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Il relativismo religioso? Risale a un teologo del 1400

Quando nasce, nella Chiesa, l’idea che il dialogo con le altre religioni è un valore che garantisce la pace fra i popoli; che in ciascuna di esse c’è qualcosa di positivo, di apprezzabile, ossia una qualche parte di verità; e che i popoli pagani possono benissimo accogliere il cristianesimo e conservare al tempo stesso loro idoli, perché in fin dei conti si tratta solo di feticci ai quali essi non attribuiscono le qualità del Dio creatore onnipotente? Si sarebbe tentati di rispondere alle prime due domande: col Concilio Vaticano II, specie con la Nostra aetate (valorizzazione delle altre religioni) e la Dignitatis humanae (proclamazione del principio, non cattolico ed eretico, della libertà di coscienza soggettiva) e alla terza, col tentativo dei missionari gesuiti di far approvare dalla Chiesa i riti cinesi e i riti malabarici (= del Malabar, la costa sud-occidentale dell’India), tentativo fallito dopo una controversia durata qualcosa come un secolo e mezzo, cui pose fine papa Benedetto XIV nel 1742 con la bolla Ex quo singulari.

Ebbene, sarebbero entrambe risposte sbagliate: poiché la tendenza, si sarebbe portati a dire la tentazione, di valorizzare le false religioni, sia per motivi tattici (la pace, intesa in senso umano e massonico: cfr. invece il Vi lascio la pace, vi do la mia pace; ve la do, non come la dà il mondo, in Gv 14,27), sia, peggio ancora, per una forma di segreta ammirazione nei loro confronti, e dunque di segreto odio anticattolico, come infine appare evidente ai nostri giorni nell’azione e nelle parole di Bergoglio (vedi, fra i mille esempi, l’empio documento di Abu Dhabi, nel quale si ringrazia il Signore Iddio per il fatto che esistono diverse religioni al mondo) è molto più antica. E anche la risposta alla terza domanda sarebbe sbagliata, poiché la cosa non risale agli inizi del 1600, come per la controversia sui riti cinesi e sui riti malabarici, ma alla metà del 1400, vale a dire a dire centocinquanta anni prima.

Quelle idee, ossia il falso dialogo con le false religioni; la valorizzazione di dette religioni; l’accettazione dei riti pagani da parte della Chiesa per i popoli esotici di recente conversione al cristianesimo, si trovano in gran parte nell’opera De pace di Nicola (o Niccolò) Cusano (1401-1464), il dottissimo cardinale tedesco, che fu anche filosofo, teologo, umanista, giurista, matematico e astronomo, e che tutti gli studenti di liceo conoscono, se non altro, per la sua teoria della dotta ignoranza, che pare quasi un brillante gioco di parole, infarcito di (falsa) modestia, come il so di non sapere di socratica memoria: che oltretutto, provenendo da un uomo di tale cultura e di tale altezza di pensiero, non può non fare un’ottima impressione sui giovani studenti, specie se nessuno si prende la briga di farli ragionare andando un poco oltre la superficie e l’apparenza delle cose. Di lui avevamo già detto qualcosa a proposito di un’altra sua teoria, quella della pluralità dei mondi abitati, che precorre una simile idea di Giordano Bruno e pertanto ha, per l’appunto, un’apparenza molto "moderna" e che suscita istintivamente una certa simpatia in chi è stato indotto a credere che il vero pensiero è quello moderno, mentre il pensiero pre-moderno è, nel migliore dei casi, una faticosa ed incerta preparazione ad esso, se non proprio ciarpame di nessun valore (vedi il nostro articolo La riflessione sulle creature extraterrestri nel pensiero di Nicola Cusano, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 10/12/14 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 15/11/17).

