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L’ateismo come fuga dalla responsabilità personale

Che cos’è l’ateismo? È innanzitutto ed essenzialmente una negazione ed un rifiuto: esso afferma che Dio non esiste, che il mondo è privo di uno spirito divino e che la sua origine non ha nulla a che fare con un atto creatore. Nel fatto però di questa negazione radicale si cela, evidentissima, una stridente contraddizione: il fatto che si nega qualcosa o qualcuno la cui esistenza appunto viene negata, ma che, per essere negata, in qualche modo deve essere presente alla coscienza — altrimenti non vi sarebbe alcun bisogno di negarla. Paradossalmente, negandolo Dio lo si pone; proprio come, negando il vero, indirettamente lo si pone, nel senso che si afferma il falso, e il falso è il contrario del vero; o come o negando la luce, la si presuppone, perché si pone il buio, e il buio è il contrario della luce, né sarebbe concepibile senza di essa.

Non siamo certi che il concetto sia tanto evidente quanto dovrebbe esserlo alla coscienza dell’uomo contemporaneo. Dire che l’ateismo è una negazione equivale a dire che non è un’idea che nasce dalla realtà, non è un’idea immediata ed auto-evidente: al contrario, è un’idea che nasce in contrasto con il sentire immediato e con il senso comune. Il senso comune suggerisce che se esistono le cose, allora deve esistere anche la loro causa; e per evitare una spirale infinita e inconcludente, si deve per forza postulare l’esistenza di una causa prima. Così ha sempre sentito l’uomo, in ogni epoca e sotto ogni cielo. L’uomo primitivo adorava le forze della natura, il sole, la luna e le stelle, oppure gli spiriti presenti nei boschi, nei fiumi, nei laghi; l’uomo antico adorava gli dèi, signori delle forze della natura e superiori ad esse: mai, in nessun luogo né presso alcun popolo, gli uomini hanno fatto a meno dell’idea di Dio, perché una tale idea/negazione ripugna tanto al senso comune quanto al bisogno profondo della natura umana. Nella natura umana vi sono delle aspirazioni, dei desideri, una tensione intima verso il bene, il vero e il bello, che trovano soddisfazione solo parziale e imperfetta nella realtà sperimentabile nel corso della vita; dunque appunto tale distonia fa ciò che il cuore e la mente desiderano, di cui sentono il bisogno, e verso cui tendono, e ciò che in effetti si incontra nel corso della propria vicenda esistenziale, rimanda a una realtà ulteriore, a una dimensione nella quale il bello s’incarna pienamente nella vera Bellezza, e il bene si realizza nella piena Bontà, e il vero trova conferma nella Verità suprema.

Così hanno sempre sentito gli esseri umani; e mano a mano che l’evoluzione storica ha prodotto la civiltà, tale bisogno si è venuto via via precisando, definendo, perfezionando. L’uomo ha smesso di temere gli spiriti e di adorare le forze della natura, e ha rivolto il corso dei suoi pensieri e la pienezza del suo sentire verso qualcosa di più alto, di più completo, di più complesso; verso Qualcuno che ha in sé le determinazioni più elevate del bene, del vero e del bello, e che come ha dato origine alle cose a e al divenire, così si pone quale meta finale di esse e supremo compimento e completamento di tutte e di ciascuna.

