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La schiavitù inizia quando si perde il dominio di sé

Oltre mezza umanità caduta schiava del proprio governo nel giro di qualche anno, o, come ne caso della Cina, di qualche decennio; una debâcle ignominiosa e subitanea delle democrazie occidentali; un immediato allineamento e asservimento dei mezzi d’informazione, della scuola, del’università, della magistratura, delle forze dell’ordine, delle amministrazioni pubbliche, dei sindacati, dei partiti e delle cooperative di consumatori: questo il tragico, ed inedito panorama di macerie che si offre al nostro sguardo nell’ora presente, specie dopo che, negli ultimi due anni, i governi, palesemente manovrati da forze occulte di natura finanziaria si sono rivolti contro i loro stessi popoli e hanno revocato da un giorno all’altro diritti e libertà che parevano scolpiti nella roccia, e che mai neppure le dittature del Novecento né gli Stati impegnati in guerra per la vita e per la morte avevano osato fare.

Ora, l’ovvia domanda che ci si deve fare è la seguente: come è stato possibile? In altre parole: che cosa non ha funzionato, che cosa ci è sfuggito di mano? È evidente infatti che qualcosa ci è sfuggito di mano, anzi, ci era sfuggita di mano già da prima, da molto prima: diversamente è impossibile spiegare che con tanta prontezza la maggioranza della gente abbia accettato di obbedire agli ordini folli e criminali dei propri governanti, e di prestar fede alle fandonie vergognose e interessate di un esercito di servi il cui unico scopo era quello di far nascere e tenere sempre alto nella popolazione il terrore della morte. Pertanto, la sola risposta possibile a quella domanda è la seguente: tutto quel che è accaduto è stato possibile perché da molto tempo abbiamo perduto il dominio di noi stessi. A ciò hanno contribuito vari fattori, uno dei quali, sena dubbio, ha a che fare con l’ingresso capillare, pervasivo, "totalitario" della tecnologia nelle nostre vite. In altre prole, ci siamo abituati a delegare alle macchine tutta una serie di funzioni, anche minime, anche relative alla vita nostra privata, anche nell’ambito privatissimo degli affetti e dei sentimenti, col risultato che abbiamo finito per perdere, senza neanche rendercene conto, il pieno controllo di noi stessi. La nostra volontà si è indebolita: da strumento, le macchine – il computer e il telefonino specialmente — sono diventati fini, nonché padroni e signori della nostra vita. A che serve considerare attentamente i fini delle nostre azioni, valutare i pro e i conto, quando è cosa tanto facile, tanto rapida e tanto "leggera" lasciare che ci pensi la macchina? E a che scopo esercitare la forza di volontà, se si può affidare ogni fatica e ogni impegno ad essa, divenuta ormai non solo la migliore amica, ma anche la compagna inseparabile e indispensabile di tutto ciò che facciamo, di tutto ciò che pensiamo e perfino di tutto ciò che vogliamo?

Ma non c’è solo questo aspetto da tener presente. È difficile pensare che milioni e miliardi di esseri umani si siano lasciati instupidire e plagiare così grossolanamente dalla tecnologia, sena avvertire il pericolo e credendo anzi di semplificarsi le cose, di guadagnare tempo e di rimuovere ostacoli e lungaggini, senza che qualcos’altro li abbia incoraggiati a mettersi e a perseverare su una strada così stupida e così distruttiva. La natura umana ha un istinto fondamentale, quello della conservazione: e un tal modo di vivere equivale a scegliere una vita anti-umana, cioè, in prospettiva, a correre verso la propria distruzione. Come mai l’istinto della sopravvivenza non ha messo in guardia le persone? E non giova rispondere che non erano più persone nel senso autentico della parola, ma piuttosto ex-persone, perché un essere umano il quale rinunci al ben dell’intelletto e all’esercizio della volontà non è più un essere umano, ma una specie dio morto che cammina. Non giova, perché la domanda resta: dal momento che un simile processo non si compie in n giorno, o n un anno, ma nell’arco di due o tre generazioni, che cosa non ha funzionato nell’istinto di conservazione? Che cosa ha neutralizzato il campanello d’allarme, facendo sì che non suonasse o non venisse percepito dagli interessati prima che fosse tropo tardi per reagire? Per rispondere a questa domanda dobbiamo uscire dall’ambito della psicologia e ampliare la riflessione a trecentosessanta gradi. La maggior parte della gente fa quel che fanno gli altri, i quali, a loro volta, fanno ciò che vedono fare dai modelli di riferimento: che, nella fase storica attuale, sono i persuasori occulti: cinema, televisione, stampa, pubblicità. Pertanto basta chiedersi chi controlla i persuasori occulti e si avrà la risposta. Quanto ai governanti, la spiegazione è ancor più semplice: non esistono più governi, non esistono più partiti, non esistono più sindacati, non esistono più governi, non esistono più parlamenti, non esistono più stati, né patrie, né confini. Esiste solo il potere globale della grande finanza, la quale controlla tutto e lascia sussistere l’illusione che vi siano stati, confini, governi parlamenti, partiti, sindacati, eccetera, mentre in realtà tutte queste cose sono scomparse, sono state assorbite nella grande strategia del Nuovo Ordine Mondiale: e non da ieri, ma già da diverso decenni Solo che noi in ce n’eravamo accorti; e non ce n’eravamo accorti per la buona ragione che nessuno ce l’ha mai detto. Ora, per la maggior parte delle persone esiste quel che viene detto dalla stampa, dalla televisione, dal cinema; e ciò che non viene detto, né mostrato, semplicemente non esiste, o per meglio dire non può esistere. Può esistere solo ciò che rientra nello schermo sul quale ci viene mostrata la realtà; ciò che non vi entra non ha diritto di cittadinanza, neppure a livello d’ipotesi o di semplice congettura.

