La vita attiva è superiore alla vita contemplativa?
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27 Marzo 2022Si parla di solito, e giustamente, della nascita degli ordini mendicanti – e specialmente dei due più diffusi e più famosi, i domenicani e i francescani – come di una vera e propria rinascita della Chiesa e della stessa fede cristiana, indebolita e in parte evaporata dopo secoli di progressivo adattamento e di frequenti compromessi tra gli uomini di Chiesa e il mondo, e tra il singolo individuo e le necessità della vita quotidiana. Essi riportarono la spiritualità cattolica nell’ambito che le è proprio, ossia tornarono a fare di essa il centro della vita religiosa, sia nell’interiorità delle coscienze, sia nelle comunità cittadine, così da offrire anche un potentissimo strumento di coesione sociale in un’epoca, i primi due-tre secoli dopo il giro di boa del Millennio, di rapidi mutamenti e perciò anche di frequenti e diffusi disagi da parte delle popolazioni, specie nelle frange più deboli ed esposte agli effetti negativi di tali mutamenti.
Tuttavia si dovrebbe tener presente anche un altro aspetto, oggi generalmente trascurato, della rinascita religiosa promossa in maniera tanto efficace e credibile, perché vissuta concretamente e in prima persona, dell’opera dei frati degli ordini mendicanti, vale a dire la loro spiccata sensibilità per le questioni sociali e la loro capacità d’interpretare attivamente i malesseri, le speranze, i bisogni della gente comune. Quando ad esempio un frate domenicano si recava a predicare in una certa città, e tuonava dal pulpito contro l’avarizia degli usurai che succhiavano il sangue del popolo, e incoraggiava la nascita di una qualche forma embrionale di credito popolare, la chiesa era gremita di uomini e donne in estasi, i quali vedevano e toccavano con mano che il Vangelo, per quell’uomo di Dio, aveva anche una dimensione concreta e non ignorava affatto le giuste necessità della vita, a cominciare da quella di mantenere la famiglia e prendersi cura della prole. E ci fu un momento in cui i frati degli ordini mendicanti arrivarono a organizzare essi stessi delle forme di governo cittadino, proprio per mostrare quali dovevano essere le linee guida di un governo rivolto al bene pubblico, mettendo in cima alla loro azione il progetto di giungere a una pacificazione generale, sia all’interno dei comuni, sia tra comune e comune.
Scegliamo, a titolo di esempio, quel che accadde nell’area veneta, ma una ricostruzione molto simile si può fare per ogni altra regione d’Italia (da: Andrea Castagnetti, La Marca Veronese-Trevigiana, Torino, UTET Libreria, 1986, pp. 110-113):
L’evoluzione sociale, economica e politica delle città comunali fra XII e XIII secolo portò con sé atteggiamenti nuovi nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche: non solo i ceti dirigenti dei comuni si sottrassero progressivamente alla tutela, più o meno esplicita, dei vescovi locali e, in un secondo tempo, ne erosero le prerogative politiche ed economiche; le stesse popolazioni cittadine, a volte anche rurali, assunsero verso le chiese atteggiamenti di critica e di diffidenza sul piano morale e dottrinale. Chierici e monaci non comprendevamo né tanto meno "servivano" la nuova società e i suoi problemi. Era inoltre diffusa l’esigenza di pacificazione e di penitenza, che si intrecciava con attese escatologiche; parimenti diffusa era l’esigenza di comprendere, non disprezzare i poveri, che la nuova realtà economica e sociale creava sempre più numerosi. Di qui il sorgere di movimenti di penitenziari, disciplinati; di qui il pullulare delle eresie: quella dei Catari, ad esempio, i quali partivano dal presupposto di un contrasto fra Dio e il mondo per giungere a negare tutto ciò che è legato alla materia, si diffuse in Italia e anche nel Veneto. Numerosi Catari, stabilitisi sul lago di Garda, a Desenzano, furono sradicati nel corso del Duecento dalle autorità comunali veronesi, che li mandarono al rogo, nei primi tempi della signoria scaligera.
L’aspirazione a vivere secondo il Cristo dei Vangeli animò i movimenti papueristici. Verso la fine del secolo XII compaiono gli Umiliati fra i lavoratori della lana, numerosi nei borghi delle città. A Verona la prima fondazione degli Umiliati, S. Maria della Ghiara, è già fiorente nel secondo decennio del secolo XIII.
Movimenti pauperistici e penitenziali e nuovo spirito associativo si diffusero anche fra i contadini: a Vicenza, alla fine del secolo XII, un gruppo di famiglie contadine decise di vivere in penitenza, riunendosi presso la chiesa di S. Desiderio, oggi Sant’Agostino.
