La chiesa, per Hobbes, è il regno di fate o fantasmi
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4 Aprile 2022Nel 1938 appariva il libro di Carl Schmitt Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes, nel quale il filosofo tedesco si confrontava col pensiero politico e teologico del filosofo inglese del XVII secolo, grande teorico dell’assolutismo; libro che traeva ispirazione non solo da Hobbes, ma anche da Réné Guénon, il padre del moderno esoterismo, che sembrerebbe lontanissimo dal mondo pragmatico e concreto di Schmitt; e che a sua volta attirava l’attenzione d’un altro pensatore eterodosso della destra iniziatica, quel Julius Evola che cercava il modo di calare l’esoterismo guénoniano nella realtà politica e culturale di quegli anni travagliati e gravidi di sviluppi drammatici, ma che allora apparivano potenzialmente esaltanti.
Hanno osservato Sandro Barbera e Cristiano Grottanelli nel saggio Ammiratori di Evola (su Belfagor, Firenze, Olschki, 30 settembre 2002, pp. 561- 564):
Schmitt — scriveva nel 1938 Delio Cantimori recensendo il libretto [ossia Leviathan] nel fare la storia del simbolo del Leviathan insieme a quella del concetto generale dello Stato proposta con questo simbolo dal filosofo inglese, suggerisce iniziaticamente, più che proporre esplicitamente, l’idea che a far fallire il simbolo politico del Leviathan, trasformandone e spostandone insensibilmente il significato, sia stato con Spinoza il pensiero ebraico, seguito da quello razionalistico del settecento e dell’ottocento. Questa interpretazione appare nel libro dello Schmitt come suggerimento conclusivo, costituente come un ricorso di una serie di osservazioni preliminari e di notizie sulla storia del simbolo del Leviathan prima dello Hobbes, che ci informa della antipatia sempre professata dagli ebrei per questo dragone o serpente, simbolo delle forze demoniache, mentre antichi popoli nordici, per l’appunto, hanno preso il drago e il serpente a simbolo di forze protettrici e feconde. All’iniziazione degli illuminati dalle idee neoplatoniche di sostituisce qui la visione degli ispirati dalle forze primigenie e cthonie evocate da Niezsche e Bachofen.
A Cantimori non sfuggiva il carattere peculiare dell’esoterismo, o meglio del falso esoterismo, di Schmitt nel Leviathan. Egli scriveva: «Del resto il precedente immediato dell’interesse dimostrato dallo Schmitt per le ‘coincidenze significative’ e per i ricordi arcani, non sta forse tanto in una concezione iniziatica di forze effettive, ma celate, che reggono la ‘vera’ storia del mondo, quanto nelle conseguenze, non molto differenti ad ogni modo per quanto riguarda i risultati storiografici, della concezione razzistica della storia, col suo corollario antisemitico: gli ebrei rappresentano qui, in senso negativo, la ‘forza occulta’ che altrove è rappresentata, in senso tanto negativo positivo, dagli ‘iniziati’ dell”arte regale’, della Massoneria.»
Certo Cantimori non pensava, scrivendo queste righe, a Guénon; ma sta di fatto che, mentre nella prospettiva guénoniana gli iniziati alchemici e massonici interessavamo essenzialmente come segreti continuatori di quella tradizione che la ‘volonté directrice’ aveva spezzato, in quella di Schmitt ebrei, alchimisti, massoni erano segreti nemici dello stato, volti a «castrare un potente Leviatano». L’affinità fra lo Schmitt del "Leviathan"e il Guénon della "Crise du monde moderne", basata su idee reazionarie e su moduli più o meno coerentemente "esoterici", non escludeva certe opposizioni nelle prospettive politiche concrete.
