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6 Maggio 2022Ci sono grandi filosofi, piccoli filosofi e non filosofi che nondimeno si spacciano, e vengono spacciati, per filosofi. Uno di questi ultimi è Günther Anders (Breslavia, 1902-Vienna, 1992), il quale si domandava in che senso il mondo in cui vivono gli uomini d’oggi non sia realmente il loro mondo, e che scriveva nell’introduzione al suo saggio Uomo senza mondo. Scritti sull’arte e la letteratura, una raccolta di saggi dedicati a Döblin, Brecht. Heartfield, Broch e Grosz (titolo originale: Mensch ohne Welt. Schriften zur Kunst und Literatur, München, Verlag C. H. Beck, 1984; traduzione dal Tedesco di András Aranyossy e Pier Paolo Portinaro, Ferrara, Spazio Libri Editori, 1991, pp. 29-31):
"Uomini senza mondo" erano e restano coloro che sono costretti a vivere ALL’INTERNO DI UN MONDO che non è il loro; un mondo che, sebbene venga prodotto e tenuto in funzione dal loro lavoro quotidiano "NON È COSTRUITO PER LORO" (Morgenstern), non è qui per loro; all’interno di un mondo PER il quale sono presenti e in funzione del quale sono certo pensati e utilizzati, ma i cui modelli, scopi, linguaggio e gusto NON sono comunque loro, né sono loro concessi.
Questa tesi è un ampliamento della fondamentale tesi marxiana secondo cui IL PROLETARIATO non possiede quei MEZZI DI PRODUZIONE mediante quali produce e tiene in funzione il mondo della classe dominante. La mia tesi è tuttavia più generale di quella marxiana (ma non la contraddice) in quanto mira a qualcosa di ONTOLOGICO, e precisamente di ontologico-negativo. Intendo dire che ciò che il proletario NON può considerare proprio non si limita ai soli mezzi di produzione, che egli ha prodotto e utilizzato, e nemmeno a quei "products of easy life", che pure egli produce: questa definizione di illibertà sarebbe troppo restrittiva. Elemento discriminante risulta essere piuttosto — e in ciò consiste appunto l’ontologico-negativo — il fatto che il mondo che il proletario stesso produce, o alla cui produzione quantomeno partecipa, non è il suo, e che egli non è a casa propria in qutso mondo allo steso modo n cui l’operaio edile non è a casa propria, nel’edificio che ha contribuito a edificare. In altre parole: poiché l’operaio vive solo per un mondo appartenente ad altri, per un mondo in cui altri si devono sentire a casa propria, non è neppure sfiorato dal fondamentale caratterizzazione heideggeriana dell’essere umano "eo ipso" come "essere-nel-mondo". Egli vive infatti NON tanto "NEL", ma solo "ALL”INTERNO" del mondo — all’interno del mondo appartenente ad altri, appunto alla classe dominante — anche se "LE CATENE" che lo legano a questo mondo altrui sono state rese tanto morbide e duttili da apparirgli mondo, e persino come SUO mondo, al punto che non riesce più a immaginarne uno diverso e che non vuole assolutamente perderlo: un mondo che egli difende come proprio perfino con i denti e le unghie. La sua lotta per il posto di lavoro, sul quel l’operaio produce spesso cose prive di senso o, peggio, che provocano catastrofi, e al quale afferma di avere sacrosanto diritto, è prova di quanto poco esso viva nel SUO mondo; è prova che l’operaio — sena che ne abbia coscienza – è "SENZA MONDO".
L’ESPRESSIONE "UOMO SENZA MONDO" DEFINISCE DUNQUE UNA CONDIZIONE DI CLASSE. L’affermazione — intesa da Heidegger come antropologica, ovvero come universalmente valida — secondo cui "l’esserci", l’essere specifico dell’uomo — significa "eo ipso" "ESSERE NEL MONDO", si riferisce esclusivamente all’uomo appartenente alla classe dominante: infatti QUESTI solo riesce a identificarsi cin ciò che lo circonda, tanto da riconoscerlo come PROPRIO MONDO ("mondo come esistenziale") e a dar così ragione a Heidegger. È un fatto politico molto curioso – che qui non posso approfondire — che tale obiezione non gli sia mai stata rivolta dai suoi allievi (i quali erano al novanta per cento poveri "studenti operai")[giova però ricordare che Anders era uno studente di Heidegger: perché dunque non gli fece lui quella domanda?; nota nostra]. Per dirla con Hegel: "L’essere del servo" non è un "essere nel mondo", poiché egli NON vive nel SUO mondo, ma NEL e PER il mondo dei "padroni" La domanda "A CHI APPARTENGA IL MONDO", essere nel quale si presume definisca il nostro esserci, non è mai stata posta da Heidegger nella sua approfondita analisi del concetto di mondo, nonostante il rilievo dato alla "cura" e un’esperienza di povertà vissuta in prima persona per lunghi anni. E il pensiero che forse si "È solo in quel mondo", che si appartiene solo a quel mondo di cui si è COMPROPIETRARI, non gli è mai balenato. Assai più vicino gli era, almeno temporaneamente, il pensiero secondo cui il "mondo", l’essere nel quale definisce l’uomo, sia quello a cui si appartiene come suddito o "compatriota", dal momento che esso è una dittatura.
