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Ecco allora che scopriamo come il verbo essere assume due possibili significati: da un lato l’esistenza, dall’altro le proprietà di un certo ente. Ad esempio, la proposizione questa è una mela, contiene sia l’affermazione che qualcosa c’è, vale a dire una mela, sia che questo qualcosa possiede alcune proprietà che la definiscono: la forma, il colore, il peso, ecc. Vi sarebbe poi un terzo significato, quello d’identità, come nella frase: la mela è il frutto del melo, la quale asserisce che i frutti di quel certo albero sono le mele, e non altri; oppure nella frase gli italiani sono gli abitanti dell’Italia, la quale definisce il criterio per identificare gli abitanti di ciascun Paese. Ma questo terzo significato resta all’interno della definizione di una cosa, per cui non si presta ad alcun ulteriore ampliamento della conoscenza.
Consideriamo perciò più da vicino i primi due significati. Primo, l’esistenza. Le cose sono, le cose esistono: non è detto che debbano esistere solo nella forma materiale, ad esempio anche un sogno o una fantasticheria esistono, e il cavallo alato descritto dai poeti esiste così come esiste il cavallo reale, privo di ali, che pascola nel prato: ovviamente in un altro piano di realtà, ma pur sempre in una certa forma d’esistenza. Tutto ciò che è, esiste: se non esistesse, non sarebbe; ma allora sarebbe non-essere, e il non-essere, parlando in maniera rigorosa, non è nemmeno pensabile, perché il pensiero è capace di pensare solo l’esistente, concreto o ideale che sia, attuale o possibile (potenziale), ma non il non-esistente, che per definizione è impensabile e inintelligibile. Perciò il pensiero è sempre e comunque pensiero di ciò che esiste, pensiero dell’essere; e le filosofie, come quella hegeliana, che pongono sul medesimo piano essere e non essere, delirano, perché accordano al non essere, che è una mera impossibilità logica, una consistenza effettiva e quindi una qualche forma di esistenza, il che è contraddittorio in se stesso. Se qualcosa non è, come è possibile pensarla o predicare una qualsiasi proprietà che la contraddistingua? Nulla si può predicare del non-essere, che è il nulla per definizione: poiché il non-essere non è qualcosa che si contrappone all’essere, ma è semplicemente assenza di essere, dunque assenza di esistenza e di realtà. Abbiamo detto che l’essere è ciò che è: il non essere dunque non è ciò che non è, non lo si può definire in termini assertivi, ma solo in termini negativi. Non è qualcosa che non è, poiché in tal caso sarebbe pur sempre qualcosa, e sia pure una carenza. Non esiste e pertanto non lo si può definire come ciò che non esiste (perché quel ciò sarebbe pur sempre un’affermazione positiva), bensì come assenza di essere e quindi come nulla, un buco vuoto e un limite del pensiero. Possiamo tuttavia dire che esso non è, adoperando il linguaggio comune, ma solamente a scopi pratici: purché non ci scordiamo mai che si tratta di una semplice convenzione e che in realtà non stiamo parlando qualcosa, ma stiamo tentando di definire il nulla.
In questo senso, il concetto di non-essere presenta delle analogie con il concetto di punto (con il concetto, non il punto che possiamo disegnare sul foglio a titolo di esercitazione geometrica, il quale ha pur sempre una certa estensione e dunque è una realtà concreta ed effettiva), poiché anch’esso si pone sul limite estremo del pensiero, in quanto tenta di definire qualcosa che, propriamente parlando, non è: tanto è vero che un segmento, linea definita dello spazio, può essere a sua volta suddiviso in infiniti segmenti, il che mostra che i punti che lo intersecano sono infiniti e dunque non solo sono immateriali perché privi di estensione (benché definiscano una porzione di spazio, il quale è un’estensione), ma sono anche "irreali", poiché se un elemento fisico è suddivisibile all’infinito, allora non appartiene al mondo dell’intelligibile, ma ad una realtà della quale si può aver nozione solo in maniera intuitiva e tale da sottrarsi a ogni proposizione definitoria. Ora, quando noi diciamo che una cosa è, la stiamo definendo: diciamo che una rosa è rossa, che un fiore è profumato, che un cubo ha sei facce, ecc. Ma se diciamo di qualcosa che è al limite del pensiero, perché non lo si dà in maniera definita o definibile, ma solo come concetto-limite, ossia come assenza o privazione dell’essere, allora è chiaro che ci stiamo muovendo su un terreno diverso da quello del ragionamento discorsivo, il quale si basa su definizioni chiare e precise.
