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Filosofi e teologi chiariscano il vero, non l’offuschino

A cosa serve la filosofia? A cercare il vero. E a cosa serve la teologia? A trovare Dio. Ma Dio è il sommo vero: dunque filosofia e teologia hanno lo stesso compito, vanno nella stessa direzione e si sostengono a vicenda. Che cosa pensare dunque di quei filosofi che non aiutano a cercare il vero, ma fanno di tutto per rendere difficile se non impossibile la ricerca, offuscando dietro una cortina di fumisterie l’oggetto della loro disciplina? E che dire di quei teologi che non aiutano la fede dei credenti, non li sostengono affatto mediante argomenti razionali, ma si servono della razionalità per instillare dubbi, per insinuare sospetti, per far perdere ogni certezza a chi si era affidato a loro come a delle guide sicure? Senza esagerare si può dire che la filosofia degli ultimi tre secoli e la teologia degli ultimi sessant’anni sono state deliberatamente piegate da una volontà malvagia a servire il fine diametralmente opposto a quello cui sarebbero destinate; ad allontanare gli uomini dalla verità e da Dio, invece di avvicinarli.

Facciamo un esempio pratico molto semplice, addirittura banale. Si dice che san Tommaso d’Aquino, prima d’iniziare le sue lezioni, ponesse una mela sulla cattedra e dicesse agli studenti: Questa è una mela. Chi non è d’accordo può andarsene. Voleva dire che la filosofia è al servizio de vero e che il vero non può prescindere dalla realtà: se a qualcuno la realtà non piace, se la vorrebbe diversa, e immagina che la filosofia possa o debba prestarsi a un tale gioco, falsificare la realtà per soddisfare le sue aspettative, è fuori strada. Di fatto, però, tale deragliamento c’è stato, eccome: tutta la filosofia europea posteriore a san Tommaso non è che una continua variazione sul tema: siccome la realtà non piace ai philosophes, specialmente da Rousseau in poi, allora bisogna truccare le carte e far dire alla filosofia cose che contrastano con il principio si realtà, ma in compenso soddisfano le pretese dei philosophes. I quali non sono più dei vero filosofi, ma dei poveracci che hanno perso di vista il semplice fatto che una mela è una mela, e non qualcosa d’altro. In fondo, più che di filosofia moderna si dovrebbe parlare di psicopatologia, perché la dissociazione del pensiero dal reale è una gravissima forma di patologia mentale, altrimenti detta schizofrenia. E lo schizofrenico che si crede un filosofo, così come quell’altro che si crede Napoleone Bonaparte, andrebbe curato, non certo posto in cattedra affinché possa trasmettere la propria malattia a intere generazioni di studenti e di lettori. Anche da ciò si capisce che la cosiddetta civiltà moderna è semplicemente il regno della follia: perché mette in cattedra i pazzi e magari, nello stesso tempo, chiude in manicomio i savi.

Dunque, la mela. Una persona sana e dotata di buoni sensi e di retto giudizio, dice: Sì, questa è una mela. Che dicono, invece, i filosofi moderni?

Cominciamo dagli idealisti. Essi dicono che questa è una mela, ma non la vera mela, perché la vera mela è altrove, non si bene dove, forse in qualche misterioso Iperuranio, e poi non è una cosa, ma un’idea: l’Idea della Mela, assoluta e perfetta, di cui la mela che abbiamo sotto gli occhi è solo una copia pallida e difettosa.

Poi vediamo i relativisti, gli scettici e tutti i fautori del pensiero debole (i quali veramente non avrebbero diritto a essere fautori di nulla, perché nel momento stesso in cui si pongono come fautori di qualcosa, assumono una posizione forte che contrasta con il loro dogma fondamentale). Essi guardano con diffidenza, con sospetto quell’oggetto posato sulla cattedra: fiutano l’inganno e non è mica gente che si lascia menare per il naso, quella! Perciò, dopo aver molto fiutato in tutte le direzioni, come un ispettore appena giunto sul luogo del delitto, vi diranno con aria fra sospettosa e annoiata: «Ma voi come fate a dire con tanta sicurezza che quella è una mela? Ne siete davvero sicuri? E se vi sbagliaste? Se solo poteste immaginare, poveri ingenui, quante cose sono tutt’altro da ciò che appaiono!». E alla fine, dopo un lungo tira e molla, vi concederanno, forse, ma solo in via provvisoria e a titolo d’ipotesi, che quella sì, parrebbe una mela; ma che non lo si può dire con assoluta certezza, almeno fino a quando la cosa sia stata chiarita una volta per tutte (e si vede bene che quel sospirato momento, per loro, non arriverà mai).