L’adolescente scalzo che nel 1910 circa, io, figlio di borghesi e suo coetaneo, osservai mentre si fermava davanti al miglior ristorante di Breslavia e, schiacciando il naso contro il vetro,cercava di guardare dentro, finché un poliziotto gli chiese: «Che hai perso lì?», e lo spinse via ed egli incespicando ripose: "Niente!", aveva perfettamente ragione: infatti non aveva perso niente, poiché prima non aveva niente da perdere. Il suo "essere" non era certo un "essere-nel-mondo", ma appunto un "rimanere fuori", un (come l’avevo definito cinquant’anni or sono nella mia analisi di Kafka) "non essere stato ammesso a questo mondo". Questa formula prova quanto appropriato sia il titolo che ho dato a questo libro. Quell’adolescente era proprio un "uomo senza mondo".
In questa triste e greve pagina di prosa, ove invano si cercherebbe un sia pur minimo barlume di coscienza filosofica, ma si resta impaniati, dal principio alla fine, in un discorso che non ha nulla di filosofico, tranne la presunzione e l’ego continuamente debordante dell’autore (e ne abbiamo espunto i passaggi più fastidiosi e stucchevoli, come questo: non per nulla passo per uno che…, cit., p. 29), il solo pensiero che è dato riconoscere consiste in una pedissequa espansione di una definizione del suo maestro Marx, ossia che il proletario non possiede i mezzi di produzione mediante i quali la borghesia costruisce il proprio mondo. Da questa banale constatazione, fatta passare per una geniale intuizione speculativa, Anders ricava un’intuizione che mostra di considerare ancor più geniale, tanto è vero che ce la dà solo con esitazione e quasi con l’aria di volerla dire e non dire, un po’ come nella Locandiera di Goldoni il marchese di Forlipopoli offre a Mirandolina il suo preziosissimo vin di Cipro, ma in quantità così esigua come se soffrisse troppo all’idea di consumarlo tutto: e cioè che il proletario non può considerare propri non solo i mezzi di produzione, ma anche l’insieme della società, ossia del mondo, nel quale vive, perché esso è fatto sulla misura del padrone e non su quella dell’operaio, e non risponde ai bisogni di quest’ultimo, ma a quelli di costui. Questo è tutto. E per dirlo, il nostro fa tutta una elaborata premessa che dovrebbe farci capire, qualora non ci arrivassimo da soli, di quale incomparabile perla di saggezza egli ci abbia fatto dono, andando a prendere a prestito niente di meno che il concetto di ontologismo negativo: Questa tesi è un ampliamento della fondamentale tesi marxiana secondo cui IL PROLETARIATO non possiede quei MEZZI DI PRODUZIONE mediante quali produce e tiene in funzione il mondo della classe dominante. La mia tesi è tuttavia più generale di quella marxiana (ma non la contraddice) in quanto mira a qualcosa di ONTOLOGICO, e precisamente di ontologico-negativo. Risolvendosi a regalarci questo formidabile concetto dopo aver soppesato i pro e i contro e centellinando le parole come il marchese di Forlipopoli centellina il suo scarsissimo vin di Cipro, evidentemente combattuto fra la tentazione di non sprecare per noi umili lettori tanta genialità, di cui forse non siamo degni, e l’umano dovere di non lasciarci vivere crudelmente all’oscuro di essa, abbandonati alla nostra ignoranza. Del resto, cosa pensare di un "filosofo" il quale si compiace di se stesso nella scelta del titolo del libro che ci offre, dicendo testualmente: Questa formula prova quanto appropriato sia il titolo che ho dato a questo libro; e che nella riga immediatamente precedente si era preso il merito di un suo studio su Kafka scritto mezzo secolo prima.