Per Schmitt dunque Guénon era un esoterista il cui pensiero diventava significativo nel momento in cui una situazione di accerchiamento (nella fattispecie, l’ostilità delle SS e la conseguente perdita di influenza politica nel Reich) rendeva necessaria la denuncia di un errore politico prima non rilevato nel massimo teorico dello stato moderno, la "scopetta" di un secolare, anzi millenario complotto ebraico, e l’adozione di un linguaggio apparentemente "mascherato". Eliade, incontrato nel 1942, ed Evola, incontrato già nel ’37, erano due "amici" di Guénon. Non è possibile qui interrogarsi sull’esattezza di quest’ultimo giudizio: basti dire che né Eliade né Evola furono mai davvero "guénoniani", ma che certo Eliade nel ’42, e forse Evola nel ’37 o nel ’38, ritennero opportuno presentarsi, se non proprio come seguaci di Guénon, come ammiratori del francese a uno Schmitt che se ne mostrava entusiastico estimatore. (…)
Se vogliamo azzardare un’ipotesi, dovremo servirci degli unici due dati sicuri di cui disponiamo. Il primo è l’anno della cena, quel 1938 in cui fu pubblicato il "Leviathan" di Schmitt. Il secondo è il contenuto della recensione di Evola, pubblicata nel gennaio 1939, solo otto mesi dopo. Possiamo immaginare che del libretto si sia discusso durante l’incontro, e che la recensione fosse un’eco di quella conversazione? Non crediamo che una tale ipotesi sia sostenibile, ma certo il commento di Evola al "Leviathan" di Schmitt mostra bene come quelle due menti così diverse potevano interagire. E se ci interroghiamo su quel commento, scopriremo che alcune delle riserve espresse dal fascista di sinistra Cantimori, ostile al razzismo e all’antisemitismo del giurista tedesco camuffati da esoterismo, erano in qualche modo condivise dal teorico della gerarchia della razza, già diffusore militante dei falsi "Protocolli dei Savi di Sion".
Concludendo la recensione, Evola scriveva: «Una volta constata l’affinità del Leviathan con il drago e le altre nature mitiche lo Schmitt cerca di dimostrare che simboli del genere ebbero significato negativo e malefico soprattutto nelle civiltà semitiche mentre nelle altre il drago appare spesso fra i simboli regali, imperiali e metafisici. Ciò non è completamente esatto o, per dir meglio, questa interpretazione va subordinata ad un’altra più generale ed essenziale. Non solo per il drago e la serpe, ma per molti altri simboli antichi è accaduto che essi assumessero due opposti significati – in relazione a due diversi periodi. Quando un potere , in origine positivo, superiore, spirituale, decade e per involuzione diviene strumento di influenze oscure, ‘elementari’ e ‘demoniache’, nel simbolismo dei vari popoli passano ad applicarglisi attributi negativi, prima sconosciuti, mentre quelli positivi, che gli erano originariamente propri, passano a trasferirsi ad altri simboli, alludenti generalmente a una funzione restauratrice. Ciò calza esattamente anche per il Leviathan e ne conferma la natura ambigua, duplice. E questa duplicità , secondo quanto abbiamo detto, riflette un’alternativa che sarà decisiva per l’esito ultimo della rivoluzione mondiale».
Ecco dunque una cauta e cortese presa di distanza di Evola rispetto l libro recensito. Essa riguarda l’idea di fondo del "Leviathan", cioè la teoria del Leviatano come simbolo ebraico e pertanto portatore di un’intrinseca valenza negativa, che si sarebbe ritorta contro i costruttori moderni dello Stato è lo stesso tema che, nella sua recensione, Cantimori aveva criticato. Ma nello scritto di Evola la critica, lungi dal denunciare il falso esoterismo di Schmitt come maschera del suo pensiero razzista e antisemita, mira invece a difendere una diversa, e ben reale, concezione esoterica e magica del potere dei simboli. Evola scriveva infatti: «Consideriamo […] l’eventuale ritorno del Leviathan in seno agli sviluppi politici di là dalla fase acuta della crisi, cioè dalla completa disgregazione individualistica dello Stato. Esso dovrebbe sempre rappresentare una sovranità traentesi dal collettivo galvanizzato, quindi da forze di natura prepersonale e irrazionale. Non è il collettivismo del marxismo e del bolscevismo, poiché questi movimenti, almeno nel loro ‘mito’ (e qui, in fatto di evocazioni, il mito non è da trascurarsi) avversano ogni forma di autorità e si incentrano in una visione affatto materialistica e uniformistica del mondo. Si tratterebbe piuttosto di ogni movimento antiindividualistico e antirazionalistico, che professi di nuovo la concezione dello Stato quale ‘dio mortale’, che alimenti questo simbolo con potenti forze di fede e di sacrificio, ma tuttavia senza sorpassare lo stadio […] in cui l’autorità basta, e la verità è superfluo; in cui dei miti, e non dei veri principi, sono lo strumento migliore per captare e organizzare le forze collettive, in cui il miracolo di una personalità, di un ‘uomo del destino’ saturo di ‘numinoso’, e non un puro ‘diritto divino’, fonda e legittima la sovranità e il comando e conferisce un carattere trascendente all’idea di Stato».
