Santo o anticristo? Savonarola per due sommi artisti
17 Aprile 2022Don Rosario Esposito e la massoneria (ecclesiastica)
18 Aprile 2022I cattolici, a differenza dei protestanti, non credono al principio della libera interpretazione delle Sacre Scritture; non pensano che chiunque può prendere la Bibbia e leggerla alla sua maniera: ma tengono per certo che la giusta interpretazione della Scrittura è quella fornita dalla Chiesa, per cui, in tutti i casi dubbi, si rimettono ad essa con fiducia e devozione, ben sapendo che ogni singola proposizione del Magistero al riguardo è il frutto di secoli e secoli d’insegnamento nel solco della Tradizione, dei Padri e dei Dottori della Chiesa stessa.
Sembrerebbe un concetto molto semplice; tuttavia è sorto un problema. Da quanto un cripto-protestantesimo si è insinuato nei seminari e nelle Facoltà teologiche, sulla scia dello "spirito del Concilio" (uno "spirito" che non ha nulla a che fare con lo Spirito Santo), la Chiesa ha cessato d’insegnare le verità di fede, e dunque anche l’interpretazione delle Scritture, con una voce sola. Di fatto, ogni singolo sacerdote si è preso la libertà di leggere e intendere la Bibbia in maniera estemporanea e soggettiva, e di spiegarla ai fedeli sulla base della propria sensibilità e della propria "ispirazione", a ciò spronato dai suoi professori fin da quando studiava in vista della consacrazione. I quali professori, a loro volta, sono stati spinti ad adottare una simile prospettiva ultraliberale, per non dire modernista, dai teologi più quotati e più rumorosi (che non sono mai i migliori): quelli che, gonfi di orgoglio intellettuale, "dettano la linea", e sia pure la linea di non avere alcuna linea e di fare come i protestanti, cioè di prendere in mano la Bibbia e leggerla con lo stesso atteggiamento laicista e razionalista, col medesimo spirito d’indipendenza che ha il lettore modero nei confronti di qualsiasi lettura profana, un romanzo o un racconto, nei quali non cerca di sicuro un significato profondo ispirato da Dio.
Una volta i teologi erano e si consideravano i difensori e i sostenitori della fede cattolica: il loro scopo era quello di aiutare il fedele a comprendere il dogma, non certo quello d’insinuare dubbi e ripensamenti. Quest’epoca felice è durata millenovecento anni: poi è arrivato il Concilio e tutto è cambiato. I teologi hanno acquistato un’autorità esagerata, da quando si son visti chiamare al Concilio in qualità di esperti il cui parere era richiesto e considerato pari, se non superiore, a quello dei vescovi. Da quel momento, grazie anche alla cosiddetta svolta antropologica promossa da Karl Rahner e autorizzata, o piuttosto legittimata, da Giovanni XXIII e da Paolo VI, si sono messi a fare il bello e il cattivo tempo, arrogandosi quasi il diritto di decidere cosa è la verità cattolica e cosa invece, di quanto la Chiesa ha insegnato per secoli e secoli, deve essere mandato in pensione, perché giudicato (da loro, beninteso) obsoleto e non più tale da rispondere ai bisogni e alle necessità particolari di quella nuova e strana figura antropologica che è il "cristiano moderno", quasi che i cattolici del tempo dei nostri genitori e dei nostri nonni, avendo ricevuto la loro formazione cristiana prima del Concilio, fossero al paragone di quelli odierni dei bambinoni, dei poveri ingenui o magari addirittura dei ritardati mentali, capacissimi di accontentarsi di favolette edificanti che oggi farebbero sorridere un ragazzino.
Tale nuovo indirizzo della teologia conciliare e post-conciliare è stato affiancato e sostenuto da quello dei biblisti e in genere di tutti gli esperti delle cosiddette scienze bibliche, dai linguisti agli archeologi, i quali, a partire dalla stessa epoca della "svolta antropologica", e non certo casualmente rispetto ad essa, si sono messi in capo di esser detentori d’un sapere che, essendo qualificato scientifico in base ai criteri della scienza moderna (materialista, riduzionista, meccanicista), si pone molti gradini al di sopra di ciò che credono i semplici fedeli, con il loro catechismo (magari quello, sorpassatissimo, di san Pio X) e il loro antiquato magistero (con la lettera minuscola, perché dopotutto la Chiesa è fatta di uomini e anch’essa può sbagliare, come ha sbagliato quando condannò il buon vecchio Lutero, cinquecento anni fa), ma soprattutto — horribile dictu — con la loro "rigidità" dottrinale e la loro mancanza di accoglienza e spirito d’inclusione.