Dunque, la grande scoperta di Günther Anders è che l’operaio vive in un mondo che non è suo, né potrebbe mai considerare come suo, sentendovisi cioè a proprio agio, perché è il frutto del lavoro alienato che lui e i suoi compagni hanno prestato al capitalista, il quale perfidamente se ne serve per fare quel che occorre a lui e non quel che necessita a loro. La lunga citazione polemica di Heidegger, con il quale aveva palesemente un conto aperto di natura personale (così come l’aveva con Theodor Adorno, perché questi pensatori marxisti dell’area ebreo-tedesca paiono uniti e affiatati sotto le comuni bandiere dell’antifascismo, mentre invece erano qualcosa di simile ad un groviglio di vipere), unita al riferimento d’obbligo al nume tutelare supremo, Hegel, gli serve solo per rimproverare al professore/amante della sua ex moglie Hannah Arendt, nazista per soprammercato, di non aver capito una verità tanto semplice: ossia che un essere umano sente come proprio solo quel mondo che ha contribuito a edificare in regime di proprietà collettiva dei mezzi di produzione. Così come la patetica conclusione a mo’ di apologo, con il ricordino di vita vissuta della sua Breslavia ai primi del ‘900, con il burbero poliziotto che allontana il ragazzino scalzo che guarda con curiosità troppo insistente attraverso la vetrina del miglior ristorante cittadino, dovrebbe suggellare la geniale scoperta filosofica di Anders, dandole il valore aggiunto di il supporto adeguato della vita vera e non solo delle teorie libresche. Giusto!, osserva il nostro, trionfante, riportando la riposta del ragazzino alla domanda del gendarme su cosa avesse perduto lì dentro, ossia niente: che cosa aveva a che fare con il mondo dei ricchi avventori del miglior ristorante cittadino, quell’adolescente così povero da non aver neanche i soldi per comprarsi un paio di scarpe? Non aveva nulla a che fare con esso, perché la sua famiglia e la sua classe erano tagliate fuori, in partenza, da qualunque possibilità di sentire quel mondo come il proprio mondo. Si resta davvero ammirati dinanzi ad un tale acume!
Evidentemente, a Günther Anders come a tutti gli intellettuali marxisti, non è mai sorto il dubbio se, per sentire il mondo come proprio, basti partecipare alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione. E infatti non ci risulta che, dopo l’andata in paradiso della classe operaia, ossia dopo la conquista di un relativo benessere "borghese", i teorici del marxismo abbiano mai più toccato quel tasto: improvvisamente se ne sono scordati. E a maggior ragione si mostrano del tutto dimentichi di esso in tempi di globalizzazione accelerata, quando a non sentirsi più a casa propria non sono tanto gli operai, quanto i piccoli borghesi, i pensionati delle classi medie impoverite, costretti a vivere spaesati e quasi prigionieri in quartieri degradati, abbandonati e invasi da migliaia di stranieri che non pensano affatto ad integrarsi, e che sovente si comportano in modo tale da sconsigliare gli "indigeni" a mettere il naso fuori di casa dopo una certa ora della sera (e, qualche volta, anche da mettere il naso fuori della porta dell’appartamento, pur restando all’interno del caseggiato). Nessuna meraviglia: questo silenzio, anzi questa mal dissimulata antipatia verso quei pacifici e rispettabili cittadini che, dopo una vita di lavoro, si trovano totalmente spaesati nelle loro città e nelle loro case, e la cui esistenza costituisce di per se stessa un ostacolo al procedere trionfale della globalizzazione, è il naturale risultato dell’impostazione materialista dell’analisi marxista, nonché del suo economicismo esasperato, per cui veniva affermato in maniera apodittica che sarebbe bastato sottrarre ai privati la proprietà dei mezzi di produzione (non per darla ai lavoratori, ma per avocarla allo Stato, che sarebbe divenuto il nuovo super-proprietario di ogni cosa) per rendere i lavoratori felici e contenti e far sì che si sentissero a loro agio, in un mondo che finalmente avrebbero potuto considerare e vivere come il loro mondo. Come se il modo di vita della classe operaia nelle società comuniste, all’ombra di un greve sistema burocratico e totalitario, che pure era sotto gli occhi di chiunque volesse vederlo, avesse autorizzato anche solo minimamente una così ingenua e ottimistica previsione.
A quanto pare così come a Heidegger non è venuto in mente, marxianamente, che l’uomo moderno, anzi l’operaio moderno (forse perché il "padrone" non è un uomo, ma un mostro da eliminare) non può sentirsi a suo agio in un mondo che viene costruito senza che egli abbia la comproprietà dei mezzi di produzione, così al signor Anders (ma il suo vero nome Günther Siegmund Stern, mutato in Anders per vezzo) non sfiora la mente l’idea che l’uomo, qualsiasi uomo, padrone o schiavo, antico o moderno, non si potrà mai sentire del tutto a casa propria nel mondo, in qualsiasi mondo, perché la natura umana è anfibia, e se per un lato egli appartiene alla dimensione di quaggiù, quella del finito, del relativo e dell’accidentale per un altro partecipa all’assoluto, al necessario e all’eterno. Egli possiede una doppia cittadinanza che ne fa comunque un cittadino straniato del mondo e un aspirante alla sua vera patria, che non è di questo mondo, né marxista, né liberale, né di qualsiasi altro genere, ma puramente spirituale. Ma questa visione, si sa, non è altro che oppio dei popoli…
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