Il bello è che lo stesso Cusano, nei suoi scritti precedenti, aveva espresso idee diametralmente opposte a quelle che poi espone nel De pace; e gli studiosi tendono a "giustificare" la svolta repentina del suo pensiero con lo shock provocato dalla conquista ottomana di Costantinopoli, avvenuta il 29 maggio del 1453 per mano del sultano Maometto II, nella quale cadde combattendo l’ultimo imperatore bizantino Costantino XI Paleologo. Oltremodo impressionato da tale tragico avvenimento, che era appena l’inizio della marcia conquistatrice dei Turchi, che si sarebbe arrestata solo il 12 settembre 1683 sotto le mura di Vienna, duecentotrenta anni dopo, Nicola Cusano avrebbe elaborato l’idea che, in previsione di una convivenza forzata di cristiani, musulmani ed ebrei (ma se avesse studiato meglio la storia, si sarebbe accorto che il problema si era già posto, per i Paesi cristiani del Mediterraneo orientale, fin dal VII secolo d. C., e la convivenza di fatto era divenuta una sottomissione del più debole al più forte) era meglio rinfoderare la spada. Anche perché, quanto a maneggiarla, il turco lo sapeva fare terribilmente bene, e già lo si era visto nella battaglia di Nicopoli del 25 settembre 1396, nella quale un esercito crociato di circa 30.000 uomini, formato dal fior fiore della cavalleria francese e ungherese, era stato letteralmente annientato da quello ottomano del sultano Bayezid I.

È comunque significativo il modo di argomentare assai spregiudicato, cioè "moderno", con cui Nicola Cusano pone i termini del problema: pare che ne faccia una questione di antropologia religiosa e che la considerazione del vero come principio assoluto entri poco o nulla nei suoi ragionamenti: si direbbe che un substrato "concordista", cioè in sostanza relativista, sia già presente in lui e in una parte della cultura cristiana, e più specificamente ecclesiastica, del suo tempo, sulla base di un certo qual razionalismo umanistico, orientata verso un teismo dalle larghe vedute, che non si formalizza né s’irrigidisce su questioni puramente dogmatiche ed è naturalmente portato a valorizzare ciò che unisce gli uomini (non sulla base della verità oggettiva, ma in senso appunto umanistico) e che anzi, magari implicitamente, vede il dogma come un ostacolo al "dialogo" e alla possibilità di stabilire una "pace perpetua" fra le nazioni, fondata sui comuni valori della tolleranza e del ripudio della forza (e dunque lasciando cadere la distinzione classica, soprattutto tomista, fra guerra giusta e guerra ingiusta).

Sono tendenze che continueranno a fermentare e che diverranno evidenti, fra gli altri, nel pensiero e nella figura dell’umanista, tedesco lui pure, Sebastian Franck (1499-1542), il quale fu dapprima prete cattolico, indi pastore protestante e da ultimo chiuse la sua vicenda su posizioni assai vicine all’anabattismo (che era respinto e combattuto sia dai cattolici che dai protestanti). Riteniamo che vicende umane e intellettuali come quella di Sebastian Franck non si possano spiegare solo nei termini, a nostro avviso riduttivi, della coerenza o incoerenza, e neppure nel senso "tattico" della ricerca di un modus vivendi che, nell’infuriare delle lotte, non solo fra cristiani e non cristiani, ma anche all’interno della cristianità, fra diverse chiese e diverse maniere d’interpretare la Rivelazione, ma richiedono un ricorso alle categorie filosofiche che sono specifiche della cultura umanistico-rinascimentale, prima fra tutte l’assolutizzazione della ragione umana in senso tendenzialmente soggettivistico e, quindi la contestuale svalutazione della metafisica, intesa, come lo era sempre stata, come la ricerca sull’essere in quanto essere e dunque del vero in sé. Mancano ancora tre secoli a Kant e al suo criticismo che dichiara inconoscibile la cosa in sé, ma c’è già stata la lezione, micidiale, di Guglielmo di Ockham (1288-1247), il quale afferma che tutta la conoscenza umana proviene solo dall’esperienza sensoriale e dunque di Dio e delle cose soprannaturali non può esservi scienza alcuna, ma solamente "fede".