Questa deriva dei teologi e dei biblisti, che ha portato, guarda caso, a riabilitare una dopo l’altra tutte le eresie già solennemente condannate dalla Chiesa, e ad autocensurare tutta una serie di verità fondamentali della fede, prime fra tutte la divinità di Cristo, la certezza della sua Resurrezione e della Sua Presenza Reale nel Sacrificio della Messa — poteva e doveva essere arginata e corretta da chi ha il compito di vigilare sull’autentica dottrina (pasci le mie pecorelle, disse Gesù Cristo a san Pietro, nell’atto di affidargli la guida della Chiesa da Lui fondata), ma così non è stato; anzi di fatto la Congregazione per la Dottrina della Fede, ex Santa Inquisizione, ha smesso di funzionare e di svolgere il suo compito, troppo impegnata com’era a genuflettersi, scusarsi e fare mea culpa per le sue crudeltà passate.
È difficile non vedere nella (ir)resistibile ascesa dei teologi ultraprogressisti e neomodernisti la rivincita delle vecchie eresie, dal luteranesimo al modernismo appunto, e quindi l’autodistruzione voluta e programmata della Chiesa, caduta nelle mani dei suoi nemici occulti, i massoni, i quali da tempo si erano infiltrati al suo interno e avevano sostituito un pensiero non cattolico al pensiero cattolico, una dottrina non cattolica alla dottrina cattolica. Fino alle prodezze odierne, di teologi e vescovi i quali fanno a gara nel proclamare eresie e bestemmie come se fossero le nuove verità del vangelo (un vangelo molto, troppo umano, perché letto e interpretato da loro, in maniera non conforme al dogma); fino all’intronizzazione degli idoli pagani nella Casa del Signore e all’aperta negazione della divinità di Cristo, della Sua Resurrezione e della Sua Presenza Reale nel Sacramento dell’Eucarestia.
Sorge perciò la domanda per gli spiriti buoni che non accettano una tale deriva ereticale e apostatica e vorrebbero ritrovare la bussola in tanta diabolica confusione: come si devono leggere le Scritture? Come le deve leggere il semplice fedele, non meno del teologo o del biblista plurilaureato? Una volta si poteva dire: così come insegnato dalla Chiesa. Ma oggi tale principio non è più valido, per le ragioni che abbiamo detto. Perfino le traduzioni delle Scritture sono state pensate e realizzate con infernale malizia, per modificarne il senso e fare in modo che il cattolico perda quei punti fermi che per secoli e secoli hanno sostenuto la fede dei credenti, quelle certezze che li hanno aiutati a vivere e ad affrontare le difficoltà della vita, e infine ad affrontare il passaggio della morte con vero spirito cristiano (e non col terrore pagano e materialista di questi ultimi due anni, nei quali il crollo della fede è divenuto palese anche ai ciechi).
Pertanto, la prima cosa da fare, oltre a procurarsi una buona Bibbia, tradotta e stampata prima del Concilio e perciò immune dalle alterazioni e dalle sottili falsificazioni moderniste, è ritrovare il giusto spirito per capire il vero senso delle Sacre Scritture. Vero significato che si sottrae alla mente orgogliosa e allo spirito di superbia, perché Dio Padre ha nascosto la Verità ai sapienti e agli intelligenti e si è compiaciuto di rivelarla ai piccoli e ai semplici (cfr. Mt 11,25). I veri teologi, i buoni teologi del passato (e i pochi del tempo presente, come Antonio Livi e Cornelio Fabro, che purtroppo ci hanno già lasciati) lo hanno sempre saputo; i Padri e i Dottori della Chiesa lo hanno sempre raccomandato.
Ecco, per esempio, cosa scrive al riguardo sant’Agostino in due capitoli del libro XII delle Confessioni, il diciottesimo e il venticinquesimo (introduzione di Christine Mohrmann, traduzione di Carlo Vitali, Milano, Rizzoli, 1958, 1974, pp. 353-54 e 359-61):
XVIII. Sentite e vagliate tutte codeste opinioni, sono del parere che «non convenga far questione di parole: ciò non serve che a turbare lo spirito di chi ascolta. Per l’edificazione, invece, ottimamente serve la legge, se è usata secondo il suo spirito, perché suo fine è la carità che nasce da un cuore puro, da una coscienza retta, da una sincerità di fede [cfr. 1 Tim, 1, 5-8; 2 Tim2,14]»: e ben sa il nostro maestro i due precetti in cui Egli ha riassunto tutta la Legge e i Profeti [cfr. Mt 22,40]. Se io ne faccio professione ardente, o mio Dio, luce segreta dei miei occhi, qual danno mi fa se si possono interpretare diversamente quelle parole, vere ad ogni modo? Qual danno, dico, se io intendo in modo diverso da un altro il senso delle Scritture? Tutti noi che le leggiamo ci sforziamo di ricercare e di comprendere quello che egli voleva significare: e quando lo crediamo veritiero noi non oseremo mai pensare che egli abbia affermato cose che sappiamo o reputiamo false.. Quando dunque uno tenta di scoprire nelle sacre Scritture il senso inteso dallo scrittore, che male c’è se egli tiene per vero quello che Tu, luce di ogni intelligenza veritiera, mi fa apparire vero, anche se diverso il pensiero dello scrittore, il quale però intende una verità diversa, ma pure una verità?