Bisogna tener presente che, nella concezione esoterica, la realtà è pervasa da forze potenti, sia attuali che latenti, ma suscettibili di essere "afferrate" e canalizzate nel senso voluto, le quali trovano un significativo centro motore e un’ulteriore capacità di espansione se vengono associate a dei simboli, postivi o negativi, secondo le intenzioni dell’esoterista, così da divenire cassa di risonanza per la fede, la volontà di potenza e lo spirito di sacrificio di milioni e milioni di persone. Mentre nelle dottrine tipicamente conservatrici le masse devono essere "esorcizzate" e la loro partecipazione al movimento della storia deve essere puramente represso, nell’esoterismo invece (e naturalmente vi sono diverse specie o indirizzi esoterici, accomunati però da un comune richiamo alla tradizione e da un reciso rifiuto della modernità, specie della rivoluzione e dell’ideologia del progresso) si tratta di comprendere quali forze latenti sono in gioco, come le si può catturare e incanalare, con quali mezzi le si può dirigere a un determinato scopo, anche galvanizzando le masse e trasformandole così da elemento destabilizzante ed anarchico in un utile strumento per l’avvento dell’uomo del destino, la personalità eccezionale (politica o sacerdotale, o entrambe le cose insieme) chiamata a interpretare lo spirito dei tempi e a realizzare i fini che quella determinata fase storica rende necessari. Questo perché al fondo della concezione esoterica c’è l’idea, magica e alchemica, secondo la quale colui che è iniziato a una dottrina segreta, in costante collegamento con le forze spirituali non umane e con dei maestri che possono anche essere incogniti, cioè usi a manifestarsi fuori dalla dimensione materiale, sui piani sottili, ha il compito di prendere in mano il movimento della storia o quantomeno la responsabilità di contribuirvi mediante le sue conoscenze occulte, per dirigerlo in senso tradizionale.
C’è poi un altro importante fattore, del quale si deve tener conto. La modernità in se stessa, e specialmente la fase ascendente della sua parabola storica (noi forse siamo già, per taluni aspetti, sul versante discendente; mentre per altri aspetti siamo proprio al culmine di essa) vede l’addensarsi minaccioso di tutte le forze infere, il prepararsi e lo scatenarsi delle energie più basse, quelle legate al mondo della quantità, che si manifestano nella dimensione grossolanamente materiale, in una sorta di apocalisse del mondo del mondo dello spirito. La tecnica è la tipica manifestazione dello spirito moderno (e il pensiero di Ernest Jünger, per certi aspetti accostabile a quello di Evola, Guénon, Eliade e Carl Schmitt, pur essendo più tradizionalista che esoterico, ha prodotto delle pagine esemplari in tal senso), poiché consente la massima concentrazione di materia ed energia per fini pratici e di potere, ma si tratta di un’energia "morta", pesante, quantitativa appunto, diametralmente opposta a quella che l’esoterista cerca di attivare, per cui nel mondo dominato dalla tecnica imperversano più che mai le forze oscure, basse, demoniache. In tali condizioni, tutto ciò che l’iniziato può fare è comprendere e mettere a punto le strategie mediante le quali gli è possibile servirsi della tecnica, o almeno evitare di esserne schiacciato ("cavalcare la tigre", dice Evola con una bella immagine figurata), in attesa che il ciclo cosmico inverta il proprio movimento, e tornino a presentarsi le condizioni favorevoli all’esplicazione della dimensione spirituale, nel presente più che mai mortificata e compressa.
