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Il cristianesimo è la malattia della volontà di vivere?

Il cristianesimo è una malattia dell’anima, e più precisamente è il risultato di una volontà di vivere spezzata, infranta, distrutta? E dunque esso la rivincita dei malati, dei malriusciti, dei falliti, dei rancorosi impotenti, che si fanno forti del numero per debellare quanto di nobile, di eroico, di virile c’è nell’esistenza umana?

Tale era la persuasione di un grande filosofo, Nietzsche, uno dei più grandi dell’età moderna: grande almeno in senso relativo, essendo stata la modernità l’epoca antifilosofica per eccellenza, sicché il più grande dei filosofi moderni è pur sempre un nano a paragone di un Aristotele o di un san Tommaso d’Aquino. La filosofia moderna, infatti, dopo aver proclamato con Cartesio il duplice, aberrante dogma del soggettivismo e del dualismo, ha decretato l’archiviazione della metafisica, con Kant: a partire dal pedante professore di Königsberg, quello al cui passaggio i concittadini regolavano gli orologi, i pensatori si disinteressano della cosa in sé, e si dedicano unicamente alla cosa come appare: da quel momento la filosofia di fatto muore, si è autoeliminata. A che serve una filosofia che studia solo la cosa come appare? E soprattutto, merita ancora il nome di filosofia, una cosa simile? Per studiare la cosa come appare non c’è bisogno della filosofia: bastano le scienze naturali e, nel caso dell’uomo, la psicologia. E tali, difatti, sono i sedicenti filosofi moderni: naturalisti e psicologi, che usurpano il none di filosofi, un nome cui non avrebbero titolo. Questo nel caso migliore: e sono ancora i più intellettualmente onesti, o, per dire meglio, i meno disonesti.

Poi ci sono i professori da sbadiglio (come li chiamava Schopenhauer), i boriosi professori che riempiono di vuote chiacchiere la testa del pubblico e vendono le chiacchiere per idee e ragionamenti. Il re di costoro è stato senza dubbio Hegel: un instancabile e logorroico chiacchierone, un sofista di prim’ordine, capace d’instupidire a tal punto i suoi disgraziati studenti e lettori, dopo averne fiaccato ogni facoltà raziocinante a forza di sofismi, da poter vendere loro qualunque assurdità come se fosse moneta buona. Si parte dall’idea, assurda, che non è l’essere a creare il pensiero, ma il pensiero a creare l’essere, e si arriva all’affermazione, ancor più assurda, che la tesi più l’antitesi produce la sintesi. Bene, bravo! Dunque, per fare un solo esempio: la verità più l’errore produce una cosa nuova e stupenda, che si pone oltre gli angusti concetti di vero e falso, che li supera e li completa: un tutto indistinto e più ricco, nel quale l’una e l’altra cosa trovano la loro profonda ragion d’essere e concorrono al recupero della sospirata unità. E per aver detto questa stramberia senza senso, frutto di una cattiva digestione del pensieri gnostico e cabalistico, egli viene ancora glorificato da uno stuolo d’inutili professorini stipendiati, i quali ogni sera accendono il lume sotto la sua sacra icona e ripetono nelle aule scolastiche l’amena balordaggine, presetandola con aria estatica come il non plus ultra dell’umano pensiero, quasi fissando una linea di demarcazione fra l’era anteriore ad Hegel, fatta di tenebre e ignoranza, e l’era da lui inaugurata, splendente di luce radiosa. Tali sono gli splendori e le miserie, parafrasando Honoré de Balzac, della cosiddetta filosofia moderna, che guarda Aristotele con aristocratico sussiego e san Tommaso con malcelata commiserazione: dove, a dir la verità, splendori se ne vedono pochi, anzi proprio non se ne vedono, e le miserie sono troppe.

Sia come sia, il buon vecchio Nietzsche, che è pur sempre una delle menti più brillanti in mezzo a questa triste pletora di professori e di merciai di parole senza costrutto e di fumisterie spacciate per ragionamenti, era giunto alla ferma convinzione, specie nei suoi ultimi anni di lucidità, che il cristianesimo è stato la cosa peggiore mai capitata nel corso della civiltà europea e mondiale: una rivincita dei deboli e degli schiavi contro la razza orgogliosa dei padroni, di quelli che non hanno paura di vivere e di morire a fronte alta; una rivincita basata sul senso di colpa, cioè sull’invenzione del peccato, e sull’odio contro tutto ciò che è nobile, grande, sano.

