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La Regalità di Cristo in un sermone di s. Tommaso

Le lezioni accademiche non erano il solo strumento in cui avveniva la trasmissione del sapere e la comunicazione culturale, in particolare quella teologica e religiosa, dell’uomo medievale. A volte dei predicatori molto colti, oltre che eloquenti, spesso appartenenti all’ordine di san Domenico, altre volte gli stessi professori ordinari delle facoltà, dedicavano tempo ed energie alla catechesi diretta dei fedeli, mettendo al servizio della pastorale le loro enormi risorse logiche e dialettiche e impressionando profondamente l’uditorio con delle predicazioni specifiche che avevano la proprietà d’imprimersi per sempre nell’anima e nella memoria di quanti, assiepandosi in atteggiamento di riverente ascolto, potevano fruirne nelle chiese o in altri luoghi pubblici, come i sagrati delle cattedrali e le piazze cittadine.

Per noi moderni, abituati a parlare in collegamento internet o quanto meno a utilizzare strumenti tecnologici come microfoni e amplificatori, è molto difficile capire come tali appuntamenti fossero delle preziosissime occasioni di crescita intellettuale e spirituale, indirizzate non solo a un pubblico di specialisti, addentrati nelle discipline teologiche e filosofiche, ma anche per gli illetterati: poiché quei predicatori possedevano la straordinaria capacità di andar dritti alla mente e al cuore di ogni genere di uditore, colto o ignorante, evitando inutili digressioni e artifici dialettici fine a se stessi e facendo vibrare le corde più profonde di un pubblico che, per quanto variegato, aveva una caratteristica comune: l’umiltà nell’ascolto della parola. Tale umiltà veniva in parte dal prestigio e dall’autorevolezza del singolo predicatore, ma in parte assai maggiore da un altro fattore, oggi pressoché smarrito e dimenticato: la consapevolezza che, come in una lectio divina, la parola del predicatore è solo lo strumento di cui si serviva la Parola di Dio, il Logos medesimo. Da ciò il silenzio denso di attenzione e carico di aspettativa; da ciò la ferma volontà di non mancare all’appuntamento, conquistandosi un posto, magari in piedi, magari disponendosi ad un’attesa assai paziente, in modo da non perdere nemmeno un una parola del sermone, dal principio alla fine. La gente non si recava a simili appuntamenti per sbadigliare, non vedendo l’ora che finissero, ma al contrario con una fortissima motivazione, perché cercava in essi un aiuto alla vita, un conforto nelle proprie difficoltà esistenziali, una saggia indicazione nei passi perigliosi che tutti, prima o poi, si trovano a dover affrontare.

Insomma, l’uomo medievale sapeva riconoscere il buon grano dal loglio; non si faceva incantare facilmente dalla chiacchiere come oggi si crede, e come una lunga traduzione denigratoria ci ha indotti a ritenere, ma era suo modo esigente, un po’ come lo sono i bambini, ai quali non è possibile raccontare cose fasulle, perché essi colgono, anche se non sul piano razionale o non solo sul piano razionale, la profondità, la solidità e la sincerità delle cose che vengono dette loro e la credibilità di colui che le dice, assai più di quanto non si sarebbe portati a immaginare. Infatti l’uomo medievale era semplice, non stupido; era in certo qual modo primitivo, e perciò immediato e spontaneo, ma tutt’altro che credulo e superstizioso nel senso che dall’illuminismo in poi è entrato nel nostro immaginario, e che film e romanzi continuano a propagandare. Ma soprattutto l’uomo medievale amava la vita: l’amava come la amano le persone semplici e immediate, d’istinto, e anche perché sorretto e orientato da una visione complessiva, quella elaborata dal cristianesimo nel corso di molti secoli, che vedeva nella vita un passaggio talvolta doloroso, ma comunque necessario, nel quale ciascuno è chiamato a fare buon uso dei propri talenti e non sono ammesse pigrizie e infingardaggini, perché alla fine di essa verrà chiesto di rendere conto di come la si è adoperata. Dunque l’uomo medievale non prendeva la vita alla leggera, ma con tutta la dovuta serietà, fino alla sua conclusione naturale che è la morte: la quale poteva forse inquietarlo e spaventarlo, ma non terrorizzarlo né prenderlo alla sprovvista, perché non era succube della suggestione, tutta moderna, che essa sia un fastidioso inconveniente destinato prima o poi prima a venire rimosso, e inoltre perché la vedeva spessissimo, anche in casa propria, come oggi non accade più, ad esempio con la morte precoce di alcuni dei suoi numerosi figli, o con la morte per setticemia della moglie al momento del parto.

