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La chiesa, per Hobbes, è il regno di fate o fantasmi

Il Leviatano o la materia la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile (Leviathan or the Mater, Forme and Power of a Common Waealth Ecclesiastical and Civil), apparso nel 1651, è l’opera più nota di Thomas Hobbes (1588-1679), nella quale egli, dopo aver esposto la sua concezione antropologica (prima parte), analizza la natura e la costituzione dello Stato (seconda parte), e particolarmente di uno stato cristiano, fondato cioè sulla divina Rivelazione (terza parte), per poi mostrare come la Chiesa cattolica rappresenti un vero e proprio rovesciamento dell’ordine naturale e divino, essendo fondata sull’inganno e la frode del clero a danno delle anime semplici, agitando davanti a loro lo spauracchio della dannazione, dell’inferno e dell’onnipresenza del Maligno, e davanti ai principi la minaccia della scomunica o dell’interdetto (quarta parte), polemizzando a lungo con l’opera del cardinale Roberto Bellarmino, Tractatus de potestate Summi Pontificis in rebus temporalibus, adversus Guglielmum Barclay del 1610 e si sforza di leggere e interpretare le Sacre Scritture, specie i Vangeli e le Lettere paoline, in senso radicalmente difforme dal magistero ecclesiastico.

Scrive dunque Hobbes alla fine della quarta e ultima parte del Leviatano, nel capitolo XLVII (trad. di Mario Vinciguerra, Bari, Editori Laterza, 1974, vol. 2, pp. 644-646):

Ma dopo che questa dottrina, che la chiesa ora militante è il regno di Dio annunziato nell’Antico e nel Nuovo Testamento, fu accolta nel mondo, l’ambizione e l’affaccendamento per ottenere gli uffici che appartengono ad essa, e specialmente quell’alto ufficio di essere luogotenente di Cristo, e la pompa di coloro che avevano conquistate le principali cariche pubbliche, divennero a grado a grado così evidenti, che essi perdettero l’intima riverenza dovuta alla funzione pastorale; tanto che i più saggi tra coloro, che avevano il potere nello stato civile, non avevano bisogno di altro che dell’autorità dei loro principi, per negare a quelli ogni ulteriore obbedienza. Infatti, dal tempo, che il vescovo di Roma è riuscito a farsi riconoscere vescovo universale, con la pretesa della successione di san Pietro, l’intera gerarchia, io regno delle tenebre, può essere opportunamente paragonata al regno delle fate, cioè alle favole, che dicono le vecchie in Inghilterra, dei fantasmi e degli spiriti, e delle gesta che essi compiono la notte. E se un uomo considera l’origine di questo grande dominio ecclesiastico, si accorgerà facilmente che il papato non è altro che il fantasma del morto impero romano, sedente incoronato sul sepolcro di esso, poiché il papato balzò fuori ad un tratto dalle rovine del potere pagano.

Ed anche il linguaggio, che essi usano, nella chiesa e negli atti pubblici, essendo il latino, non usato ora comunemente da nessuna nazione nel mondo, cos’è, se non il fantasma dell’antica lingua romana?

Le fate, in qualunque nazione trattano insieme, hanno un unico re universale, che alcuni tra i nostri chiamano re Oberone, ma anche la Scrittura chiama Belzebù, principe dei demoni. Similmente gli ecclesiastici, nei domini di chiunque si trovino, non riconoscono che un unico re universale, il papa.

Gli ecclesiastici sono uomini spirituali e padri spirituali; le fate sono spiriti e fantasmi. Fate e spiriti abitano le tenebre, le solitudini ed i sepolcri; gli ecclesiastici camminano nell’oscurità della dottrina nei monasteri, nelle chiese e nei cimiteri.

Gli ecclesiastici hanno le loro cattedrali che, in qualunque borgo siano erette, per virtù dell’acqua santa, e per certi incantamenti detti esorcismi, hanno il potere di rendere quei borghi città, cioè a dire sedi d’impero; ed anche le fate hanno i loro castelli incantati e certi fantasmi giganteschi, che dominano sopra le regioni intorno ad essi.

Le fate non debbono essere afferrate e portate a rispondere del male che fanno; così anche gli ecclesiastici sfuggono ai tribunali della giustizia civile.

Gli ecclesiastici tolgono ai giovani l’uso della ragione con certi incantamenti fatti di metafisica e miracoli e tradizioni, e con la Scrittura mal usata, con i quali giungono, se non altro, a far eseguire quello che essi comandano loro; e similmente si dice che le fate involino i bambini dalle culle e li sostituiscano con idioti, che il popolo minuto chiama perciò folletti, e che sono atti all’iniquità.