A Padova penitenti, conversi e oblati ai prefiggevano tutti, in modi diversi ed affini, l’intento di vivere secondo il Vangelo, senza abbandonare la condizione laica.
Se gli Umiliati, ai loro inizi, con il loro esempio di attaccamento al lavoro e di distacco dal guadagno, rivalutarono il lavoro quotidiano degli artigiani più modesti, i due maggiori ordini "nuovi", detti dei Mendicanti, cioè quello dei FRATI MNORI di S. Francesco e dei FRATI PREDICATORI di s. Domenico, risposero insieme alle nuove esigenze religiose; i Francescani furono testimoni di come si poteva essere cattolici poveri e nel contempo amare la natura, inanimata e animata, contro la condanna proclamata dai Catari; i Domenicani, ritrovando la tradizione della grande cultura cristiana, combattevano contro la dottrina e l’efficacia oratoria degli eretici.
Francescani e Domenicani si diffusero con rapidità nella Marca. Insediamenti dei primi sono testimoniati a Vicenza nel 1222, nel 1225 a Verona, nel 1226 a Padova e a Treviso. I Domenicani sono testimoniati in Verona nel 1220; pochi anni dopo, nel 1226, a Padova, dove l’azione riformatrice si accrebbe d’intensità con la predicazione del francescano s. Antonio; a Treviso verso il 1230, a Vicenza più tardi, poco dopo la metà del secolo.
Nella primavera del 1233 l’Italia del Nord fu percorsa da un movimento religioso «di giubilo e di aspirazione alla pace», chiamato in seguito "Alleluia", del quale ci parla diffusamente Salimbene di Parma. Fu all’origine un fenomeno prevalentemente cittadino, che traeva alimento dalla necessità di superare il clima di incertezza e di paura generato dalle lotte di fazione e dalle stesse calamità naturali.
Ben presto — già nell’estate del 1233 — alla testa del movimento si posero i frati mendicanti, Predicatori e Minori: essi indirizzarono le manifestazioni popolari, oltre che verso la concordia politica, alla penitenza.
A noi interessano qui gli aspetti prevalentemente polittici, che ebbero l’obiettivo più appariscente nella pacificazione delle fazioni, ma che non tralasciarono quello di realizzare la "libertas ecclesiae" nell’ambito dei comuni cittadini, con l’abolizione o la mitigazione delle disposizioni statutarie ritenute lesive di tale libertà, e di introdurre, viceversa, in quegli statuti le disposizioni antiereticali emanate un decennio prima dell’imperatore Federico II, che prevedevano per gli eretici condannati dalle autorità ecclesiastiche la pena del rogo, eseguita dall’autorità civile.
I frati mendicanti si facevano interpreti delle più sentite aspirazioni delle folle, specialmente cittadine, sostenendo con la predicazione e le opere la pacificazione delle lotte intestine ed esterne.
Nel giugno del 1233 Giovanni di Vicenza, domenicano, giungeva nella Marca Veronese, preceduto da una larga fama di predicatore e "pacificatore" acquisita nella non lontana Bologna.
Nella Marca le lotte, intestine ed esterne, erano particolarmente accese: si preparava un grosso scontro fra Verona, divenuta filo imperiale e controllata da Ezzelino, che alla fine del’ano precedente si era accordato con Federico II, abbandonando la Lega Lombarda, e le altre città, guidate da Padova, Giovanni si recò appunto a Padova, predicando la pace, trascinando folle immense, che si imposero, sia pure per poco, ai capi militari e politici, alle grandi casate feudali come ai governi comunali cittadini, stremati tutti dalle lotte di fazione. Sotto la pressione popolare furono liberati prigionieri e concluse le paci fra le "parti" e fra le città. Il momento culminante fu il 28 agosto, presso Verona, ove fra’ Giovanni era pure entrato facendosi assegnare i pieni poteri: a Paquara, in una piana sulla destra dell’Adige, in una grande assemblea, ove erano presenti il patriarca di Aquileia e i vescovi dipendenti, i governanti delle città e grandi signori — il marchese Azzo d’Este, i fratelli da Romano, Rizzardo da San Bonifacio, i da Camino -, fu decretata la pacificazione generale.
Il potere di fra’ Giovanni durò poco: egli si fece proclamare in Verona "dux et comes", riprendendo qualifiche pubbliche tradizionali, ma ormai entrate in uso per designare i signori rurali dotati dei poteri maggiori, già comitali, e attribuite comunemente , ad esempio, ai vescovi, come a quello di Verona dalla fine del secolo XII.