Ad ogni modo, tutto questo è stato reso possibile dal fatto che già in precedenza noi avevamo smarrito il dominio di noi stessi. Una filosofia sbagliata, e devastante, un misto di libertinismo e di permissivismo a oltranza, diffusa a tappeto dagli intellettuali organici al sistema di potere, e la cui forza di persuasione è stata moltiplicata per mille di mass-media e dalla pubblicità, aveva indebolito e gradualmente distrutto in noi tale facoltà, che distingue l’uomo dall’animale. Perché affaticarsi a pensare, quando c’è qualcun altro che pensa al posto tuo? E perché affaticarsi a volere il vero, il bene, il bello, quando la nuova parola d’ordine, molto più semplice e "liberatoria", è : Fa’ ciò che vuoi? (che era la formula fondamentale del pensiero del mago e satanista Aleister Crowley, volgarizzata e resa un prodotto di consumo da gruppi musicali di grande presa sull’immaginario collettivo, come i Beatles? Senza più la ragione per discernere il vero, il bene e il bello e senza più la volontà per cercarli, attuarli e impegnarsi per essi, che cosa resta della vita umana, nel senso proprio dell’espressione? E csa rimane della persona umana, se non un fantoccio telecomandato, cui può anche essere ordinato di marciare allegramente verso l’abisso, seguendo le note di qualche malvagio pifferaio magico?

Scriveva il gesuita della vecchia scuola – per intenderci, quella preconciliare – Antonin Eymieu (1861-1933), da noi già altre volte citato, nella prima parte dell’opera Il governo di se stesso, intitolata Le grandi leggi (titolo originale: Le Gouvermenent de soi-même. Le grandes lois, Paris, Librairie Académique Perrin 1952; traduzione dal francese di Luigi Rosadoni, Roma, Edizioni Paoline, 1960, pp. 5-6; 13-15):

Se il cuore sbaglia strada, è stata la testa, è stata la ragione che non ha funzionato bene. Premendo sul pistone, il vapore fa esattamente ciò deve fare, qualunque sia la parte in cui si apra il cassetto di distribuzione; e se la macchina deraglia oppure scoppia, non è con essa che bisogna prendersela, neppure se uccide il macchinista, ma col macchinista stesso, giacché costui poteva e doveva moderare la tensione del vapore, o regolarne l’impiego. Se la macchina gli "ha fatto male", ciò dipende dal fatto che lui, per primo, ha maltrattato la macchina.

Il cuore è una forza cieca, come il vapore; chi deve guidarlo è la testa. Certi esseri — i bruti — sono, per così dire, montati meccanicamente, come un orologio, ed arrivano sino alla fine della loro vita sempre regolati dall’istinto, al pari dell’orologio che "cammina" finché non ha esaurito la molla. L’uomo, invece, non è regolato dall’istinto, perché il suo destino è al di là dell’attività dei suoi organi, e perché egli è libero. Si può fare l’analogia con la locomotiva, a regolare la quale non è sufficiente l’espandersi del vapore, poiché il suo destino è di servire a tutt’altra cosa che al vapore stesso, e di adattarsi ad una molteplicità di circostanze. Il valore da cui trae la sua forza ha un movimento cieco: che spinga avanti o indietro, a destra o a sinistra, non è cosa che lo riguardi; ed è proprio perché cieco ed indeterminato che ha bisogno di ricevere una direzione e che, appena gli viene impressa, docilmente subisce. (…)

Tutto ciò che è forte è anche pericoloso. Una locomotiva sotto pressione può deragliare, ma perché può muoversi; una spada di latta, invece, o un fucile senza pallottole, non sono pericolosi perché non servono a nulla: possiamo usarli come giocattoli, non certo come armi. Un cuore fiacco, o secondo una nota espressione, "un’anima senza passione", sarebbero da compiangere, perché equivarrebbero ad un fucile senza pallottole.