Prendiamo uno di questi sermones a titolo d’esempio: quello pronunciato da un predicatore d’eccezione, san Tommaso d’Aquino, per diffondere una verità della dottrina cattolica – quella della Regalità di Cristo – a Parigi, nella prima domenica d’Avvento del 1270, che illustra con la sua magistrale, insuperabile chiarezza. Partendo dal versetto Ecce rex tuus tibi venit mansuetus (Mt 21,5) egli sviluppa l’argomentazione distinguendo quattro tipi di Avvento, e passa a considerarli uno ad uno. Per ragioni di brevità riportiamo qui solo l’introduzione e saltiamo anche il prothema, cioè l’invocazione — piuttosto rara nelle omelie destinate ai laici — a Dio per ottenere il suo speciale aiuto, per il predicatore o anche per i suoi ascoltatori; il testo è quello stampato da L. Leclercq in L’Idée de la royauté du Christ au Moyen Age, Paris, Edtions du Cerf, 1959, pp. 84-87 (con il testo latino e la traduzione in italiano di Carlo Delcorno, in: La predicazione nell’età comunale, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 94-95):

ECCO IL TUO RE VIENE A TE MANSUETO (cfr. Matteo 21,25 e Zaccaria, 9,9).

Questo testo è tratto dal Vangelo d’oggi: sono parole di Zaccaria, con una piccola modifica. In questo versetto ci è chiaramente annunziato l’avvento di Cristo Per evitare ambiguità, sappiamo che la Scrittura parla di quattro avventi di Cristo. Il primo è l’Incarnazione, mediante il quale viene nella carne; il secondo avvento è la sua venuta nella mente del cristiano; il terzo è la sua venuta alla morte dei giusti; infine, il quarto è quando viene a giudicare.

Il primo avvento è nella carne umana: non vi si deve intendere un mutamento di luogo, poiché dice in Geremia: «Io riempio cielo e terra». Dunque come s’incarnò? Dice che venne nella carne scendendo dal cielo, non lasciando il cielo ma assumendo la nostra natura. È quello che intende Giovanni: «Venne nella sua dimora». E in che termini si può parlare della sua presenza nel mondo? Dicendo: «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14). Badate che questa venuta prelude a un altro avvento di Cristo, che è nella nostra mente. L’Incarnazione di Cristo non ci servirebbe a nulla, se egli non venisse nella nostra mente santificandoci. Si legge in san Giovanni: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui» (Gv 14,23).

Nel primo avvento viene solo il Figlio; nel secondo Egli viene col Padre per abitare nell’anima. Per questa venuta, mediante la grazia santificante, l’anima è liberata dalla colpa, non però dalla pena, in quanto si riceve la grazia, ma non ancora la gloria. Perciò è necessario il terzo avvento di Cristo: quello si verifica alla morte dei santi, e che consiste nel riceverli presso di lui. Dice a questo proposito Giovanni: «Se parto», con la Passione, «e preparo a voi un luogo», togliendo ogni ostacolo, «io ritornerò a voi», al momento della morte, «e vi porterò con me», cioè nella gloria, «perché dove io sono, lo siate anche voi» (Gv 14,3). E sempre nel Vangelo di san Giovanni dice: «Io sono venuto perché abbiano la vita», cioè la mia presenza nelle loro anime, «e l’abbiano con più abbondanza» (Gv 10,10), cioè partecipando alla gloria.

Un quarto avvento di Cristo sarà al Giudizio, quando il Signore verrà a giudicare: allora la gloria dei santi si estenderà al loro corpo e i morti risusciteranno. Perciò dice san Giovanni: «Ecco viene l’ora in cui tutti quelli che sono nel sepolcro udiranno la voce del Figlio di Dio, e in cui gli operatori di bene risusciteranno alla vita» (Gv 5,28-29). Probabilmente a causa di queste quattro venute di Cristo la Chiesa celebra quattro domeniche d’Avvento.

Questo è un buon esempio di come, nella cultura e nella spiritualità medievali, si potesse fare un discorso edificante dal punto di vista religioso e morale, che era, al tempo stesso, un discorso di livello buono o anche ottimo sul piano teologico e filosofico, ossia fondato sulla razionalità oltre che su una conoscenza puntuale e amorevole delle Scritture; e di come uomini di grande valore intellettuale non disdegnassero di scendere dalla cattedra per rivolgersi alle masse popolari, per istruirle ed edificarle, innalzandole verso la verità e non, come si vede oggi sempre più spesso, abbassando se stessi e la materia trattata al livello di un pubblico incolto e superficiale, quasi cercando di blandirlo e così assecondandolo nelle sue cattive abitudini. È chiaro che ciò presupponeva la serietà e l’autorevolezza, sia scientifica che morale, del predicatore; e non è detto che fosse ancora sufficiente, poiché abbiamo casi documentasti nei quali predicatori di grande autorevolezza e addirittura in fama di santità, potevano trovarsi alle prese con situazioni impreviste e difficili da gestire, perfino potenzialmente pericolose. Tale fu il caso accaduto nel 1227 a san Antonio di Padova durante una predica tenuta a Udine, all’aperto, nel borgo di Pracchiuso, utilizzando come pulpito il ramo di un grande albero, allorché egli si vide costretto a interrompere il suo sermone e darsi alla fuga dinanzi alla reazione di una folla furibonda (vedi il nostro articolo: «Tu, o Dio, ti sveli nelle profondità della memoria», pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 14/12/21). E simili episodi potevano verificarsi perché, anche indipendentemente dal valore del predicatore, dalla sua cultura, dal suo tatto nel rivolgersi alla folla, altri fatti, accaduti di recente e non direttamente legati a quella specifica predicazione, potevano gettare fin dall’inizio un’ipoteca sul buon esito di questa: ad esempio una sentenza severa del tribunale dell’Inquisizione, spesso formato da frati domenicani, poteva determinare uno stato di tensione latente fra la popolazione di un certo luogo e i frati predicatori, e allora un determinato sermone poteva agire come la pietra focaia che dà esca a un incendio.

Come si è detto, l’uditorio medievale era formato da persone la cui psicologia e la cui vita, sia sociale che interiore, era molto diversa da quella degli uomini d’oggi. Alle persone comuni che affollavamo una chiesa o una piazza per ascoltare il sermone di un predicatore non interessavano questioni astratte e puramente teoriche, come invece sovente avviene nelle conferenze: ciò che lo muoveva era un interesse concreto, un bisogno di avere certezze riguardo alla dimensione morale e a ciò che comportava dare un determinato indirizzo alla propria vita lavorativa, familiare e pubblica. Non erano rari i casi di noti usurai e strozzini o quali, colpiti dai contenuti di uno di tali sermoni atterriti dalla prospettiva della dannazione eterna, si gettavamo in ginocchio, domandavano perdono alla comunità per i loro illeciti guadagni e stabilivano seduta stante di versare alla chiesa cifre cospicue da adoperare per qualche forma di beneficenza a favore dei poveri, delle vedove, degli orfani, ecc. È noto che la Cappella degli Scrovegni a Padova, con il meraviglioso ciclo di affreschi di Giotto, è stata innalzata da un banchiere-usuraio di quella città, il quale ha voluto così bilanciare in senso spirituale i suoi enormi guadagni finanziari, ottenuti non andando troppo per il sottile quanto ai metodi, e così offrire a Dio un segno di ravvedimento e alla propria comunità parrocchiale quasi una forma di risarcimento, poiché erigere una chiesa equivale a lasciare qualcosa di prezioso, dal punto di vista spirituale, che faccia un po’ dimenticare, o perdonare, il fatto di essersi arricchito speculando sugli interessi pretesi sui prestiti di denaro e quindi di aver ottenuto dei guadagni su una cosa, il tempo, che appartiene a Dio e non all’uomo. E poteva accadere che la folla, a sua volta, si commuovesse davanti alla scena del banchiere/usuraio che si pente e si confessa pubblicamente, e così che il sermone di quel certo predicatore si concludesse in un’apoteosi edificante. Viceversa, quel grande bambino che era l’uomo medievale, figlio di una civiltà giovane e piena di vita, abituato a vivere sulla strada ed a contatto fisico coi suoi simili assai più di quanto accada oggi, e perciò non avvezzo, come lo è l’uomo moderno, a sorvegliare la propria emotività e a dissimulare i propri sentimenti, poteva infuriarsi contro il predicatore e passare a minacce o a gesti di violenza inconsulta dagli esiti imprevedibili e incontenibili: perché davanti a simili scoppi di rabbia non era certo che alcuna forza pubblica potesse ristabilire l’ordine.

Tornando al sermone di san Tommaso d’Aquino tenuto nella prima domenica di Avvento, a Parigi, cioè davanti a una grande folla, per certi aspetti non facile da accontentare e soprattutto da istruire, è commovente pensare che un sommo pensatore come lui abbia trovato parte naturale dei suoi doveri di religioso sottrarre del tempo ai suoi studi e alle sue lezioni universitarie per edificare un pubblico di fedeli non qualificato. Uomini di tal fatta non avevano certo la puzza sotto il naso: e ciò dovrebbe far riflettere quei moderni progressisti che vanno blaterando con sussiego intorno all’intellettuale organico, come se Gramsci avesse scoperto un’idea assolutamente nuova, quando invece essa è vecchia di secoli e, soprattutto, è stata pienamente realizzata nell’ambito della civiltà cristiana.

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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