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L’indicibile segreto della damnatio di Paolo Zappa

Paolo Zappa: chi è costui? Senza dubbio le giovani generazioni non lo hanno mai sentito nominare; e dubitiamo fortemente che lo conoscano anche quelle meno giovani, poiché la sua vicenda si consuma entro gli anni della Seconda guerra mondiale e dopo di essa una pesante coltre di silenzio è stata fatta calare su di lui ancor vivente; una coltre di silenzio che ha tutto il significato di una deliberata e implacabile damnatio memoriae. E allora cominciamo col dire che Paolo Zappa, piemontese di Castagnole Monferrato (1899-1957) è stato un giornalista di razza e anche un saggista dalla penna agile e incisiva. Inviato speciale de La Stampa di Torino e redattore capo della rivista Le Grandi Firme di Milano, viaggiò da un capo all’altro dell’orbe terracqueo, talvolta indossando i panni più umili per meglio comprendere uomini e cose, nei luoghi più sperduti, a bordi di navi o nei deserti percorsi dalla Legione Straniera, il tutto ascoltando con attenzione chiunque (dote assai rara che denota il vero giornalista) ma non dando retta ad alcuno senza previa verifica dei fatti, e accumulando un tesoro enorme di conoscenze e di esperienza diretta della vita. Le avventure da lui affrontate hanno qualcosa di romanzesco, di salgariano; e difatti le loro atmosfere esotiche, concitate e talvolta drammatiche si riverberano nei suoi romanzi; nondimeno, come giornalista Paolo Zappa non eccede mai la misura, è sobrio sia nell’espressione che nei ragionamenti. Del resto a un giornalista non si chiede di fare ragionamenti, come oggi fanno quasi tutti, sentendosi più che titolati a discettare sull’universo mondo; ma di riportare le cose come le han viste, il più fedelmente possibile.

In libri come Il sergente Klems, ambiento nella guerra del Rif tra francesi e ribelli marocchini, guerra da lui seguita personalmente come inviato speciale, mostra di possedere una capacità di espressione asciutta e vigorosa: sono libri che meriterebbero di essere ristampati e conosciuti dal pubblico di oggi, così come furono conosciuti e apprezzati dal pubblico degli anni ’30 e ’40 del Novecento. Eppure, siamo consapevoli che tale auspicio è destinato a restare nel limbo dei sogni, perché, salvo eventi assolutamente imprevisti e imprevedibili, qualcuno ha deciso che il nome di Paolo Zappa deve essere dimenticato. Come mai? Forse perché è stato fascista sin dalla prima ora? No, visto che altri, come lui, sono poi transitati tranquillamente nella vita politica e culturale italiana, sovente riciclandosi come comunisti duri e puri. Forse, allora, per aver collaborato con il Servizio Informazioni Militari durante la guerra d’Etiopia, svolgendo importanti compiti a Gibuti per sventare le mene occulte delle democrazie? Neanche: pur essendo scesa molto in basso (vedi l’articolo 16 del Trattato di Pace che decreta la non perseguibilità dei traditori), la democrazia italiana non è arrivata al punto di considerare un crimine aver servito la Patria nel controspionaggio, e sia pure in una guerra tipicamente fascista e perciò "ingiusta" per antonomasia. E allora perché? Forse perché in una pubblica conferenza a Cuneo sostenne che l’Asse stava vincendo la guerra, e ciò dopo la battaglia Stalingrado e la disastrosa ritirata dell’ARMIR? No, neanche per questo: nessuna società, per quanto iniqua, può condannare un fervente patriota per aver cercato di tenere alto il morale dei suoi connazionali, almeno se essa vuol salvare la faccia delle sue presunte virtù democratiche.

Una ragione più seria potrebbe essere quella di aver aderito alla Repubblica Sociale: di non aver avuto, cioè, il "buon gusto" di dissociarsi da Mussolini e dai propri ideali politici dopo il 25 luglio del 1943, accogliendo come liberatori i nemici anglo-americani e plaudendo alle stragi dei partigiani che in un orrendo bagno di sangue fraterno vollero imprimere il loro sigillo sulla "nuova Italia" rinata dopo l’esecrabile dittatura. Tuttavia basta una breve riflessione per convincersi che non è stata questa la sua colpa imperdonabile: altri giornalisti e uomini di cultura fecero la stessa scelta, per non parlare dei prigionieri di guerra nei campi alleati che rifiutarono di obbedire al governo Badoglio (si pensi allo scrittore Giuseppe Berto), e ciò nonostante non vennero condannati al perpetuo ostracismo. Un’altra ragione, ancor più seria in ordine di gravità, potrebbe risiedere nell’aver dato la propria adesione, nel 1938, al Manifesto della Razza. A parte però il fatto di essersi trovato in numerosa compagnia, vale a dire insieme a ben 360 intellettuali di varia estrazione e dei più diversi orientamenti, pure in questo caso si contano non pochi personaggi illustri che hanno fatto brillanti carriere dopo la Seconda guerra mondiale, pur avendo dichiarato a voce e per iscritto di esser favorevoli alle leggi razziali e alla politica razzista: tanto per citare solo alcuni nomi eccellenti (e insospettabili, vista la loro camaleontica abilità nell’abbandonare la vecchia pelle): Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Aldo Moro e Amintore Fanfani. Sorpresi, vero? Ebbene verificare per credere. Ciò che viene considerato inescusabile non è errare, ma perseverare nell’errore, ovvero non dichiarare pentimento e ravvedimento, né scagliare insulti e maledizioni contro gli ex compagni di strada. Insomma tutto si può perdonare a chi si mostra pronto e disposto a servire i nuovi padroni e i nuovi ideali.