Tornando a Nicola Cusano, citiamo una pagina dal saggio di Rudolf Stademann Il declino del Medioevo. Una crisi di valori (titolo originale: Vom Geist des ausgehenden Mittelalters, Halle-Saale, Max Niemeyer Verlag, 1929; traduzione dal tedesco di Franco Bassani, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 232-235):

L’anima razionalistica di Niccolò Cusano vedrebbe molto volentieri il prodursi di un armonico accordo in un mondo diviso dalle religioni, attraverso la purificazione di esse dal complesso delle rappresentazioni che le differenziano. Ma in lui il politico ed il pastore si limitano al riconoscimento dell’intima unità e ad imporre un tollerante rispetto delle particolarità nazionali e contingenti. Anzi, un certo contrasto nei particolari, soprattutto quanto ai riti e alle cerimonie, da un punto di vista educativo è anche auspicabile perché accende lo zelo senza recare danno all’unità. Con ciò la sua larghezza di vedute è maggiore di quella di un teismo dogmatico. Persino il teismo conserva ai suoi occhi una certa giustificazione, quando lo si intenda come venerazione dei santi: è tranquillizzante per il popolo poter ricorrere, nel bisogno, ad intercessori e soccorritori. Anche gli idoli degli indiani non sono nulla di male, nella misura in cui raffigurano il principio ed il creatore senza voler prenderne il posto. Analogo riguardo bisogna avere per le raffigurazioni di un paradiso sensibile degli arabi, nelle quali i cristiani hanno trovato tante ragioni di scandalo. Il legislatore coranico solo servendosi di tali immagini («per hanc similitudinem») poteva esprimere simbolicamente che l’al di là è il compimento di ogni desiderio; era questa la sola via possibile per portare ad un popolo ancora rozzo l’aspirazione verso ciò che è elevato. La formula più semplice del concordiamo è, anche qui, quella che ricorre ai superlativi mistici, che presentano la felicità dell’al di là come superiore ad ogni descrizione e, con ciò stesso, sottratta fin da principio ad ogni controversia: una nuova prova degli effetti relativistici e risolutivi che possono avere le categorie mistiche! È scomparsa la grande forza che animava il Medioevo, l’idea missionaria, lasciando il posto ad un ampio sguardo comprensivo che giustifica una varietà di usanze, di misure pedagogiche e di simbolizzazioni.

Come di è potuto giungere a questo punto? Sulle premesse di quell’intimo rilassamento del pensiero medioevale deve essersi prodotto un nuovo urto, un influsso immediato. In precedenza infatti lo stesso Cusano si era espresso in maniera molto netta contro saraceni e giudei, negatori del mistero del Golgota, nemici della natura divina di Cristo, esclusi dall’opera della grazia; ed ancora nel 1452-53 aveva affermato con energia e violenza lo «extra ecclesia [sic] nulla salus» contro gli eretici di Boemia. Ma lo scritto "De pace" è composto nell’inverno 1453-54, sotto l’impressione immediata della presa di Costantinopoli, ed in tutta l’opera si avverte il grave senso di pericolo che, per gli uomini del tempo, suscita il problema sempre aperto del mondo arabo [sic], da cui tutto deriva e a cui tutto si riconduce. Quanto fossero attuali le idee di un congresso internazionale a Gerusalemme, di maggioranza, di una pacificazione dell’Occidente mediante un’alleanza religiosa dei popoli, lo si vede dal fatto che Cusano si scosta spesso da una trattazione rigorosamente teorica del problema, rivolgendosi all’aspetto pratico, quando sembra necessario: crede di poter rinunciare a cuor leggero ad inserire anche gli ebrei in questa pacificazione, nel caso appunto in cui costoro le si oppongano, poiché, data l’esiguità del loro numero, «non sarebbero in grado di turbare l’ordine nel resto del mondo con la forza delle armi». Al suo amico spagnolo Giovanni di Segovia, che condivide le sue idee, Cusano scrive manifestandogli in tutta franchezza di aver paura di un confronto armato con gli arabi: «se preferiamo affrontare con la spada questi invasori, dovremo temere di perire di spada».