Pertanto l’ateismo, quale rifiuto e negazione dell’idea di Dio e della sua stessa possibilità, è un fenomeno moderno, nonché un fenomeno anomalo e per certi aspetti patologico. L’uomo che vede la realtà per quella che è, e che ama la vita e le sue manifestazioni, crede naturalmente in Dio: intuisce cioè che dietro tanta varietà e tanta bellezza di esseri deve esserci un essere che ne è all’origine; che gli enti non sarebbero, se non vi fosse un Essere che rende possibili tutti gli altri esseri, e conferisce loro lo statuto ontologico della realtà, dell’esistenza, della vita effettiva. L’uomo moderno è malato e incompleto: gli manca qualcosa, sia al livello della sensibilità, sia al livello della sana ragione naturale. La sensibilità ci dice che nulla esiste per caso, tanto meno un mondo così armonioso e perfetto; la ragione naturale ci dice che esiste una causa prima degli enti e una sorgente della legge morale, la quale è pure presente nell’animo umano, senza che se ne possa spiegare l’origine in termini casuali o immanentistici. La legge morale c’è, ed è un mistero che ci sia, ma è anche una conferma di un sentire immediato e istintivo: se così non fosse, di dove verrebbe all’uomo l’idea che certe azioni, certi comportamenti sono bene, mentre certe azioni e certi comportamenti sono male? E se esiste naturalmente, spontaneamente, la legge morale, allora deve esistere anche Qualcuno che l’ha impressa nei nostri cuori; Qualcuno che la fa vivere, che la attualizza, che la conferma continuamente, sebbene le circostanze concrete del vivere, sia individuale che sociale, tendano, di per sé, a smentirla o quantomeno a indebolirne la certezza e la probabilità. Tutti i giorni infatti possiamo vedere i malvagi affermarsi a scapito dei buoni; tutti i giorni possiamo vedere che i buoni soccombono e i malvagi realizzano i loro disegni, calpestando la legge morale. Nondimeno la legge morale esiste, e noi ne avvertiamo l’esistenza nella ripugnanza istintiva che proviamo davanti allo spettacolo del male scatenato e trionfante e del bene conculcato, vilipeso, calunniato e sconfitto — almeno in apparenza. Dunque la legge morale esiste; la morale naturale esiste: e ciò è una prova indiretta dell’esistenza di una sorgente soprannaturale di essa, poiché non sempre essa si presenta come una continuazione e una conferma della legge morale positiva, frutto delle consuetudini sociali e dell’educazione ricevuta da bambini; a volte, anzi, ne è la radicale confutazione.

Scriveva il filosofo Virgilio Melchiorre in una riflessione sull’ateismo contemporaneo (in: V. Melchiorre, Sul senso della morte, Brescia, Morcelliana, 1964, pp. 156-158):

Il fondamento di ogni scelta è l’atto libero, ma quest’atto a sua volta è fondamento fondante o fondamento fondato? Può essere inteso senza contraddizione come assoluto o deve appellarsi ad un ulteriore rapporto? Se vale quanto ho già scritto prima, ne consegue un aspetto singolare della libertà: in definitiva, essa è da sola impotente a provocare una scelta. L’uomo, come dicevo, è per un verso spinto a trascendere ogni suo oggetto nella correlazione di tutti gli oggetti possibili, per l’altro non può reperire in questa correlazione nulla che in qualche modo lo determini ad un qualsiasi oggetto: questa correlazione è essa stessa costituita nel segno della possibilità. Chi, dunque, cerchi ragioni assolute alla sua scelta, approderà nel silenzio difficile della malinconia, cioè nella convinzione esistenziale che una assoluta trascendenza lo trascende e lo fonda, e che per agire egli deve abbandonarsi a quella divina assenza. A questo punto la responsabilità della scelta viene toccata in tutta la sua gravità: niente mi obbliga a volere un oggetto, ma a quell’oggetto io rispono e, poiché esso non chiama in modo decisivo, la mia risposta pesa tutta su me. L’abbandono e la fede con cui scelgo non tolgono questo peso, anche se lo fanno più leggero. Non lo tolgono perché non tolgono l’incertezza e la non assolutezza che ì’hanno provocato: Dio mi aiuta a scegliere ma non può rendere necessario ciò che per essenza è solo possibile. Ecco perché la tentazione più forte è quella di fuggir el’esercizio integrale della scelta: tentazione di annullare il peso ambiguo della responsabilità lasciando che altri decida ciò che non possiamo decidere, lasciando che altri ci procuri e ci finga le certezze che non troveremo mai. Quando si ceda a questa tentazione, s’aprono i plebisciti e dai plebisciti il dittatore che si proclama foriero di sicurezza e di tranquillità. E nascono le discipline autoritarie con l’incredibile tono d’entusiasmo o di festa: nuovo rito domenicale ammantato di clamori assordanti. Al fondo della propria vita responsabile l’uomo avrebbe dovuto avvertire una ulteriorità assoluta ed in nome di questa scegliere, ma la solitudine che precede quel passaggio metafisico gli sembrò insopportabile ed egli la fuggì. In quel punto egli si rendeva responsabile dell’assenza di Dio, ma ad un tempo fuggiva proprio la responsabilità e così l’assenza di Dio ora non lo riguarda più: non ha alcun senso e di conseguenza non ha alcun senso una qualsiasi affermazione di Dio. L’ateismo non è più una ribellione, è ormai una constatazione.