E dunque? Crediamo di aver trovato la risposta sfogliando uno dei libri pubblicati da Paolo Zappa a guerra già iniziata, nel dicembre del 1940, dal titolo apparentemente "tecnico": Lo spionaggio in questa guerra, nel quale egli mette a frutto due decenni di viaggi, di esperienze, di d’incontri e di colloqui coi personaggi più svariati, uomini di governo stranieri o semplici marinai e persone qualsiasi per delineare una panoramica del "settore" che in effetti non è puramente tecnica, ma che rispecchia le convinzioni politiche maturate dall’Autore nell’arco di una vita, specie come inviato di prestigiosi giornali. Quasi alla fine del volume, infatti, abbiamo trovato questa pagina, che, da sola, crediamo basti e avanzi per spiegare non solo la definitiva uscita di scena di Paolo Zappa dal giornalismo e dall’ambiente editoriale e culturale del dopoguerra (dopo il ’45 non ha più pubblicato neanche un libro, pur essendo vissuto ancora dodici anni), ma anche la sua irrevocabile damnatio memoriae, pagina che qui riproduciamo (da: P. Zappa, Lo spionaggio in questa guerra, Milano, Editore Dall’Oglio, 1940, pp. 295-297):

Berlino sa che l’Inghilterra le dichiarerà presto o tardi la guerra per i medesimi motivi egemonici, imperialistici e mercantili del 1914 e per motivi che non esistevano nel 1914, ma che saranno i più inesorabili e i più decisivi. Ché, dal marzo al settembre 1938 e dall’ottobre 1938 al settembre 1939, mentre il mondo intero assiste angosciato all’avvicinarsi della guerra, vi sono in Inghilterra uomini o gruppi di uomini che, dall’ombra, con mente freddamente e crudelmente lucida, lavorano per renderla inevitabile. È la politica dell’"ultimatum" a Berlino, della resistenza a Praga, dell’ostruzionismo a Parigi e a Londra, delle garanzie e degli accaparramenti commerciali, dei discorsi troncati e truccati, delle false dichiarazioni e delle false notizie suscettibili di turbare gli spiriti più equilibrati, scuotere le volontà più ferme, eccitare l’opinione pubblica e, nel tempo stesso, rassicurarla circa i rischi della guerra in gestazione.

Ora chi ha voluto, organizzato e condotto questa furiosa campagna bellicista?

I giudei. E la guerra, i giudei la vogliono per vendicarsi degli Stati autoritari che li combattino e per abbattere con gli Stati autoritari il minaccioso risveglio delle razze ariane.

Padroni dell’oro e, quindi, in grado di paralizzare il potere politico ed influenzare gli organi dell’informazione pubblica; rivoluzionari d’istinto e di temperamento e, quindi, abili nel suonare la cornamusa delle ideologie sociali; maestri dell’intrigo e dell’arrivismo e, quindi, piazzati a tutte le leve di comando; razzisti furibondi e, quindi, senz’altra mira che far passare i loro interessi davanti a quelli della nazione ospite, i giudei, di fatti, dal marzo al settembre ’38 e dal marzo al settembre ’39, affiorano ovunque vi sia un intrigo da tramare, un allarme da suscitare, una tensione da inasprire; ovunque vi sia la possibilità d’inventare, diffondere o aggravare una minaccia o un pericolo, di creare ostacoli ad un’azione mediatrice, di turbarla o deviarla; ovunque vi sia la probabilità di confondere la loro causa con quella del popolo ospite, di scatenare gli sciovinismi e sfruttare le mistiche ideologiche.

In Inghilterra, i motivi ideologici, settari e razziali dei giudei si uniscono con quelli egemonici, imperialisti e mercantili della pluto-democrazia.