Questo senso di fatalità e di inevitabilità, per cui l’uomo moderno, e non solo l’uomo-massa, ma anche e soprattutto il singolo individuo che è rimasto cosciente e padrone di sé, e che grazie alle sue conoscenze si è sottratto ai riti collettivi di contro-iniziazione, si respira in tutta la cultura conservatrice novecentesca, specialmente mitteleuropea; è presente anche, come una sorta di moderno Crepuscolo degli dei, in autori che, come Jünger, e soprattutto come Spengler, non sono specificamente attratti dall’esoterismo, tuttavia avvertono con forza e registrano in tutti i suoi movimenti il graduale, inarrestabile processo di avanzata della modernità, vista come l’era dei Titani: laddove i Titani sono, come nella mitologia greca, il simbolo di un destino incombere originato da forze superiori alle umane, per cui la sola cosa che gli uomini possono fare è capirne la direzione e decidere se lasciarsene spazzar via o se adattarsi apparentemente ad essi, nell’attesa di cogliere l’occasione favorevole per conquistarne la direzione di marcia, imbrigliarle e dominarle, cosa che può fare solo l’uomo eccezionale, l’uomo del destino, colui che è sa dominare se stesso e conservare la propria autonomia e la propria signoria interiore, mentre tutti gli altri piegano le ginocchia e si adattano a servire il nuovo potere burocratico e tecnologico. E se il tempo attuale richiede uomini d’acciaio, che sappiamo servirsi delle macchine e del denaro per imporre ad essi la loro superiore volontà, allora è necessario preparare il terreno, rinunciando alle ormai obsolete forme di conoscenza e concentrando il sapere nella direzione che può consentire il raggiungimento dello scopo. Questo non è più il tempo dei poeti e dei pensatori, ma dei capitani d’industria e dei trascinatori delle masse, dice Spengler in opere come Anni decisivi. Una versione moderna del Principe di Machiavelli, che ha fatto tesoro delle lezioni passate e si adatta alla temperie della nuova civiltà del denaro e della tecnica, delle megalopoli e dei riti collettivi secolarizzati, nei quali al culto degli antichi dei si sostituisce quello delle forze cieche emergenti. L’iniziato, quindi, come faceva l’alchimista dei secoli passati, deve individuare gli elementi che gli consentono di estrarre dalle forze caotiche della storia ciò che gli può servire per plasmare il mondo ritornando sulle vie della tradizione, ponendo un limite all’irruzione disordinata della forze inferiori.
Nel caso specifico che abbiamo preso in considerazione, Carl Schmitt sembra persuaso che la chiave di volta per invertire il movimento delle forze ctonie è racchiuso nel simbolo del Leviatano, ovvero del drago; un simbolo positivo nelle civiltà tradizionali ariane, ma negativo nelle culture semitiche e particolarmente nella Bibbia. Poco importa, in questa sede, quanto di razzista e di antisemita sia sotteso a tale convinzione; ciò che conta è che il Leviatano, a partire da Spinoza, associato a un’idea negativa, quella del male, dell’oscurità e del caos che si oppone all’ordine cosmico, funziona di fatto come un contro-simbolo, vale a dire un simbolo della contro-iniziazione, e chi lo assume non si rende conto di porsi sotto le insegne di una forza cieca e auto-distruttiva. Traccia di questa convinzione è presente nel Leviathan, la breve opera nella quale il filosofo tedesco si confronta col pensiero assolutista di Thomas Hobbes, interrogandolo per strappargli il segreto della potenza dello Stato.
