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Il fine ultimo dell’uomo è vedere Dio nella sua essenza

Abbiamo visto che tutte le cose tendono al bene come al loro fine naturale (vedi l’articolo Tutte le cos tendono al bene, anche se non lo sanno, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 21/03/02). Ma perché tendono al bene? Che cosa le spinge, e che cos’è il bene al quale aspirano? Partiamo dalla seconda di queste due domande, alla quale avevamo già in parte risposto: le sospinge, per così dire, un bisogno naturale: quello stesso che le sollecita a sviluppare sempre di più le potenzialità insite nella loro natura e a raggiungere, se possibile, lo stato di perfezione, in quanto solo quando una cosa è perfetta, trova il suo appagamento e la sua piena realizzazione. Nel caso degli enti animati, e specialmente nel caso dell’ente razionale che è l’uomo, tale fine è un fine consapevole; nelle cose inanimate non lo è, ma esiste ugualmente. Ciascuna cosa tende alla perfezione, perché ciascuna cosa è perfettibile: e anche se la perfezione piena e assoluta non viene mai raggiunta, cionondimeno la perfezione è la meta e la tensione che spinge ciascuna cosa ad andare sempre avanti, a puntare a uno stato che non è ancora realizzato, ma solo in potenza. Il seme aspira a diventare germoglio, pianta e frutto; e dal frutto nasceranno nuovi semi. Analogamente, nell’ambito umano il bambino è chiamato a divenire uomo e a sviluppare l’attributo pienamente umano che contraddistingue la sua specie: la ragione.

Dunque le qualità degli enti sono i mezzi o gli strumenti mediante i quali essi puntano alla propria realizzazione e, possibilmente, alla perfezione. La facoltà umana per antonomasia è la ragione: è grazie ad essa che l’uomo si realizza in quanto uomo. Ora, le qualità esistono per essere sviluppate; non esistono qualità statiche, vale a dire indifferenti quanto alla loro realizzazione. Se non si sviluppano e non si esplicano, l’individuo deperisce e muore, oppure non giunge nemmeno a maturazione, come nel caso del seme che cade su un terreno arido e sassoso e non diventa germoglio né pianta, e mai diverrà frutto. Per l’uomo, sviluppare la propria facoltà sovrana equivale a sviluppare la propria ragione: la quale gli è data sotto forma di bisogno e di domanda, vale a dire come una qualità che attende di essere sfruttata e realizzata. Se l’uomo non avesse il bene potenziale della ragione, non ne avrebbe nemmeno il desiderio e il bisogno; e invece egli ha sia il desiderio che il bisogno di usare la ragione per conoscere il mondo. La ragione è lo strumento mediante il quale l’uomo conosce la realtà intorno a sé e dentro di sé: un uomo che sia privo della ragione o del desiderio di possederla, usarla e dirigerla al suo fine naturale, non sarebbe nemmeno un uomo, ma un tentativo abortito di uomo.

Ora, la ragione tende al suo fine che è la conoscenza; e non una conoscenza qualsiasi, ma la conoscenza del vero: perché una conoscenza falsa e illusoria non sarebbe evidentemente una reale conoscenza, e la ragione non ne trarrebbe alcun giovamento, anzi, sarebbe simile a colui che si ciba di un alimento avvelenato: perirebbe e si autodistruggerebbe. Dunque la ragione è data all’uomo perché la conoscenza è possibile, perché il mondo è intelligibile e non già incomprensibile: punto primo. Hanno torto le filosofie che partono postulando l’incomprensibilità e l’irrazionalità del mondo: se così fosse, ciò vorrebbe dire che la ragione è data all’uomo per beffa o per scherno, ossia per fargli toccare con mano la sua assoluta impotenza e la contraddittorietà del suo essere. Ma non è così. La ragione è data all’uomo perché, punto secondo, il vero esiste, proprio come la sete è data al corpo perché esiste l’acqua. Se l’acqua non esistesse, la sete non esisterebbe; e se il vero non esistesse, o, il che è in pratica lo stesso, se non fosse intelligibile, allora la ragione non esisterebbe, non sarebbe data all’uomo.