È interessante osservare che non solo il pensiero del non-essere, ma anche il pensiero dell’essere si colloca sul limite estremo dell’intelligibile. Infatti, come il non-essere sfugge a ogni determinazione e si sottrae a qualsiasi definizione, proprio perché non è e quindi nulla si può predicare in merito ad esso, analogamente anche il pensiero dell’essere in quanto tale, dell’essere in quanto essere, e non di questo o quel genere di essere (della rosa, del fiore, del dado, ecc.) si sottrae a qualunque determinazione e a qualunque predicato. Dell’essere in quanto essere non si può dire che è rosso o di qualsiasi altro colore; non si può dire che è duro o molle; né che è profumato o inodore: insomma non si può dire nulla, perché solo dell’essere predicativo si può dire che possiede questa o quella proprietà. Si può dire il colore della rosa o il profumo del fiore o il numero delle facce di un parallelepipedo: ma non si può dire nulla, assolutamente nulla, dell’essere in sé. Ed eccoci al secondo significato di essere, cioè l’esistenza. Quando diciamo che il fiore è, non che è di questo o quel colore, non che ha o non ha un certo profumo, ma soltanto che è, intendiamo dire che esiste, ed è il fatto di esistere che gli consente di avere determinate proprietà, le quali possono esser predicate. Questo ci fa capire che l’essere, inteso come l’esistere, non è una modalità dell’esistente, ma il suo presupposto: se una cosa non esiste, non ha alcuna proprietà; se esiste, ha delle proprietà. Ad ogni modo è il fatto di esistere che la rende soggetto di certe proprietà, e quindi fa sì che si possa determinare per ciò che è, distinguendosi da ciò che non è, ad esempio da altre cose, magari simili, che tuttavia possiedono differenti proprietà. È per questo che si riconosce un cavallo in mezzo a un branco di mucche; ed è per questo che si riconosce un cavallo bianco in mezzo a dei cavalli grigi o neri o pezzati.
In altre parole, l’essere in quanto essere esiste, ma è indeterminato, ed è la sua indeterminatezza che gli consente di fornire il supporto ad ogni forma determinata dell’esistere. Ma ciò che è indeterminato è un limite per il pensiero: dunque il pensiero dell’essere è un pensiero-limite, così come lo è quello del non-essere. A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che stiamo parlando del pensiero dell’essere e del pensiero del non-essere, e non dell’essere e del non-essere in sé. È la stessa cosa, o una cosa diversa? L’essere e il pensiero dell’essere sono identici o sono distinti? No, non è la stessa cosa: sono due cose diverse. E lasciamo che i vari Kant e i vari Hegel affermino che la cosa in sé, e dunque l’essere, è inconoscibile, e che il pensiero crea il mondo, quindi crea anche l’essere: sono solo sciocchezze. Il mondo esiste fuori di noi, anche se noi non lo pensiamo: il fatto che lo conosciamo attraverso la nostra mente non significa che è un prodotto della nostra mente (questa sarebbe una tipica conclusione maggiore delle premesse). E dunque è falso che l’essere sia sottomesso al pensiero e che sia determinabile dal pensiero (soggettivo): l’essere è l’essere, cioè la base e il fondamento di tutto l’esistente; se non ci fosse, nulla esisterebbe, neppure il pensiero. Se ne facciano una ragione gli idealisti e i loro degni continuatori logici, i soggettivisti (cartesiani o non cartesiani) e i solipsisti (esistenzialisti o meno). È proprio perché l’essere esiste assolutamente, e dunque senza determinazioni, che le cose esistono e sono determinate; e proprio per questo il pensiero dell’essere non è la stessa cosa dell’essere in sé. D’altra parte, in quanto indeterminato e indeterminabile, l’essere in quanto tale non è neppure pensabile: si deve credere in esso per ragioni logiche e ontologiche, diciamo per sottrazione, poiché la sua inesistenza renderebbe impossibile l’esistenza di tutto il resto. Però non si può andare oltre: non si può arrivare in alcun modo a determinare l’essere, a definirlo, a collocarlo entro il nostro orizzonte mentale. L’essere è ciò che eccede necessariamente il nostro pensiero e la nostra esperienza: è come la luce, che rende visibili le cose all’occhio, ma non si vede in se stessa, se non in contrasto con la sua assenza (il buio), proprio come l’essere è rivelato per sottrazione dal non-essere, benché il non-essere, a sua volta, proprio come il buio che è assenza di luce, può essere colto intuitivamente ma non discorsivamente. Prendiamone atto: la filosofia non può spiegare tutto con il ragionamento logico e discorsivo: esiste un limite oltre il quale essa non può andare se non mediante un’intuizione che non può essere definita per mezzo delle regole del pensiero razionale. Il che non significa che si tratti di un salto nell’irrazionale, bensì della doverosa presa d’atto che la ragione logico-discorsiva può farci conoscere e descrivere molte cose, ma non tutte: non la causa prima e la causa finale dell’esistente, che è l’essere in quanto essere.