Ma anche in un senso più profondo la considerazione del mondo islamico fornisce lo stimolo alla teoria del teismo universale. Il maomettanesimo, con la sua ricca fioritura di sette ed ancor più la filosofia della religione araba, con la sua tolleranza, ben nota in tutto il tardo medioevo (per la quale viene in genere vivacemente biasimato) esercita la funzione di modello sulla concezione di Cusano. Il filosofo tedesco conosce i numerosi passi del "Corano" che affermano che chiunque invochi Dio e viva rettamente gode dell’amore di Dio, a qualunque confessione appartenga ed anche nel caso dovesse mutare fede. Come, più tardi, un’evidente preferenza per il mondo ebraico e la sua scienza ha stimolato Bodin ad uno studio comparato delle religioni, analogamente , nel suo precursore, una segreta simpatia per il mondo arabo è diventata il punto di partenza per una comprensione libera dei sistemi religiosi estranei.

Che dire di questo dialogo interreligioso ante litteram, in pieno XV secolo, e con la scimitarra del turco sospesa sul capo della cristianità? Come adombra Stadelmann, la forza di un credo religioso si misura dalla rigorosa affermazione dei propri principi; quando esso va in cerca di ragioni per addivenire a un accomodamento con il "mondo", ossia con le forze che lo rifiutano, magari in nome di un valore laico come la pace (perché la fede non teme la guerra, né la morte per testimoniare se stessa), allora è già sulla via del declino. Fra Guglielmo di Ockham e Nicola Cusano, cioè fra XIV e XV secolo, la fede cristiana è già in declino, e così il pensiero cristiano. E ciò appare evidente dal tipo di argomenti con i quali si cerca di giustificare il compromesso in vista di un modus vivendi con le altre religioni: i quali non hanno nulla a che fare con l’affermazione del vero, ma con le circostanze storiche, il che equivale a porre la dottrina su cui si regge la fede sul piano del relativo e non più dell’assoluto.

In questo senso, è significativo che per giustificare la ricerca del compromesso con gli ebrei e gli islamici si usino due argomenti speculari ed opposti, ma entrambi frutto di una visione quantitativa e non qualitativa del fatto religioso: gli ebrei infatti, essendo pochi, non sarebbero in grado di creare grossi problemi (quale macroscopico errore!, come se il numero fosse di per sé la forza), mentre con gli islamici, numerosi ed agguerriti, è meglio non tentare la prova delle armi, perché c’è il rischio di finire schiacciati… A meno che Cusano, quando sostiene che «se preferiamo affrontare con la spada questi invasori, dovremo temere di perire di spada», non alluda al timore di una sconfitta militare dei cristiani, ma a quello di uno stravolgimento del Vangelo, dal piano della forza spirituale e morale a quello della forza fisica, nel quale sarebbe sconfitto in ogni caso, perché tradirebbe l’insegnamento del divino Maestro. E qui appunto si fa sentire l’errore di aver abbandonato la nozione di guerra giusta, come difesa contro un’ingiusta aggressione, che ha sempre fatto parte della dottrina cattolica, e che adesso veniva ignorata, così come la ignorano tanti esponenti della Chiesa odierna, tutti presi dalla smania di affermare una dottrina che piaccia al mondo di oggi, vale a dire a una società illuminista e anticristiana.

L’ultima osservazione che facciamo — ma il brano di Stadelmann si presterebbe a un ben più ampio approfondimento, che trascende le nostre intenzioni ed eccede di molto i limiti di spazio che ci siamo imposti — è quella relativa alla mancata distinzione fra persone, e quindi anche popoli, da una parte, e fede religiosa dall’atra. Il Signore Gesù ha comandato di amare tutti gli uomini, non già tutte le fedi religiose. Al contrario, è stato molto netto, per non dire categorico, nell’ammonire: chi crederà (chi crederà al suo Vangelo: non al Corano, né al Talmud, che allora certo non esistevano, ma chi ci sta leggendo ci capisce perfettamente) e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato (Mc 16,16). Il concetto è molto chiaro: amare tutti gli uomini non significa, per un falso senso di umano rispetto, amare e tollerare anche la menzogna e ciò che rende impossibile la salvezza, ossia la persistenza nell’errore, astenendosi dal proclamare la verità. È una cosa molto semplice e la capirebbe anche un bambino. Strano che un così gran numero di teologi, da tanti secoli a questa parte, ma particolarmente negli ultimi sessant’anni, cioè dal Concilio Vaticano II, non arrivi a vederlo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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