L’opera di fra’ Giovanni fu subito compromessa. Pochi giorni dopo la pace di Paquara, alcuni maggiorenti, sobillati dai Padova, occuparono la città di Vicenza e fecero prigioniero lo stesso fra’ Giovanni accorsovi
Proprio dalla filo papale Padova partiva l’azione più decisamente contraria, ispirata e guidata da Giordano Forzaté, un abate benedettino, che vedeva nella pacificazione generale un’offerta gratuita di respiro ai da Romano e al partito imperiale, allora in grave difficoltà, e che diffidava in ogni caso di una politica "demagogica" e preferiva agire secondo i tradizionali canai politici
Lo "scacco" subito da Giovanni si ripercosse sull’azione generale dei frati mendicanti. Essi rinunciarono a svolgere in proprio un ruolo politico attivo, impegnandosi nella creazione di congregazioni e associazioni di pace.
Di solito gli storici sorvolano un po’su questo aspetto dei giovani ordini mendicanti, quello politico e sociale; e soprattutto sul fatto che, per un momento, nella prima metà del XIII secolo, i frati domenicani e francescani tentarono di mettersi direttamente alla guida delle masse, benché alla fine il tentativo si risolvesse in un clamoroso fallimento, al quale non furono estranei, anzi furono schierati in prima linea contro di essi, i frati dei "vecchi" ordini, in particolare i benedettini, come nel caso di Giordano Forzaté e della sua rivolta contro Giovanni di Vicenza. In ogni caso, è notevole il fatto che due ordini giovanissimi e in piena espansione, con una forte presa sulle masse, perché capaci d’interpretare i sentimenti e i bisogni popolari più profondi, abbiamo tentato di prendere nelle loro mani la direzione politica dei comuni, non per smania di potere, ma per imporre quella pace e quella concordia, interna ed esterna, che era nei voti degli italiani di quel tempo e la cui struggente nostalgia pervade tutta la Divina Commedia. La gente comune, e specialmente i ceti borghesi in ascesa, mercanti, artigiani, professionisti, notai, giudici, medici, insegnanti, non ne potevano più delle lotte di fazione e delle guerre fra un comune e l’altro; non pareggiavano né per i guelfi né, tanto meno, per i ghibellini, ma vedevano che la società correva verso il suicidio a causa di tali discordie e lotte fratricide, e che dovunque saliva la disperata invocazione Pace! Pace! (cfr. la canzone Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno di Francesco Petrarca). Per questo motivo i frati minori e quelli predicatori decisero di scendere in campo, forti della loro recente, ma solidissima autorevolezza, conquistata per così dire sul campo, ossia convertendo le masse e sospingendole verso una vita più austera, di penitenza e di sacrificio, ma anche denunciando gli abusi del potere comunale, la tirannia dei signori feudali e la micidiale cupidigia degli usurai, specialmente giudei, che impoverivano la gente comune, rovinandola attraverso un sistema crescente d’indebitamento. Vedevano anche il diffondersi delle eresie come un pericolosissimo fattore di disgregazione sociale, perché le eresie medievali – e questo è un aspetto importante, peraltro oggi frequentemente trascurato — rappresentavano non solo e non sempre una protesta di tipo religioso, ma anche e, sovente, soprattutto una protesta economica, politica e sociale. Infatti esse offrivano alle masse una prospettiva di resistenza e di ribellione contro l’egoismo e il cinico sfruttamento operato dai ceti dominanti sul resto della popolazione, e non meno degli altri dal potere vescovile, quasi immancabilmente contaminato da interessi e preoccupazioni di natura assai poco spirituale e viceversa molto terrena. Però, al tempo stesso, proprio per il loro carattere di sovversione radicale — il caso estremo è quello dei catari, odiatori non di questa o quella istituzione, di questa o quella forma di potere, ma del mondo in quanto tale, ossessionati com’erano da un ideale radicalmente e distruttivamente dualistico, che vedeva nella vita stessa un errore e quasi una colpa — le eresie rappresentavano una sfida e una minaccia pericolosissima a qualsiasi forma di vita sociale ordinata ed erano percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione come una forma degenerata di protesta, priva di ogni sbocco costruttivo. E ciò spiega il fatto che tanta contrarietà suscita negli odierni storici di sinistra, i quali si dolgono né si capacitano che l’uomo medievale non condividesse la loro idea della lotta sociale permanete, e perciò vedesse con favore la severa repressione dei movimenti ereticali.