Ma l’essere in quanto essere, se non vogliamo risalire all’infinito nella catena delle sue manifestazioni e dunque delle sue cause, è Dio. È così che si risale dagli esseri, ovvero dagli enti, all’essere che origina ogni essere: l’Essere con la lettera maiuscola, che è Dio; è allora che tutto il quadro dell’universo, formato da elementi diversi e sovente discordanti, appare dotato di senso e di un fine. Notiamo infatti che quando si dice che una certa cosa è, in effetti si intendono due livelli di esistenza: uno assoluto e indifferenziato e uno relativo e differenziato. Così, ad esempio, se diciamo che in questa stanza c’è un tavolo, da un lato intendiamo che esiste un tavolo, dall’altro che esiste proprio quel tavolo, con quella forma, quel colore, quelle dimensioni, ecc. La prima asserzione è assoluta (relativamente parlando, perché di veramente assoluto c’è solo l’Essere che è Dio) e indeterminata, perché prescinde dalle caratteristiche specifiche del tavolo e lo coglie nella sua esistenza generica; la seconda è relativa e determinata, perché lo coglie nelle sue qualità (primarie e secondarie: la distinzione di Locke fra queste e quelle è semplicemente ridicola) e dunque nella sua essenza, in ciò che lo fa essere proprio quel tavolo e nessun altro. Pertanto appare che qualsiasi cosa può essere colta come esistente, e dunque essere in quanto essere, e al tempo stesso come ente, cioè come esistente in un determinato tempo e luogo e con determinate qualità. Molti problemi filosofici nascono dalla confusione di piani fra questi due significati del vocabolo essere, che talvolta è adoperato in senso generale e talvolta come ente, ossia in senso particolare; e ciò perché essere ed ente hanno la stessa radice semantica, nel primo caso si tratta di una forma infinitiva sostantivata e nel secondo di un participio del medesimo verbo. Quel che importa è che l’essere non si pone solo come oggetto del pensiero, ma anche come soggetto: è il Pensiero di Dio, la parola di Dio, il Logos, che rende possibile l’esistenza di tutte le cose.
E tuttavia, domanderà qualche amico particolarmente esigente (ed è una cosa buona essere esigenti in filosofia: bisogna puntare al massimo della conoscenza possibile!), come possiamo sapere che il pensiero dell’essere, così inteso, cioè in senso aristotelico e tomista, non è un pensiero "vuoto", un pensiero del nulla, come invece sosteneva Hegel? Rispondiamo: solo pensando l’essere come essere "pieno", ossia come ciò che sostiene e rende possibile ogni forma di esistenza, troviamo la coincidenza di essere ed ente: l’essere con la sua indeterminatezza, ma perciò appunto con la sua infinita potenzialità, e l’ente come cosa determinata e perciò come esistenza concreta e fattuale. Nell’essere così concepito, dunque, potenza e atto diventano una cosa sola, si fondono e si completano: il tavolo c’è perché è qui, con queste dimensioni, questa forma, questo colore; ma ha queste dimensioni, questa forma, questo colore ed è presente in questa stanza per il semplice fatto che esiste, e contra factum non valet argumentum, è inutile perder tempo con sofismi e fumisterie quando si tratta di prendere atto della realtà. Davanti alla realtà noi ci dobbiamo inchinare: non siamo noi a crearla, essa esiste e abbraccia anche la nostra mente che s’interroga e il nostro inesausto bisogno di conoscere e di comprendere. Ha torto Cartesio quando afferma che il mondo esiste perché noi lo cogliamo nel nostro dubitare; e hanno ragione Aristotele e san Tommaso d’Aquino allorché affermano che il nostro conoscere non può né deve essere soggettivistico, ma oggettivo, e quindi sfociare in una visione realistica del mondo.
Ma noi come lo sappiamo che il mondo esiste, che la "realtà" esiste: vogliamo dire oggettivamente, e cioè anche al di fuori della nostra mente? Lo sappiamo perché, come insegnava Antonio Livi, tale certezza immediata fa parte del senso comune, ed è il presupposto di ogni altro sapere e di ogni altro conoscere. C’è un mondo, là fuori; ci sono degli io simili al nostro; ci sono dei movimenti e delle cause, che portano ad una causa prima; e c’è una legge morale. Quando diciamo che le cose ci sono intendiamo dire che esistono, e proprio in quel determinato modo, il che vale anche per la nostra esistenza. Abbiamo un causa, abbiamo un fine: cogliere il reale qual esso è: cogliere l’Essere.
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