In Francia, si impongono ai veri interessi della nazione perché in Francia, paese nevralgico per eccellenza, i giudei si trovano alla Camera, nelle commissioni parlamentari e in seno al ministero stesso; si trovano nei partiti politici, negli organi dirigenti di questi partiti e delle organizzazioni sindacali, nei giornali guerraioli, nelle agenzie di stampa ufficiali ed ufficiose, nei giornali radio e persino nei cinegiornali. E si trovano, soprattutto, alla testa dei grandi organismi bancari, commerciali ed industriali. Da un paio di anni, anzi, i banchieri giudaici dell’Alta Banca controllano o, per lo meno, compartecipano al Comité des Forges, il grande organismo siderurgico francese, il cartello dei fabbricanti d’armi e affini, dopo aver messo la parola fine ad una lotta più che ventennale, lotta di interessi e di quattrini, ma anche di idee e di tendenze, il Comité essendo sotto l’influenza del cristianesimo conservatore e nazionalista, l’Alta Banca, invece, essendo sottomessa all’impero occulto del giudaismo social-massonico

La Francia tutta, quindi — la politica, la finanziaria, l’industriale — è sotto il dominio d’Israele. Ed Israele è legato a Londra, Può Berlino ignorare tutto questo? È possibile che la "Gestapo", che lavora così abilmente in Francia, non sappia individuare chi manovra i fili di quelle marionette che dal ’36 al ’40 si succedono al potere? E non sappia che queste marionetta lavorano per fare dell’esercito francese il combattente n. 1 dell’Inghilterra e del giudaismo che con l’Inghilterra si identifica?

Certo, Paolo Zappa aveva già esposto una simile tesi in precedenza, in particolare nel libro Oro, cannoni, democrazie (Corbaccio, 1938): e notiamo en passant che esso è assente dalla bibliografia posta a corredo della "voce" dedicata all’autore su Wikipedia. Qui però egli la condensa in poche frasi scarne e quasi lapidarie e ciò le conferisce una forza devastante, qualunque cosa si pensi circa la sua fondatezza e la sua plausibilità, sebbene egli non fosse certo il solo a dire cose del genere e, anzi, si resterebbe stupiti se si facesse una precisa ricognizione di quanti giornalisti, scrittori, intellettuali, pensatori e anche futuri uomini politici hanno formulato pensieri analoghi in quegli anni, salvo poi rimetterli nel cassetto visto l’esito della guerra e la certezza di andare incontro a serie conseguenze qualora avessero persistito.

Il punto della questione, infatti, allo stato attuale delle cose, è proprio questo Qui non si vuole entrare nel merito della tesi sostenuta da Paolo Zappi o da altri, né sposarla ed approvarla, ma semplicemente riconoscere che tutte le tesi storiche hanno diritto di cittadinanza in una cultura basata sul riconoscimento della libertà di opinione e di espressione. Ve ne possono essere alcune che non piaceranno a tutti e che susciteranno, anzi, forti critiche e riserve: ma le critiche devono essere portata nel merito, ossia sul terreno storiografico, e non sulla base di una pregiudiziale ideologica, ossia che esprimere certi concetti è di per sé un crimine e che pertanto chi ne parla deve essere privato della libertà di esprimersi, e punito. Sappiamo cosa è accaduto allo storico inglese David Irving e ad altri (vedi il nostro articolo: Il rogo dei libri di David Irving è un sinistro segnale per la libertà di ricerca, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il l’11/02/10 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 22/11/17): quando una società si mette sulla via di negare la libertà di espressione, pur se concede molte altre cose, dalla libertà di aborto e di eutanasia al cambio d’identità anagrafica, alla libertà di drogarsi), essa di fatto è già diventata una società totalitaria, ove la cultura non può che ridursi a zimbello del potere. Infatti il trattamento repressivo usato verso gli intellettuali non è che un monito destinato a far capire a tutti i cittadini ciò che possono e ciò che non possono dire; ed è chiaro che la limitazione della libertà d’espressione equivale a una limitazione della libertà di pensiero. A che serve pensare, se non si può parlare? Di fatto, la nostra società si è posta da tempo sulla china liberticida. Da anni non si possono esprimere liberamente certe idee: ad esempio un medico il quale parli apertamente delle cinque leggi biologiche del dottor Hamer viene prontamente cacciato dall’ordine, così come è accaduto, negli ultimi due anni, ai medici che hanno espresso riserve sulla vaccinazione di massa decisa dal governo e hanno rifiutato di sottoporvisi. Nella Chiesa, sono stati scomunicati dei preti per aver celebrato la Messa tridentina, che non è mai stata abolita dal diritto canonico. Paiono cose assai diverse, ma un denominatore comune c’è: la volontà del potere di negare il diritto alla libertà di espressione in nome del Nuovo Pensiero Unico.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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