Ad ogni modo, l’azione degli ordini mendicanti nell’ambito sociale e politico non fu stroncata se non nella forma dell’azione diretta. Ammaestrati specialmente dall’esperienza di Verona, essi a un certo punto si limitarono a organizzare e incanalare la spinta popolare, i movimenti come quello dell’Alleluia, senza più pretendere di assumerne la guida. Il che significa che la loro presa sulle masse, non solo in ambito spirituale – si veda lo straordinario successo delle prediche di frati mendicanti come Sant’Antonio da Padova — ma anche sul terreno della vita sociale, ambiti che del resto non erano nettamente distinti come lo sono oggi, sulla scia dell’ideologia liberale – non venne meno affatto, solo mutò forma e si limitò ad un’azione indiretta, ma pur sempre efficace, in ogni caso tale da mantenere l’energia potenzialmente eversiva di tali movimenti entro l’ambito della conservazione sociale, della concordia e della pace. L’esatto contrario di quanto faranno, al tempo della rivoluzione industriale i predicatori marxisti dell’odio sociale e della perenne, implacabile lotta di classe, dichiarando guerra al mondo borghese in quanto tale e a tutte le sue istituzioni, prima fra tutte la Chiesa e l’espressione del sentimento religioso. A seconda dei punti di vista ciò può essere considerato un successo o un disastro. Gli storici d’ispirazione marxista, naturalmente, vedono in tale azione dei movimenti pauperistici ispirati e guidati dagli ordini mendicanti una forma di cloroformizzazione sociale, richiamandosi alla nota formula di Marx, per la quale la religione è l’oppio dei popoli. In una prospettiva autenticamente cristiana, basata sull’idea della collaborazione sociale, della concordia sulla base di valori condivisi da tutti i membri della società, e della pace intesa non come il risultato della guerra, ma come l’eliminazione delle cause della guerra, quei movimenti furono un successo, tanto più che mostrarono come, se fossero stati organizzati meglio e sostenuti dalle forze più vive e intelligenti delle classi dirigenti e non solamente strumentalizzati, come in realtà fecero le fazioni comunali e le varie signorie feudali, avrebbero potuto stabilire non già nuove forme di governo, ma delle forme di governo che tenessero in maggior conto il desiderio di pace delle popolazioni e rispettassero maggiormente i diritti della Chiesa, vista come il rifugio e la protezione dei miseri e degli oppressi e non già come — secondo il pregiudizio diffuso a partire dall’illuminismo — la roccaforte dell’oscurantismo e della conservazione, nel senso deteriore di quest’ultimo termine.
Il fatto è che l’uomo medievale, vale a dire l’uomo della civiltà cristiana che per mille anni innalzò chiese e cattedrali, fece pellegrinaggi e manifestò forme di ardente devozione, concepì e condusse le Crociate quale risposta difensiva alla minaccia islamica e quale segno di vitalità sociale e spirituale, insomma l’uomo cristiano innamorato della vita, come bene ha visto la studiosa Régine Pernoud, e niente affatto incline alla misantropia e all’ipocondria, al nichilismo e al fatalismo, come vogliono cinema e letteratura contemporanei, aveva a cuore sopra ogni altra cosa la stabilità sociale, perché vedeva in essa la condizione necessaria e irrinunciabile per una vita libera e serena sia dell’individuo che per l’insieme del corpo sociale. Al contrario l’uomo moderno detesta la stabilità sociale, esalta la mobilità e il continuo cambiamento, specie quello che si verifica sulla spinta delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche, e non si sente particolarmente legato né alla famiglia, né al paese, né al territorio, né alle proprie radici e alla propria identità, ma è pronto a spostarsi dove trova lavoro e le occasioni di carriera e di guadagno sono più promettenti: insomma è un uomo sradicato, dominato da una concezione utilitaristica della vita, per il quale non vi è nulla di stabile perché non vi è nulla di realmente sacro. Un uomo che è pronto a mettersi al servizio del migliore offerente e che, se mai ha ancora voglia di fare delle battaglie ideali, le fa per tutto ciò che va nella direzione dell’autodistruzione, reclamando a gran voce diritti quali il divorzio, l’aborto, l’utero in affitto, il matrimonio omosessuale, la libertà do drogarsi a piacimento. Il tutto lasciando che altre forze – in apparenza lo Stato, ma in realtà il grande potere finanziario internazionale, che in realtà si serve dello Stato come a suo tempo si è servito delle ideologie, ora divenute obsolete – decidano tutto ciò che riguarda le libertà essenziali, da quella di decidere come tutelare la propria salute a quella di esprimere liberamente la propria opinione, e addirittura negandogli l’uso della proprietà privata, la disponibilità del proprio denaro e la protezione da parte della legge qualora egli si mostri indocile ai piani di sottomissione radicale decisi dal globalismo. Pertanto un confronto spassionato fra l’uomo medievale e quello moderno porta a conclusioni opposte a quelle cui siamo stati abituati.
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI