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La Resurrezione, per Celso, è una favola bugiarda

L’opera di Celso Parola vera, o Discorso della verità, più comunemente nota come Contro i cristiani, è la prima organica e argomentata invettiva della cultura pagana greco-romana riguardo al Vangelo, a Gesù Cristo e ai suoi seguaci. È stata composta nel II secolo, forse al tempo di Marco Aurelio, come farebbe supporre un passaggio, peraltro controverso; né si sa molto del suo autore, o meglio non si sa quasi nulla, perché non è possibile identificarlo con certezza con altri autori che portano lo stesso nome o che vengono ricordati da altri autori. Si sa solo che era greco, o che usava la lingua greca, e dunque viveva nella pare orientale dell’Impero romano, ed era imbevuto di filosofia platonica o neoplatonica. La sua stessa opera più famosa, quella contro i cristiani, è andata perduta: ciò che di essa è giunto fino a noi non è una trascrizione del manoscritto originale, bensì una sorta di compendio riportata all’interno di un’opera cristiana scritta appositamente per confutarla, il Contro Celso di Origene. È doveroso tener conto di ciò perché, anche se i filologi sono riusciti a ricostruire con ragionevole completezza e coerenza il testo di Celso, alcune ripetizioni e piccole incongruenza certamente si spiegano col fatto della perdita del manoscritto originale e della sola sopravvivenza di un’opera polemica il cui scopo è confutare Celso e non riportarne il pensiero con la fedeltà assoluta che si può rivolgere a un maestro riconosciuto e rispettato. Non si tratta però di un caso unico, poiché la stessa situazione si presenta per altre opere antiche il cui originale è stato smarrito, senza che la trascrizione da parte di autori ostili costituisca, di per sé, un fattore d’inverosimiglianza o infedeltà al dettato originale.

Ma veniamo al punto. L’opera è interessante perché costituisce la prima presa di posizione, quasi una chiamata alle armi, dell‘intellighenzia pagana nei confronti del cristianesimo il quale, verso la fine del II secolo, cominciava ad apparire un fattore che, per quanto disprezzato, doveva essere preso sul serio, visto che nessuna persecuzione era riuscita ad arrestarne la progressiva, tenace diffusione. S’imponeva perciò la sua confutazione squisitamente intellettuale: bisognava mostrare che sul piano morale esso non costituiva nulla di nuovo o di eccezionale, mentre sul piano storico si trattava di una truffa bella e buona, di una falsificazione più o meno abile, ma che poteva essere smontata e ridicolizzata, mostrandone tutte le incongruenze e le contraddizioni. I filosofi pagani, specie quelli d’indirizzo neoplatonico, erano sicuri di poter riuscire facilmente in tale opera di demistificazione; chiusi nella loro orgogliosa pretesa di superiorità intellettuale e convinti che il cristianesimo dovesse il suo successo unicamente alla facile presa che aveva sul popolino ignorante e sugli schiavi, cominciavano, da un lato, a tener conto della sua esistenza e delle sue notevoli potenzialità, ma ostentavano un atteggiamento di sufficienza e di disprezzo, come è tipico di chi non vorrebbe quasi abbassarsi e sporcarsi le mani scendendo a litigare con la feccia della società, ma nondimeno si vede costretto a farlo.

Anche dagli altri autori pagani del II secolo traspaiono chiaramente l’altezzosità e l’antipatia nei confronti del cristianesimo, un senso di fastidio che non si curano di nascondere, pur non essendo capaci di motivarlo in maniera adeguata. Dal famoso passo di Tacito e da quello, non meno famoso, di Svetonio, si evince che i pagani benpensanti non capivano perché i cristiani fossero così desiderosi di farsi martirizzare, ma non v’è alcun tentativo di comprendere le loro motivazioni, che a quanto è dato capire per essi dovevano confinare con una qualche forma di patologia mentale; mentre dal carteggio fra Plinio il Giovane, allora governatore della Bitinia, e Traiano, tutto quello che emerge è la totale incomprensione per la loro "ostinazione", cosa che di per sé merita, a loro avviso, una punizione esemplare, mentre le accuse specifiche dei primi tempi, magia, infanticidio, orge sessuali, sono interamente lasciate cadere, evidentemente perché nessuna persona seria, per quanto prevenuta contro la nuova religione, le prendeva più sul serio. Quanto ai pagani il cui pensiero, come nel caso di Seneca, e a ben guardare anche in quello di Marco Aurelio, presentava notevoli convergenze con la morale cristiana, silenzio assoluto o, di nuovo, ostilità preconcetta: è come se un diaframma invisibile, ma insuperabile, avesse impedito qualunque scambio e qualunque sollecitazione reciproca.

La cosa si spiega, specialmente dal punto di vista cristiano. I due secoli che vanno dall’età di Cesare e Cicerone alla grande crisi politica e sociale dell’Impero Romano alla fine del secondo secolo dopo Cristo, sono stati, come ha osservato qualcuno, di sostanziale ateismo, o quantomeno di radicale scetticismo e indifferentismo religioso: un’epoca spiritualmente vuota, o se si preferisce morta, nella quale gli uomini, attanagliati dai problemi pratici della vita individuale e collettiva, avevano perso ogni senso di orientamento e ogni autorevole guida o modello ai quali ispirarsi. Molti uomini intellettualmente dotati si sono abbandonati all’incredulità e all’irrisione di tutte le cose sacre, come è accaduto a Luciano di Samosata: triste fenomeno, quello dei ceti colti che rompono gli ormeggi della tradizione e vanno alla deriva, senza credere più a nulla. Quanto alle masse popolari, in quei due secoli e mezzo hanno cercato istintivamente di colmare il vuoto interiore aggrappandosi, come suole accadere, a tutto e a niente: è stata l’epoca d’oro delle superstizioni, della magia, della negromanzia, della demonologia (si veda anche il De magia di Lucio Apuleio, della metà del II secolo); ed è stata al’epoca nella quale, nel desolante vuoto creato dalle filosofie scettiche e meccaniciste, vi è stata la grande irruzione delle religioni orientali di salvezza, una delle quali, il mitraismo, è giunta quasi a far seriamente concorrenza al cristianesimo, al punto che, come ha osservato uno storico, se il mondo non fosse divenuto cristiano, è molto probabile che sarebbe divenuto seguace del dio Mitra.

Scriveva dunque Celso nella sua opera polemica Contro i cristiani (traduzione di Salvatore Rizzo, Edizione del Corriere della Sera, 2012, 51-57):

II, 48. Ma voi dite: «Ritenemmo che egli fosse figlio di Dio perché guarì gi storpi e i ciechi». Anzi, come dite voi, resuscitava anche i morti! (II, 49) O luce e verità! Con la sua propria voce chiaramente proclama, secondo quanto anche voi avete scritto, che vi si presenteranno anche altri, malvagi ed imbroglioni, forti delle stesse facoltà; nomina inoltre un certo Satana come imitatore e macchinatore di siffatti portenti. Sicché nemmeno lui nega che queste opere non hanno nulla di divino, ma sono azioni di gente malvagia. Costretto dalla verità, ha svelato le colpe altrui, e, nello stesso tempo, ha denunciato le proprie. Non è dunque perversità ritenere l’uno Dio, gli altri maghi, in base alle stesse azioni? Perché infatti dovremmo ritenere malvagi gli altri, in base a queste azioni, e non lui, in base alla sua stessa testimonianza? In verità anch’egli ammise che queste opere sono segni di riconoscimento non di una natura divina, ma di imbroglioni e di gente completamente malvagia.

II, 54. Da quale argomentazione, dunque foste indotti a credere? Forse perché predisse che una volta sarebbe resuscitato (II, 55)? Ebbene, ammettiamo con voi che ciò sia stato veramente detto, Quanti altri raccontano tal sorta di meraviglie al fine di persuadere la dabbenaggine degli ascoltatori mettendone a profitto l’inganno? Lo fecero, come si dice, Zamolxi, lo schiavo di Pitagora, tra gli Sciti e Pitagora stesso in Italia e Rampsinito in Egitto. Costui addirittura giocò ai dadi con Demetra, nell’Ade, e se ne ritornò con un drappo d’oro, dono della dea. Lo stesso fecero Orfeo tra gli Odrisi, Protesilao in Tessaglia, Eracle al Tenaro e Teseo. Ma noi dobbiamo vede questo: cioè se qualcuno, morto veramente, sia mai resuscitato in carne ed ossa! O credete degli altri siano ed appaiano favole, mentre voi avete trovato in forma decorosa e credibile la soluzione del dramma: le sue parole dalla croce in punto di morte, il terremoto, le tenebre…? Da vivo non riuscì a soccorrere se stesso, da morto invece resuscitò e mostrò i segni della passione e le mani trafitte: ma questo chi lo vide? Una donna indemoniata, come dite voi stessi, e qualcun altro compagno della stessa impostura o sognatore per una sua qualche disposizione psichica visionario di propria volontà, nel delirio della mente, il che è già successo ad una infinità di persone; o piuttosto qualcuno che con questa mirabolante ciarlataneria intese sbigottire gli altri compagni e mediante tale inganno aprire la strada ad altri impostori. (II,61) Cioè a dire: dopo la sua morte Gesù provocò un’apparizione delle ferite ricevute sulla croce, ma non esistette nella realtà con quelle sue ferite.