Scrive Friedrich Nietzsche ai capitoli 51 e 52 de L’Anticristo, uno dei libri più tristi e certamente il peggiore del grande filosofo tedesco (tratto da: https://www.sentieridellamente.it/files/Nietz-Anticristo.pdf):

51. Che in qualche caso la fede renda beati, che la beatitudine non basti a fare di un’idea fissa un’idea vera, che la fede non smuova le montagne, ma certo le ponga dove non sono: una rapida visita a un manicomio sarebbe abbastanza chiarificatrice al riguardo. Tuttavia non per un sacerdote: poiché costui nega per istinto che la malattia sia malattia e che il manicomio sia manicomio. Il cristianesimo ha bisogno della malattia almeno quanto l’ellenismo ha bisogno di un eccesso di salute. Rendere malati è il vero fine recondito di tutto il sistema della procedura salvifica della Chiesa. E la Chiesa stessa non è il manicomio cattolico come ideale supremo? Insomma, la Terra come manicomio? L’uomo religioso così come lo desidera la Chiesa è un tipico décadent: l’epoca in cui una crisi religiosa si impossessa di un popolo è caratterizzata sempre da un’epidemia di malattie nervose; il «mondo interiore» di un uomo religioso è talmente simile al «mondo interiore» del sovreccitato e dell’esaurito da essere scambiato per esso; gli stati «più elevati» che il cristianesimo ha posto al di sopra del genere umano come i valori di tutti i valori sono forme di epilessia: la Chiesa ha canonizzato solo folli o grandi impostori in maiorem dei honorem. (…) Noi altri, che abbiamo il coraggio della salute e anche del disprezzo, abbiamo il diritto, noi, quanto possiamo, di disprezzare una religione che insegna a equivocare sulla corporeità; che non vuole liberarsi della superstizione dell’anima; che si fa un «merito» della scarsa alimentazione; che combatte il benessere come una sorta di nemico, di diavolo, di tentazione; che si è convinta a credere che un’«anima perfetta» possa aggirarsi in un corpo di cadavere e che ha dovuto creare per sé una nuova concezione della «perfezione», un essere pallido, malato, un fanatico fino all’idiozia: la cosiddetta «santità», santità che di per sé stessa non è altro che la serie di sintomi di un corpo consunto, snervato e irreparabilmente corrotto!… Come movimento europeo, il movimento cristiano è stato fin dagli albori un movimento collettivo di reietti ed elementi di scarto di ogni sorta (questi volevano il potere con il cristianesimo). Non è l’espressione del declino di una razza, ma piuttosto l’aggregazione delle forme della décadence, che vengono da ogni dove, che si ammassano e si cercano reciprocamente. (…) La maggioranza diventò padrona; il democratismo degli istinti cristiani ebbe il sopravvento… Il cristianesimo non era «nazionale», non era condizionato a una razza, si rivolgeva a tutti i tipi di diseredati della vita e aveva i suoi alleati ovunque. Il cristianesimo si fonda sul "rancune" dei malati, ha l’istinto diretto contro i sani, contro la salute. Ogni cosa che è ben fatta, fiera, esuberante, in special modo la bellezza, infastidisce le sue orecchie e i suoi occhi. Ricordo ancora una volta le inestimabili parole di Paolo: «Dio ha scelto ciò che al mondo è debole, ciò che è stolto, ciò che è vile e spregevole»: ecco qual era la formula, in hoc signo vinse la décadence. Dio in crocei Non è chiaro quale spaventoso significato si cela dietro a questo simbolo? Tutto ciò che soffre, tutto ciò che è sospeso sulla croce è divino… Noi tutti siamo sospesi sulla croce, quindi siamo divini… Solo noi siamo divini… Il cristianesimo fu una vittoria e per causa sua perì una disposizione spirituale più nobile: finora il cristianesimo è stato la più grande sciagura dell’umanità.

52. II cristianesimo contrasta anche ogni ben riuscita costituzione intellettuale, può impiegare solo la ragione malata come ragione cristiana, assume le parti di tutto ciò che è idiota, lancia una maledizione contro lo «spirito», contro la superbia dello spirito sano. Poiché la malattia fa parte dell’essenza del cristianesimo, è anche necessario che la condizione cristiana, la «fede», sia una forma morbosa; è necessario che ogni via diretta, onesta e scientifica, che porta alla conoscenza, sia ripudiata dalla Chiesa in quanto rappresenta un percorso proibito. Persino dubitare è peccato… L’assoluta mancanza di limpidezza psicologica nel sacerdote, che emerge nel suo sguardo, è una conseguenza della décadence; si osservi nelle donne isteriche e nei fanciulli rachitici come l’istintiva falsità, il mentire per il gusto di mentire, l’incapacità a guardare diritto e ad agire rettamente siano regolarmente espressioni di décadence. La «fede» è volere ignorare ciò che è verità. Il pietista, il sacerdote di ambo i sessi, è falso perché è malato: il suo istinto esige che la verità non affermi i suoi diritti in alcun luogo. «Ciò che rende malati è buono; ciò che deriva dalla pienezza, dalla sovrabbondanza, dalla potenza è cattivo»: ecco ciò che pensa il credente. L’obbligo alla menzogna, in questo riconosco ogni teologo predestinato (…). Questo Dio visto come domestico, postino, venditore di almanacchi, in sostanza una parola sola per esprimere la forma più stupida tra tutte le circostanze casuali. (…)