La ricerca di Carl Schmitt, infatti, ruota costantemente intorno alla natura e alle caratteristiche dello Stato, visto come il moderno dio mortale, e il Leviatano, per lui come per Hobbes, è il simbolo di una forza arcana, terribile, mitica, a metà fra il mostro e la macchina, figura complessa e ambigua, che per l’inglese si connota essenzialmente in senso razionalista, mentre per lui si carica anche di oscuri significati teologici. Il problema di Schmitt, a questo punto, è quello di "de-ebraicizzare" il Leviatano, per restituirlo alla sua dimensione primigenia, carica di valenze positive e perciò salvifico, laddove nella cultura moderna si è caricato di valenze negative, oscure, malefiche, a causa dell’influenza semitica. E se tutto ciò dovesse apparire — come dire? — piuttosto vago e artificioso, si rifletta a come il simbolo solare della svastica, attualizzato ma al tempo stesso invertito dal nazismo, è stato il centro propulsivo di un movimento storico fatalmente distruttivo, capace però di catalizzare le energie di un popolo intero, laddove in origine esso era un simbolo tradizionalmente positivo, esprimente il movimento progressivo dell’astro celeste e quindi delle forze cosmiche vitali. Che tali speculazioni fossero poi collegate, in Carl Schmitt, alla scoperta di una congiura ebraica mondiale, in atto da secoli e secoli, va da sé: su questo terreno il pensiero di Schmitt era destinato a incontrarsi con quello di Evola, promotore della diffusione dei Protocolli dei Savi di Sion (cfr. il nostro articolo A proposito della questione sull’autenticità dei "Protocolli" dei Savi Anziani di Sion, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 20/05/10 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 17/01/18), mentre sul terreno iniziatico più generale, non poteva non essere influenzato da quello di Guénon. Ora, Evola era anch’egli un ammiratore di Guénon (come lo era Mircea Eliade, a sua volta ammiratore di Corneliu Zelea Codreanu: inevitabile, pertanto, che si costituisse, negli anni ’30 del Novecento, una sorta di triangolo iniziatico formato da Guénon, Schmitt ed Evola, propiziato dal loro comune orientamento antimoderno e antirivoluzionario, aristocratico e tradizionale.
Che dire, quali conclusioni trarre da tutto questo? Nell’Europa degli anni precedenti lo scoppio della Seconda guerra mondiale, i pensatori antimoderni e reazionari cercavano il modo di fermare la ruota della storia e d’imprimerle un movimento opposto, dalla quantità verso la qualità e dal numero verso lo spirito. Non ci si deve scandalizzare per l’uso di quest’ultima parola, anzi, bisogna riconoscere che essi, a loro modo, videro e intuirono la china nefasta che stava prendendo la civiltà europea e mondiale e si posero il problema di come salvarla, riportandola nel solco della tradizione. Solo pochi intellettuali odierni hanno osato riprendere, sia pure con infinita cautela, questo discorso, d’interpretare cioè la cultura di destra degli anni ’30 come un estremo tentativo per salvare l’Europa dal caos e dalla disgregazione; e fra quei pochi c’è il filosofo Stefano Zecchi, il quale si è chiesto se il fatto che il nazismo abbia orribilmente screditato la causa dello spirito contro il materialismo, rendendo impossibile tornare sulla questione di come salvare la civiltà dello spirito, debba per forza implicare l’autocensura di quanti se ne rendono conto, mentre i fautori del caos, forti di un tale ricatto morale, moltiplicano i loro attacchi e si adoperano a ritmo frenetico per distruggere quel poco di spirituale che ancora sopravvive nel mondo odierno (cfr. il nostro articolo Davvero vogliamo favorire chi ci vuole annientare?, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 07/12/18).
Noi non abbiamo la risposta pronta per tale angoscioso interrogativo. Crediamo, però, di sapere per quale ragione il tentativo di quei pensatori era destinato ad abortire in partenza: perché traeva ispirazione da un substrato pagano o paganeggiante, che per "tradizione" intendeva quella romana o quella ariana, e disprezzava la sola tradizione viva e vitale del mondo contemporaneo: quella che affonda le sue radici nel cristianesimo.
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