XXV. Nessuno venga a turbarmi, dicendo: «Mosè non intendeva dire quello che dici tu, ma quello che dico io». Perché, se mi domandasse: «Come puoi sapere se il pensiero di Mosè sia quello che tu hai esposto?», dovrei starmene quieto: forse ripeterei quanto dissi sopra, forse anche più ampiamente, se si trattasse di un avversario un poco ostinato. Ma quando mi afferma: «Non la intendeva come dici tu, ma come dico io», e nello stesso tempo non nega che le nostre comuni affermazioni sono vere, o mio Dio, o vita dei poveri, in cui non esiste contraddizione, versa tu mitezza nel mio cuore, sicché io sopporti con pazienza simili oppositori: essi non parlano in tal modo perché, dotati di spirito profetico, hanno letto nella mente del tuo servo quello che sostengono, ma perché sono pieni di superbia, ignorano il pensiero di Mosè ed amano il proprio, non perché esso sia vero, ma perché è il loro. Altrimenti amerebbero qualsiasi altra sentenza, se vera, come io amo quello che essi affermano quando corrisponde a verità: e non perché è un’idea loro, ma per intrinseca verità; del resto basta il fatto che sia vera perché non sia più loro esclusivamente. Insomma, se l’amano perché è vera, essa è tanto loro quanto mia; anzi appartiene a tutti quelli che amano la verità. Ma non posso tollerare, non ammetto la loro pretesa che Mosè abbia pensato a modo loro e non come dico io; fosse anche così, codesta loro presunzione non è effetto di scienza, di sfacciataggine; non nata da intuizione, ma da albagia.
Terribili, o Signore, sono i tuoi giudizi; poiché la tua verità non appartiene a me o ad un altro qualsiasi; ma è di tutti quelli che tu chiami a fruirne apertamente; e Tu ci ammonisci gravemente a non considerarla nostri bene privato se non vogliamo esserne privati. In realtà, chiunque si rivendica come suo bene esclusivo quello che tu concedi in godimento a tutti, viene risospinto dal bene comune a tutti al suo proprio, cioè dalla verità alla menzogna: poiché «chi parla falso, parla del suo» [cfr. Gv 8,44].
Vedi un po’, o giudice ottimo, o Dio, o Tu, la stessa verità, vedi un po’ quello che io rispondo a codesto avversario: vedi Tu un po’; ché io parlo dinnanzi a Te e dinnanzi ai miei fratelli che usano rettamente della legge in ordine alla carità: verdi Tu, se approvi quello che sto per dire.
Fraternamente, serenamente io gli pongo questa domanda: «Se entrambi troviamo vero quello che tu dici, se entrambi troviamo vero quello che io dico dimmi, di grazia, dove lo vediamo? Non certo io in te, né tu in me, ma l’uno e l’altro le vediamo nella stessa immutabile verità che sta al di sopra delle nostre mento. Se dunque non facciamo questione tra noi intorno a questa luce del nostro Signore e Dio, perché disputiamo sul pensiero del prossimo con la sicurezza con cui possiamo vedere la verità immutabile? Mentre sede Mosè in persona ci fosse apparso e ci avesse detto: "Io intendevo dire questo", avremmo creduto a lui, ma non saremmo entrati nel suo pensiero? Non si adiri dunque l’uno contro l’altro (a favore di un terzo) a proposito della Scrittura. Amiamo Iddio nostro Signore con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la nostra mente, e il prossimo come noi stessi. E se non crederemo che Mosè si è ispirato a quei due precetti in tutto ciò che ha scritto nei suoi libri, terremo per mendace il Signore, pensando del nostro conservo intendimenti diversi dai suoi insegnamenti. Vedi dunque qual stoltezza sia, in tanta varietà di esatte interpretazioni possibili di quelle parole, il voler affermare senza criterio quale meglio corrisponda all’idea di Mosè, ed offendere con discussioni perniciose proprio quella carità a cui egli mirava quando scriveva le parole che noi tentiamo di interpretare.»
Quanto sono vere e quanto sono di attualità queste riflessioni del grande santo e vescovo d’Ippona! Da autentico pastore di anime, egli aveva ben chiaro la regola numero uno che deve osservare il buon interprete delle Scritture, simile in tutto a quella del medico della Scuola salernitana: Primum non nocere. E come si fa a non recare danno e scandalo alle anime, quando si insegna il senso profondo delle Scritture? Si depone ogni orgoglio umano, ogni pretesa di superiorità intellettuale: ci si fa piccoli davanti a Dio e si chiede a Lui la grazia di rendree fedelmente la Sua parola ai fratelli…
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