Non ci soffermeremo sulla psicologia, anzi sulla psicopatologia degli ultimi anni di Nietzsche, da cui sono scaturite a ritmo febbrile opere convulse come questa, o come Crepuscolo degli idoli ed Ecce homo; opere che non rendono merito al suo genio e che si potrebbero considerare come il canto del cigno di una mente brillante che si sta spegnendo e come l’estremo, paradossale atto di amore per quel Dio cristiano che egli a parole tanto detesta quanto più ne avverte nell’intimo lo struggente desiderio. Non lo faremo per non incorrere nell’accusa che abbiamo rivolto alla filosofia moderna, di scadere nella psicologia, senza peraltro aver l’onestà di riconoscerlo. Restiamo dunque sul terreno filosofico e chiediamoci quanto di vero, o di possibile, o di plausibile, c’è nella veemente invettiva del filosofo tedesco contro il cristianesimo, perché c’è sempre qualcosa da imparare dalle persone intelligenti, anche quando esse non mostrano le loro facoltà critiche migliori, ma si lasciano trasportare dai pregiudizi.

La prima osservazione che ci sorge spontanea è che egli non fa alcuna distinzione fra cristianesimo e cristianità, laddove la distinzione sarebbe invece necessaria: perché l’uno è l’insegnamento di Cristo, l’altro è la realtà storica e umana in cui esso si è incarnato nei suoi seguaci; e in tutte le religioni, le ideologie, le filosofie, c’è sempre uno iato, un divario più o meno grande, più o meno stridente, fra l’ideale e il reale. Che cosa mai direbbe il buon vecchio Nietzsche se vedesse dove hanno portato le sue parole, a quali esiti le hanno utilizzate, uomini che pur si dichiaravano e si dichiarano suoi seguaci e ammiratori?

La seconda osservazione è che egli fa una semplificazione arbitraria, e per certi aspetti grottesca, della psicologia dei cristiani. Li descrive come dei poveri mentecatti, imbelli e pieni di rancore; come dei malati che odiano la vita, solo perché non hanno il coraggio di viverla sino in fondo; dei pusillanimi che si coalizzano contro la salute e vogliono imporre a tutti la loro morale da schiavi, solo perché temono la forza di chi è andato al di là del bene e del male, la bestia bionda mossa dalla volontà di potenza, che se ne ride del loro evanescente aldilà e disprezza di tutto cuore le loro paure e le loro allucinazioni. Possibile che egli non sappia vedere quanta salute c’è in uomini come san Paolo e sant’Agostino, e quanta forza speculativa e senso dell’equilibrio in uomini come san Tommaso d’Aquino; possibile che non veda quanta capacità di amare c’è nei Santi che si prodigano per amore del prossimo, in Francesco d’Assisi che abbraccia il lebbroso e in san Damiano de Veuster che in mezzo ai lebbrosi sceglie di andare a vivere e a morire? Possibile che santa Teresina di Lisieux sia per lui solo una povera pazza, un’alienata, e non già una giovane donna serena, piena di salute e innamorata della vita?

La terza osservazione è che egli muove da un tipico pregiudizio illuminista (e in ciò, purtroppo, il pur geniale Nietzsche si fa discepolo del banalissimo Voltaire: quale spreco d’intelligenza e quale inversione di gerarchia intellettuale!) secondo il quale l’approccio contemplativo alla vita è non solo qualcosa d’inutile, ma anche di malsano, di contrario alla vita vera. E in ciò egli fa innanzitutto torto a se stesso, che è stato innanzitutto uno spirito contemplativo e che ha scritto le sue pagine migliori non certo quando si è fatto prendere la penna dalla vis polemica, ma quando ha dato espressione alla sua potente capacità di riflessione e d’introspezione.

La quarta osservazione è che per capire qualcosa bisogna amarla, o almeno non odiarla: perché l’odio rende la critica più acuta, ma di un acume sterile ed esteriore, che si ferma alla superficie e raramente scende in profondità, senza cogliere l’essenza della cosa. E l’essenza del cristianesimo, fatta la tara alle miserie della cristianità, è sfuggita completamente a Nietzsche: non è la debolezza, ma la forza; non la malattia, ma la salute. Debole e malato è semmai l’uomo moderno, precisamente da quando ha deciso di archiviare il cristianesimo, liquidandolo come un tragico errore nel percorso della civiltà. Come malato era il povero Nietzsche, con tutta la sua altisonante volontà di potenza…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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