Vediamo i sensisti e i loro eredi, i positivisti logici. Per loro la mela è una collezione di qualità: forma, colore, odore, gusto, tatto. Se ci sono tali qualità, allora si può anche convenire, bontà loro, che sul tavolo c’è la mela; ma che succede se i sensi mi tradiscono, se la vista non mi dice nulla (perché siamo al buio), il gusto neppure (perché ho un’infezione alle papille gustative) e così via per tutti gli altri?

Le cose assumono un andamento paradossale se ci rivolgiamo agli estremi rappresentanti di questo indirizzo d’idee, per esempio, a un seguace dell’immaterialismo di George Berkeley. Più radicali e più coerenti dei loro timidi precursori, essi dicono che la mela non è sul tavolo, ma nella mia mente; sono io che la vedo, che la tocco, che l’addento, che l’annuso, e queste sono tutte operazioni mentali, sono tutte idee che nessuno può verificare fuori di me. La mela non è fuori di me; per cui, se qualcuno spegne la luce, non si può neanche dire, a rigor di termini, che la mela ci sia ancora. Per poterlo dire, bisogna che ci sia qualcuno che fa l’esperienza sensoriale della mela; e se non c’è nessuno, chissà cosa ne sarà della nostra mela.

Passiamo ai seguaci della logica formale (e anche di quella informale), collegati, per l’occasione, ai filosofi del linguaggio. Per costoro l’affermazione questa è una mela va considerata sotto l’aspetto logico: si tratta di vedere se contiene contraddizioni tali da renderla insostenibile. Nel nostro caso, contraddizioni non ve sono: nel semplicissimo enunciato: questa è una mela, tutto fila liscia come l’olio, e dunque si può dire che l’enunciato è vero. Della mela in carne ed ossa (scusate, volevamo dire in polpa e buccia), frattanto, si sono belli e dimenticati; e poi, che razza di discorsi sono? Il contenuto di verità dell’affermazione questa è una mela non riguarda una cosa bassa e vile come la mela, la mela gialla o rossa, la mela appetitosa, da mangiare o da regalare a qualcuno, bensì il senso logico delle parole nella loro concatenazione: ossia l’enunciato e non il fatto in se stesso. Perciò possiamo dire, a buon diritto, questa è una mela; ma sapere se questa è davvero una mela nel senso concreto dell’espressione, è tutto un altro paio di maniche. Quei signori non hanno mica tempo da perdere con la banale realtà di tutti i giorni; loro volano in alto, molto più in alto. A questo proposito si racconta un aneddoto (speriamo di ricordarlo bene, perché lo abbiamo letto molti anni fa). Una volta Bertrand Russell fece in aula la seguente affermazione: In questa stanza non ci sono elefanti. Gli studenti la presero per buona, tutti tranne uno: Ludwig Wittgenstein (c’è sempre un discepolo più conseguente del proprio maestro), il quale si chinò a sbirciare sotto il banco, a destra e a sinistra, con aria sospettosa e niente affatto convinta. Evidentemente l’enunciato in questa stanza non vi sono elefanti poteva essere accettato, ma era necessario mettere in chiaro che il contenuto di verità fattuale è un altro paio di maniche: chi può sapere se un elefantino non si è rincantucciato sotto il banco?

Una sottocategoria di questi "filosofi" comprende i nominalisti, attardati epigoni della disputa medievale sugli universali (in ritardo solamente d’un millennio: ma che volete che sia, quando ci si può far sopra saggi, romanzi e film che fruttano soldi a palate, come Il nome della rosa), e fra questi la sotto-sotto categoria dei semiologi compulsivi, ormai così abituati a ridurre la realtà a semplice espressione (il medium è il messaggio, diceva il buon Marshall McLuhan) da essersi scordati da un pezzo che dopotutto forse la filosofia è quella cosa che serve o almeno dovrebbe servire a districarsi nel labirinto delle cose e non solamente in quello delle idee più o meno campate per aria, e magari creato proprio da loro per costruirci su una carriera. Il principe di tali venditori di fumo è senza dubbio, nel nostro Paese, Umberto Eco, la cui fluviale produzione saggistica e narrativa è una continua, ossessiva variazione sul tema del nulla, e che nulla hanno da dire, nel senso che il loro lettore, una volta sfogliata l’ultima pagina e chiuso il volume, ne sa esattamente quanto prima su qualunque cosa, anzi è molto probabile che gli si siano confuse anche le poche idee che aveva chiare nella mente. Perfetto esempio di un modo di fare filosofia che è la quintessenza dell’ inutile, se non peggio: perché oltre che inutili quei libri sono anche distruttivi, nel senso che sanno solo mettere in crisi ogni certezza, senza che mai l’autore si dia la pena di suggerire una qualche verità positiva o una qualsiasi certezza per la quale valga la pena di vivere, di lavorare, di soffrire e di credere o sperare nel domani, se non per se stessi, almeno per i propri figli e per le generazioni future.

Potremmo andare avanti, ma crediamo che questa breve rassegna semiseria sia stata sufficiente per confermare ciò che abbiamo detto all’inizio: i filosofi si sono scordati a quale scopo è nata la loro disciplina e, invece di aiutare gli uomini nella ricerca del vero, si sbizzarriscono in tutte le maniere per confonder loro le idee e per distruggere qualunque ragionevole certezza, partendo dalla più semplice di tutte: l’evidenza sensibile.

Per la teologia il discorso è del tutto analogo. La teologia nasce come aiuto alla fede: ha lo scopo d’interpretare e di chiarire, fin dove possibile, i contenuti del dogma. Una teologia che semini dubbi e sparga incertezze a piene mani non s’è mai vista, o meglio non s’era mai vista fino al Concilio Vaticano II. A partire da quel momento, è diventata la regola. E se ne vedono gli effetti tutti i giorni, sia livello liturgico che pastorale e infine anche dottrinale: coi vescovi che intronizzano idoli pagani nelle chiese cattoliche e coi sacerdoti che, nella santa Messa, giunti al momento di recitare il Credo, ossia l’atto di fede fondamentale della dottrina cattolica, dicono tranquillamente ai parrocchiani stupefatti: «Il Credo non ve lo faccio recitare, perché tanto io non ci credo; cantiamo invece una bella canzone». Che dire di una teologia che porta i sacerdoti a perdere la fede e a dare pubblico scandalo d’incredulità alle loro pecorelle? Eppure, tali conseguenze sono perfettamente logiche, viste le premesse: sono sessant’anni che teologi come Rahner, Küng, Schillebeeckx, Bianchi, Maggi, Mancuso, seminano dubbi e demoliscono sistematicamente le basi della dottrina. Che altro ci si poteva aspettare che accadesse?

E che dire di un altro teologo che va per la maggiore e che ha scritto una quantità impressionante di libri pesanti, astrusi e trasudanti auto-compiacimento intellettuale, ma ben difficilmente riescono a chiarire le idee o innalzato l’anima di alcuno, come monsignor Bruno Forte, attualmente arcivescovo di Chieti-Vasto, il quale ha recentemente affermato in tutta tranquillità che i cattolici la devono smettere di voler convertite gli ebrei, perché questi ultimi sono già a posto, illuminati e salvati, grazie all’Antica Alleanza? È consolante sapere che un rinomato teologo e un insigne arcivescovo dice cose che il catechismo di san Pio X, come del resto tutto il Magistero perenne (beninteso fimo all’ultimo concilio) qualifica errori ed eresie, e che oltretutto sono prive di senso logico: se egli avesse ragione, qualcuno ci dovrebbe poi spiegare cosa si è sognato di fare il Figlio di Dio, assumendo la natura umana, morendo sulle croce e poi resuscitando per suggellare col suo sangue la Nuova Alleanza, rivolta a tutti gli uomini e non più solo agli ebrei, ma, come ben chiariscono anche le Lettere paoline, anche agli ebrei, anzi agli ebrei prima di tutti gli altri, dato che essi erano stati scelti da Dio come popolo eletto; e se poi hanno rifiutato di riconoscere il Messia, la colpa non è certo del Verbo incarnato, che le ha tentate tutte, ma proprio tutte, con infinita cura e sollecitudine, per raccogliere il gregge disperso e riportare le pecore nell’ovile (Mt 23,37):

Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!

E questo è solamente un esempio fra i mille e mille che avremmo potuto scegliere. Poi c’è Sosa Abascal il quale nega l’esistenza reale del diavolo (il che equivale a fare di Gesù un mistificatore un falso esorcista); c’è Enzo Bianchi che fa di Gesù Cristo «un profeta che narrava Dio agli uomini» (il che significa negare la divinità del Verbo); c’è Alberto Maggi, volto noto e semiufficiale della televisione della C.E.I., il quale dichiara seraficamente che l’infermo non esiste (il che è lo stesso che dare del bugiardo a Gesù e anche alla Madonna di Fatima, la quale ha mostrato le fiamme dell’inferno a suor Lucia); e così via.

È evidente quindi che oggi chi vuol cercare il vero deve fare a meno dei filosofi moderni, tutti dal primo all’ultimo, e tornare al pagano Aristotele (che la ragione naturale sapeva usarla da maestro) e a san Tommaso d’Aquino; e che chi cerca Dio deve fare a meno dei teologi, i quali, per ragioni che forse loro conoscono, ma noi no, da decenni si affannano a minare e inquinare la fede nel vero Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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