II,63. Sarebbe stato invece necessario, se veramente Gesù avesse voluto mostrare la sua divina potenza, che egli fosse visto da quelli stessi che lo avevano calunniato e da chi l’aveva condannato e, insomma, da tutti. (II,67). Non aveva da temere più alcun uomo, una volta morto ed essendo, come voi dite, un dio; né fu certo inviato per stare nascosto! (II,68). Fosse almeno scomparso all’improvviso dalla croce, giusto per dare una dimostrazione della sua divinità! (II,70a). Chi mai, inviato quale messaggero, si nasconde, mentre dovrebbe annunciare ciò che gli è stato ordinato? (b). O si deve dire che, quando in carne ed ossa non era creduto, senza posa annunciava a tutti la sua novella, quando invece resuscitando dai morti avrebbe offerto una sicura garanzia, allora apparve di nascosto ad una sola donnetta e a quelli della sua confraternita? Quando veniva messo al supplizio lo vedevano tutti, quando resuscitò lo vide una sola persona. Tutto il contrario sarebbe dovuto avvenire!

II, 71a. Avrebbe dovuto annunciare chi era colui che lo aveva inviato (b) e perché il padre l’aveva mandato: (c) così avrebbe illuminato i pii ed avrebbe avuto compassione dei peccatori, che essi si pentissero o no. (II,72) Se poi voleva restare ignoto, perché si udì la voce dal cielo che lo proclamava figlio di Dio? e se non voleva restare ignoto, perché fu posto al supplizio o perché morì? (II,73). Se infine, attraverso i supplizi che patì, voleva insegnarci anche a disprezzare la morte, una volta resuscitato dai morti avrebbe dovuto in modo aperto chiamarci tutti alla luce e dimostrarci il perché della sua venuta.

Come si vede, le critiche e gli attacchi si svolgono sul piano della inverosimiglianza storica mentre non dicono nulla del contenuto spirituale e morale della nuova religione che tanto fastidio dava ai filosofi neoplatonici, come Celso e come Porfirio, il quale ultimo, un secolo più tardi, al tempo della Tetrarchia di Diocleziano, avrebbe ripreso e ulteriormente sviluppato gli attacchi in un’opera nota a sua volta con il titolo Contro i cristiani. Essi vedono Gesù come un mistificatore, un imbroglione che si è spacciato per il Figlio di Dio e i cui discepoli hanno avuto l’impudenza di tramandare la favola menzognera della sua Resurrezione. Gli argomento coi quali Celso crede di dimostrare tale mistificazione sono ispirati a un razionalismo piatto e banale. Se davvero era il Figlio di Dio, come mai è morto sulla croce? E perché si è manifestato, dopo la Resurrezione, solo a poche persone, per giunta inattendibili come testimoni perché socialmente squalificate, come una donna indemoniata (ma qui il livore gli toglie la lucidità, perché in Marco, 16,9, Maria Maddalena è qualificata come una donna che era stata liberata dai demoni per opera di Gesù Cristo), cioè ai suoi soli discepoli? Se avesse voluto convincere il mondo, Gesù avrebbe dovuto manifestarsi a tutti, e specialmente ai suoi detrattori. Insomma Celso ragiona come il cattivo ladrone crocifisso accanto a Gesù, che disse a quest’ultimo: Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi! (Lc 23,39), e come i giudei, gli scribi e i sacerdoti che lo schernivano, dicendo (Mt 27,40): Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce! Diciamo la verità: ci si aspetterebbe qualcosa di più profondo, di più elaborato di simili argomenti, da parte del fior fiore dell’intellighenzia pagana e dei massimi filosofi greci del tempo. Il fatto è che il cristianesimo è sempre stato e sempre sarà, dal principio alla fine dei tempi, segno di contraddizione. Dio Padre, nel suo immenso amore per l’uomo, che è fatto anche di rispetto della sua libertà, non vuole imporgli la fede mediante prove schiaccianti: in quel caso, infatti, non si tratterebbe più di credere, ma soltanto di constatare. Tutti possono fare delle constatazioni, anzi vi sono obbligati dalla realtà dei fatti; ma credere è un’altra cosa: implica amore incondizionato e fede assoluta non in una verità intellettuale, ma nella Persona di Gesù Cristo, il Verbo incarnato. E come dice Gesù a san Tommaso (Gv 20,29): Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!. Tale è il salto di qualità al quale è chiamato il credente, non contro la ragione, ma al di sopra della ragione: chi vuol vedere o udire mosso da orgoglio umano, pur guardando non vedrà e pur sentendo, non udrà…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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