Dicevo che in tal modo il fenomeno ateo diviene un fenomeno politico. Resta, però, da precisare come un concreto sia oggi possibile una fuga dalla responsabilità singolare. Il che non può essere fatto, se non rifacendosi alle strutture essenziali della società contemporanea: strutture segnate dal primato della fabrilità. E, poiché la fabrilità sembra caratterizzarsi in una crescente divisione del lavoro, dovremo chiederci in quale misura questo tipo di fabrilità condizioni e favorisca la fuga dalle responsabilità individuali. Come si ricorderà, muoveva da una considerazione integrale dell’uomo responsabile. In tal senso dicevo che non v’è responsabilità, se non come risposta a qualcosa o qualcuno, se non come risposta ad un oggetto. E dicevo ancora che il lavoro diviso allontana gli oggetti ed astrae l’uomo dai suoi oggetti: ciò che del mondo viene dato all’uomo egli non lo conosce, non vi si riconosce, non vi si è oggettivato, non vi ritrova una sua risposta. La sua coscienza responsabile è lì, vuota, leggera, senza problemi: difficilmente sopporterà il gioco più radicale della libertà, difficilmente vorrà misurarsi con l’assente presenza di Dio.

Anzi, d’ora in poi ogni rapporto a Dio diviene pericoloso per il buon andamento delle catene di lavoro: una ripresa di responsabilità sarebbe un arresto, una distrazione di quanto corre così facilmente.

Per questo l’impresa del lavoro diviso deve disfarsi di ogni vita religiosa o deve annullarne il senso più autentico…

Dunque: l’idea di Dio è presente istintivamente alla coscienza, ma non con una forza di persuasione tale da fugare ogni dubbio. Se così fosse, non si tratterrebbe di un’idea, né, tanto meno, di un bisogno o un desiderio, ma di un fatto: e i fatti parlano da soli, poiché contra factum non valet argumentum. Invece l’idea di Dio c’è, ma tende a nascondersi, a eclissarsi; e quando più ne avremmo bisogno, ad esempio allorché siamo immersi nella sofferenza, tanto più pare farsi elusiva, quasi inafferrabile. Si direbbe che non tenga conto del nostro bisogno, che non si curi dei nostri richiami. Come mai?

A questo punto è necessario introdurre il concetto della libertà e della sua naturale conseguenza, la possibilità. L’uomo è libero: e la libertà consiste nell’esercitare (o non esercitare, sia ben chiaro) una facoltà di scelta. Ma perché l’uomo è libero? È libero perché, unico fra tutti i viventi, può decidere cosa fare e a quale oggetto indirizzare il suo desiderio, la sua sete di esistenza. La pianta e l’animale non possono; sono legati all’istinto, che li muove a dirigersi in maniera determinata e non libera a ciò che assicura loro la sopravvivenza. Ma l’uomo no; l’uomo può anche scegliere di lasciarsi morire, di lasciarsi impazzire, oppure di oltrepassare se stesso onde affermare qualcosa che non corrisponde ai suoi bisogni concreti, ma a un’idea, a un’aspirazione, a un bisogno invisibili, e quindi spirituali e, in quanto spirituali, sottratti alla necessità del mondo materiale. L’uomo, e l’uomo solamente, può scegliere cosa fare e decidere cosa essere: può innalzarsi al livello degli angeli o abbassarsi a quello dei demoni. L’uomo può darsi dei fini trascendenti, e può orientare la propria vita verso un oggetto oppure un altro, completamente diverso; diverso non solo perché dissimile, ma perché appartenente a tutt’altra sfera morale. L’uomo e soltanto l’uomo può prendere a modello i Santi e scegliere il bene per il bene, anche pagando il prezzo inevitabile della incomprensione, della derisione e della persecuzione; oppure prendere a modello gli individui più malvagi e perversi, e divenire crudele e insensibile come un mostro, compiendo il male in perfetta consapevolezza, il male per il gusto del male.

