSI con l’essere. Infatti, per Tommaso, non c’è nulla, nell’essere, che non sia vero e buono, esattamente come non c’è alcun vero o alcun bene che non sia essere. Ciò che le nozioni di vero e di bene contengono IN PIÙ rispetto alla nozione di essere è la RELAZIONE all’intelletto e alla volontà: «La convenienza dunque dell’essere con l’appetito è espressa dal nome BENE e la convenienza dell’essere come l’intelletto è espressa dal nome VERO» (De ver., q. I, a.1).

Da questa teoria dei "trascendentali" — che scorge ovunque perfezione, verità e bene — scaturisce quindi una delle più radicali forme di OTTIMISMO METAFISICO della storia.

Concludendo. L’essere è la forma perfetta dell’ente: l’ente intelligibile, ma dotato di vita solamente logica, è carente; l’ente "pieno" e perfetto è quello che esiste e che, esistendo, afferma il suo esserci, proclama trionfalmente la vittoria sul nulla. L’essere dell’ente è il riflesso della pienezza assoluta dell’Ente assoluto o Essere assoluto, che è Dio: pertanto è anche la via più sicura per giungere a Lui.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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