In quale fucina o in quale laboratorio le fate facciano i loro incantesimi le vecchie narratrici non lo hanno mai specificato; ma i laboratori del clero si sa bene che sono le università, che ricevono la loro disciplina dall’autorità pontificia.

Quando le fate sono in collera contro qualcuno, si dice che mandino i loro folletti a molestarlo. Gli ecclesiastici, quando sono in collera con qualche stato civile, mandano anche i loro folletti, cioè i sudditi superstiziosi ed abbindolati, per molestare i principi, predicando le sedizione, o un principe, sedotto con promesse, a molestare un altro.

Le fate non sposano, ma tra loro sono gl’incubi, che si accoppiano in carne ed in sangue; e neanche i preti sposano.

Gli ecclesiastici prendono il fior fiore delle terre, per mezzo di donazioni di uomini ignoranti, che li temono, e per mezzo delle decime; e così anche è nella favola delle fate che entrano nella cascina, e banchettano con la crema che schiumano dal latte.

Quale specie di moneta abbia corso nel regno delle fate non è detto nella storia; ma gli ecclesiastici invece accettano nelle loro riscossioni la moneta che noi coniamo, benché, quando debbano fare qualche pagamento, li facciano consistere in canonizzazioni, indulgenze e messe.

A questi e simili altri raffronti tra il papato e il regno delle fate può aggiungersi quest’altro, che, come le fate non hanno esistenza, se non nelle fantasie del popolo ignorante, derivanti dalle tradizioni raccontate dalle vecchie o dagli antichi poeti, così il potere spirituale del papa — fuori dei limiti del proprio dominio civile — consiste solo nel timore delle scomuniche, dal quale è preso il popolo sedotto nel sentire falsi miracoli, false tradizioni e false interpretazioni della Scrittura.

Crediamo non sia facile riuscire a condensare in uno spazio così breve un tal carico di astio, disprezzo e ripulsa nei confronti d’una qualsiasi istituzione, come fa qui Hobbes nei confronti della Chiesa cattolica romana. Nella sua foga polemica non si accorge però di confondere cose molto diverse come se fossero simili o identiche: cosa c’entrano le fate e i racconti su di esse con le storie di fantasmi? Per lui, rigido meccanicista e ultra-razionalista, che tratta con sdegnosa sufficienza la filosofia di Aristotele e vorrebbe ridurre la metafisica a qualcosa d’immanente, fate e fantasmi hanno una cosa in comune: sono creazioni soggettive della mente, cose per vecchie superstiziose o per menti deboli e sovreccitate. L’analogia consiste dunque in ciò: che né le fate, né i fantasmi esistono realmente; così come non esistono i diavoli e l’inferno e gli esorcismi dei preti cattolici sono l’equivalente delle storie paurose che raccontano le vecchie ignoranti. Anche lo scopo è simile: incutere timore e così acquistare una forma di potere sul prossimo. In questo senso si può capire come, per lui, sia possibile fare un accostamento, che altrimenti risulterebbe incomprensibile, fra Oberon, il re degli spiriti del bosco, e Beelzebub, il capo dei demoni; o, se si preferisce, fra lo Shakespeare del Sogno di una notte di mezza estate e l’insegnamento cristiano sul principe del mondo.

Anche ciò che dice a proposito del latino come lingua ecclesiastica è fuori misura e di scarsissimo acume: gli sfugge del tutto il significato liturgico di quella lingua antica, gloriosa e universale; così come, nella foga del discorso, si scorda che il latino nel 1600 non era più parlato dal popolo, è vero, ma era pur sempre la lingua dei dotti, degli scienziati e della grande cultura internazionale. Grazie alla conoscenza del latino, uno studente inglese poteva ascoltare con profitto le lezioni all’università di Bologna, ed uno italiano poteva recarsi ad assistere a quelle di Oxford. Il che non è certo un piccolo merito e smentisce l’idea che il latino servisse ormai soltanto a celebrare riti oscuri e incomprensibili nelle chiese, mediante i quali i preti cattolici mettevano in scena delle forme di vera e propria demonologia e intanto ingannavano la gente, i principi, le autorità statali, agendo verso di essi come dei veri e propri parassiti.