Ora, se la libertà implica la possibilità, è pur vero che la possibilità è, da un certo punto di vista, qualcosa di scomodo. Vivere sempre al bivio, sempre dovendo decidere di scegliere, e cosa scegliere, è faticoso: va contro una certa qual pigrizia che si annida naturalmente nell’anima umana. D’altra parte, anche il bisogno del vero, del bene e del bello fanno parte del bagaglio naturale dell’anima: per cui la dimensione concreta dell’esistenza umana si articola in una dialettica incessante fra la pigrizia naturale, ossia il rifiuto della scelta e della possibilità, e l’accettazione piena e coraggiosa di esse, che equivale a una vita costantemente protesa oltre il proprio limite, e costantemente impegnata nella battaglia contro le forze opache sia interne che esterne, le quali si oppongono alla tensione dell’uomo verso le dimensioni spirituali superiori. Si tratta di una battaglia senza esclusione di colpi, alla quale partecipano il Cielo e l’inferno. L’uomo, proiettato al centro della dimensione cosmica, è chiamato a fare una scelta suprema, irrevocabile, che non è solo la scelta fra questa o quella possibilità, ma la scelta assoluta della possibilità assoluta, ossia la scelta come condizione essenziale della mia stessa esistenza. Esisto, dunque sono libero; e sono libero, dunque posso e devo scegliere. E gli effetti della mia scelta saranno tali da determinare tutto quel che sono e che sarò, già in questa vita e tanto più nell’altra, la vita eterna della mia anima. In questa prospettiva, è chiaro cosa sia l’ateismo: una fuga dalla libertà e il rifiuto della possibilità di scegliere.

Questo per quanto riguarda l’ateismo come scelta individuale di non scegliere; come rifiuto della possibilità stessa della scelta, la quale, innalzando l’uomo al di sopra della sfera puramente fisiologica, lo costringe a decidere della propria vita, in un senso o nell’altro. Come fenomeno sociale, Virgilio Melchiorre fa notare che una società atea è una società naturalmente portata verso un sistema totalitario, perché in un simile regime gli uomini, intesi come collettività, vengono sollevati dalla responsabilità di assumere una posizione e di compiere una scelta: nei regimi totalitari vi sono delle direttive che assegnano a ciascuno il suo compito e vi sono degli obiettivi che sono dati per tutti, senza richiedere alcun contributo alla decisione individuale. In altre parole, nei regimi totalitari si sposta la questione della scelta dal piano personale a quello impersonale e dalla dimensione della libertà, e quindi del rischio, a quella della necessità, dove tutto quel che si chiede alla gente è di credere e obbedire, e null’altro. Si noti peraltro che la società totalitaria non viene determinata in quanto tale solo dal fattore politico e ideologico, ma già la divisione capillare del lavoro prefigura una situazione totalitaria, e perciò deresponsabilizzante nei confronti del singolo individuo.

Lo stiamo vendendo, fin tropo bene, in questo ultimi due anni di falsa emergenza sanitaria, maschera e paravento di una volontà feroce totalitaria imposta da poteri esterni ed estranei alla società stessa. Là dove il lavoro è estremamente suddiviso, anche la responsabilità è proporzionalmente parcellizzata e minimizzata. Ad esempio, se a un medico non si chiede più di guarire il paziente, ossia di farsi carico della totalità della salute del paziente, ma gli si impone solamente di applicare dei protocolli, egli potrà sempre nascondere e tacitar eventuali scrupoli di coscienza dicendo a se stesso che non si deve sconfinare oltre il proprio ambito di competenza, e che dopotutto, quando egli ha fatto bene la sua parte di anestesista, di cardiologo, di pneumologo, ecc. ha fatto tutto quel che legittimamente si può pretendere da lui. Il che è una menzogna colossale, ma una menzogna che torna molto utile agli spiriti pigri e agli animi vili, più che mai desiderosi di sbarazzarsi del pesante fardello della libertà e della relativa possibilità di scegliere: aut-aut, diceva il buon Kierkegaard; o questo o quello…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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