Siccome il cuore è un pericolo, bisogna dirigerlo; ma siccome è una forza, non bisogna distruggerlo. (…)

Evidentemente, noi non siamo liberi come dèi, né d’altra parte determinati come le pietre. Per poter ben dirigere noi stessi è necessario conoscerci, guardarci da vicino come siamo. Ad un esame superficiale l’uomo appare sempre una contraddizione vivente, poiché egli è un essere pieno di contrasti, è il punto d’incontro fra la materia e lo spirito. In quanto materia, deve subire certe determinazioni; in quanto spirito, dev’essere libero. Determinismo e libertà, ecco i due poli di quel microcosmo ch’è ciascuno di noi; su di essi, su l’uno e l’altro di essi, si basa la nostra vita.

Questa materia, che è un elemento del nostro essere, subisce, come del resto tutta quanta la materia, non solo quelle ripercussioni che le sue diverse parti esercitano le une sulle altre, ma anche tutte quelle che le vengono attraverso lo spazio o attraverso la durata. L’abitudine e l’ereditarietà — che è l’abitudine della stirpe — influiscono in bene o in male sul momento attuale; in ciascuna delle nostre azioni operano una virtù originale o un peccato originale che incidono, mediante la traccia lasciata da essi nel nostro organismo, sul resto della nostra vita e, per via di generazione, su tutta la nostra discendenza. L’educazioni, che ha coltivato in noi le prime abitudini, e l’ambiente nel quale abbiamo vissuto ci stringono come maglie che potremmo spezzare, sì, ma che ci hanno segnato con un’impronta indelebile. Il ciclo delle stagioni, gli imprevisti di ogni giorno, le azioni degli altri, il nostro stato sociale, le tradizioni degli antenati, i pregiudizi dei contemporanei, l’epoca storica in cui viviamo esercitano su di noi un influsso inevitabile.

Noi siamo nell’immensità dello spazio e del tempo come una barca nell’immensità dell’oceano è là, in quel punto preciso. È stata una tempesta, o una falsa manovra, o la sua rotta normale a portarvela? Ciò non ha importanza. Avrebbe potuto non esserci, d’accordo, ma di fatto c’è, e i fatti son fati, realtà cioè di cui non si può non tener conto. (…)

È l’immagine dell’uomo: in quanto materia, subisce tutte le forze ineluttabili della materia, ma in quanto spirito può introdurre nel determinismo della catena di quelle forze una forza nuova, o una direzione da lui scelta liberamente. Siccome, infine, tutte le cose sono collegate fra loro e l’una ha le sue ripercussioni sulle altre, egli è veramente colui dal quale dipendono in ultima analisi i risultati, purché conosca bene la manovra e tenga stretto il timone, purché metta la propria libertà al servizio della propria ragione.

Dunque, per uscire dal pantano nel quale siamo sprofondati, dalla palude del relativismo, del soggettivismo e dello scetticismo radicale, dobbiamo cominciare da qui: a ricostruire la nostra facoltà razionale e riappropriarci della nostra volontà. Dobbiamo tornare a cercare il vero, abbandonando le strade che portano in tutt’altra direzione. E per trovare il vero, bisogna anzitutto amarlo: amarlo ed essere disposti a soffrire per arrivarci. Ed ecco a cosa serve la volontà: a tenere a bada i bassi istinti, a incanalare la nostra forza vitale e il nostro naturale desiderio di felicità nella direzione giusta. Desiderare la felicità è normale: non c’è nulla di sbagliato in ciò. Si tratta di capire che la felicità non consiste nel fare quel che si vuole e strappare alla vita tutti i piaceri possibili, soprattutto nella sfera carnale; consiste, al contrario, nel portare a compimento quanto di meglio è insito nella natura umana. La cosa più nobile e alta che contraddistingue la natura umana è il desiderio del vero: e lo strumento per raggiungerlo è la volontà. Chi non sa vedere le cose per quel che sono e chi non ha la volontà per fare ciò che deve essere fatto, spreca la libertà umana e la riduce a licenza, a libertinismo e tradisce la propria natura. La nostra natura ci porta verso l’alto, verso Dio, non verso il basso e il disordine, il peccato e il male. Dobbiamo tornare ad essere amici di noi stessi; e per farlo dobbiamo tornare ad essere figli adottivi di Dio. Allora sì, potremo puntare alla felicità e sconfiggere le tentazioni e tutti gli altri nemici. Ma se non faremo ciò, siamo perduti…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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