Non si deve mai scordare, infatti, che per Hobbes la Chiesa cattolica è il concentrato di ogni male: tutta la quarta sezione del Leviatano è dedicata al tentativo di dimostrare che essa è il regno delle tenebre; che delle tenebre concettuali, create ad arte, il clero si serve per sviare sistematicamente, a proprio vantaggio, il significato delle Sacre Scritture; che la credenza nei diavoli e nell’Inferno è, per i cattolici, una mera sopravvivenza delle più antiche credenze delle religioni pagane, da essi incorporate nella loro dottrina (trascurando il dettaglio che solo con il cristianesimo si opera una netta e assoluta distinzione fra spiriti buoni e malvagi, la quale non faceva parte della religione greco-romana); che la dottrina cattolica, specie su tali argomenti, è stata costruita poi in maniera volutamente oscura, grazie anche all’acquisizione della filosofia greca, che Hobbes da buon moderno non tiene in gran conto, e di tradizioni pagane leggendarie, come le storie mitologiche trasportate nelle figure e nelle imprese dei Santi; che il clero si serve deliberatamente di tali oscurità per coltivare il proprio vantaggio, per farsi pagare i suoi servizi relativi al soprannaturale, e in particolare per carpire le offerte relative alle messe di suffragio per le anime del Purgatorio. Nulla di originale: Lutero aveva già preso di mira tale credenza e la relativa pratica; anzi proprio da lì, con le sue 95 tesi, a proposito delle indulgenze, era partita la sua rivolta contro la Chiesa, nel castello di Wittenberg, l’anno di grazia 1517.

Ed è significativo che alla fine Hobbes si lanci in una partigiana e acritica celebrazione della fermezza di Enrico VIII di Elisabetta, i quali hanno strappato il marchingegno per far denaro dalle mani dei preti e del Papa; scordandosi però di dire che i sovrani apostati dell’Inghilterra, come i principi tedeschi della Germania centro-settentrionale, si sono ribellati a Roma precisamente per sfruttare la stessa opportunità: quella di far denaro senza fatica, semplicemente confiscando le proprietà della Chiesa e trasferendo alle propri casse i beni accumulati nel corso dei secoli in nome della pietà religiosa. Ma su quest’ultimo aspetto, ossia che le ricchezze della Chiesa provengono da lasciti, donazioni e testamenti di anime pie, Hobbes ha le idee ben chiare: si tratta di poveri sciocchi che si sono lasciati raggirare dal clero e che, così facendo, hanno privato la società civile di parte della ricchezza creata dai cittadini per il beneficio dello Stato e non di un clero tanto avido quanto cinico e disonesto.

Così, di primo acchito, si sarebbe tentati di respingere in blocco, con fastidio, questo cumulo di pregiudizi e luoghi comuni protestanti contro il cattolicesimo. Eppure, alla luce di quel che sta accadendo nella Chiesa cattolica da una sessantina d’anni a questa parte, ossia dalla morte di Pio XII, non si può non provare una strana, inquietante sensazione di dèja-vu: perché il clero post-conciliare, e più che mai sotto il pontificato di Bergoglio, somiglia in maniera inquietante a quello descritto con tanta acredine, ma anche con una lucidità spietata, degna del Machiavelli, dal filosofo inglese, teorico dell’assolutismo. Non tanto nel cattivo uso delle ricchezze e dei beni della Chiesa, quantunque anche su tale aspetto ci sarebbe ampia materia di riflessione, specie osservando il genere di vita di quei cardinali che predicano sempre la "chiesa dei poveri" ma poi usufruiscono di stipendi con cinque zeri e non danno certo il buon esempio della pietà e della carità cristiane, nei loro appartamenti lussuosissimi e nelle loro abitudini mondane ben poco in sintonia con la morale che insegnano pubblicamente. Tuttavia l’analogia più sconcertante, e che lascia maggiormente pensosi, fra il clero odierno e le feroci critiche che Hobbes muove a quello di cinque secoli fa nel Leviatano, consiste in un altro aspetto, vale a dire nella frode e nella capacità di dissimulazione che il clero vatican-secondista attua a danno dei fedeli, fuorviandoli con una falsa interpretazione della Scrittura e con la pretesa di azzerare la Tradizione, come se fosse cosa di nessun valore e non già l’altra fonte della divina Rivelazione. Si tratta di un cripto-protestantesimo mediante il quale il clero odierno, a piccoli passi silenziosi, si è significativamente allontanato dalla dottrina (e dalla liturgia!) di sempre, e che a Hobbes avrebbero fatto assai piacere; ma non può fare piacere a un vero cattolico, il quale vede in esso, purtroppo a ragione, un tradimento del Magistero perenne e un subdolo tentativo di far passare sotto il naso dei fedeli, creando ad arte la massima confusione possibile, un radicale snaturamento della ragion d’essere della Chiesa, che è la salvezza delle anime.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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