Nulla di ciò che è dato all’uomo gli è dato per caso o per beffa: se fosse per caso, bisognerebbe immaginare un caso sommamente improbabile, equivalente ad una finalità intelligente e ordinata, in modo tale da poterlo escludere, perché ogni facoltà è la somma di un numero quasi infinito di possibilità subordinate, mirabilmente fuse o coordinate in modo da rispondere al proprio fine; mentre se la ragione venisse dal caso bisognerebbe immaginare un dio malefico, che si diverte a tormentare gli uomini, dando loro un bisogno impossibile da soddisfare. Il che è una contraddizione in termini: poiché Dio è somma perfezione, un Dio maligno è qualcosa che non si può neanche immaginare. Sarebbe in realtà un demonio: ma l’esistenza del demonio rinvia all’esistenza di Dio, da questo non si scappa. Immaginare che esista il demonio ma non esista Dio è la stessa cosa che immaginare che al posto di Dio ci sia solo il demonio, il che, come abbiamo visto, è auto-contraddittorio, come immaginare l’esistenza di un oceano senza una sola goccia d’acqua, o di un continente senza un solo centimetro cubo di materia. Impossibile, illogico, auto-contraddittorio. E si aggiunga che il demonio è l’essere che incarna il male, e il male sa solo distruggere, non costruire; tanto meno saprebbe creare. Anche per questo è impossibile immaginare un demonio creatore del mondo, o anche solo conservatore del mondo: invece di conservarlo, lo distruggerebbe, il che è quanto in effetti tenta di fare da quando è iniziata la sua rivolta contro Dio. Dunque, è escluso che la ragione venga all’uomo dal caso, così come è escluso che essa sia fatalmente destinata a girare a vuoto, postulando l’inesistenza o l’irraggiungibilità del vero.

E ora vediamo la prima domanda che ci eravamo posta all’inizio: perché le cose tendono al bene? Esse tendono al bene perché tendono all’essere, vale a dire tendono a sussistere in quanto sono, e non a scomparire nel nulla. Se tendessero al male, si autodistruggerebbero, perché nulla di ciò che tende al male può conservare la propria esistenza, ma prima o poi la distrugge. Solo il bene esiste assolutamente; il male non è che la contraffazione dell’esistenza. Il bene esiste realmente perché corrisponde alla natura delle cose: che è la conservazione del proprio essere. Il bene di un’ape, ad esempio, è conoscere la strada dell’alveare; se l’ape impazzisce e perde l’orientamento, si auto-distrugge, perché non sa più fare ritorno all’alveare. Ciò vale anche e soprattutto per l’uomo. Per l’uomo è bene esistere, perché solo esistendo può vivere la vita e può puntare al proprio fine naturale, che è la contemplazione del vero. Se l’uomo non esistesse, o se l’uomo decide di sopprimersi, non giunge al vero, non esplica la facoltà della ragione mediante la conoscenza. Come minimo allora egli regredisce, da uomo diventa bruto, si adatta a vivere al di sotto del proprio statuto ontologico. Perciò hanno torto Leopardi, Schopenhauer, Montale e tanti altri "maestri" della modernità, per i quali la cosa migliore è il non esistere, e la sola cosa buona per lui è il non essere. Hanno torto perché postulano una situazione auto-contraddittoria: l’uomo di fato esiste, e dunque tanto vale chiedersi perché esiste e cosa è chiamato a fare nel mondo, invece di trastullarsi con sterili pensieri nichilisti e rimpiangere di esistere. Chi fa così, si comporta come un disertore: volge le spalle al compito cui è stato chiamato. Nessuno viene chiamato all’esistenza per caso: dunque la vita è una cosa seria, è una cosa grande e una cosa bella. Chi non lo capisce ha chiuso gli occhi e gli orecchi davanti alla meraviglia dell’essere.

Adesso andiamo a rileggere e meditare una pagina di san Tommaso d’Aquino, tratta dal Compendio di teologia, l’opera curata dal discepolo e segretario del Dottore Angelico, frate Reginaldo da Piperno, al quale è dedicata, e che riflette la generosità e lo spirito di servizio con cui Tommaso rispondeva ai dubbi e ai quesiti dei suoi studenti, sviluppando ragionamenti di meravigliosa chiarezza e consequenzialità (da: Compendio di teologia, I, §§ 207-212; in: Tommaso d’Aquino. Vita, pensiero, opere scelte, a cura di Armando Massarenti, Il Sole 24 Ore, 2006, pp. 388-389, che riprende: Compendio di teologia e altri scritti, a cura di Agostino Selva e Tito S. Centi, Torino, UTET, 2001):

207. Una cosa è in potenza in due modi: in un modo è in potenza naturale, rispetto cioè a quelle cose che possono essere attuate dall’agente connaturale; in un altro modo rispetto a quelle che non possono essere attuate dall’agente connaturale, ma da qualche altro agente. E ciò è evidente nelle cose corporali: che infatti un bambino diventi un uomo o che da un seme nasca un animale appartiene alla potenza naturale; ma che dal legno venga prodotta una sedia o che un cieco diventi un vedente, ciò non è proprio della potenza naturale. E così accade anche al nostro intelletto. Il nostro intelletto infatti è in potenza naturale rispetto a certi intelligibili che possono essere ridotti in atto dall’intelletto agente, che è il principio innato in noi perché per suo mezzo possiamo essere intelligenti in atto. Ma per noi è impossibile raggiungere il fine ultimo per il solo fatto che il nostro intelletto è attuato in questo modo. Infatti la capacità dell’intelletto agente consiste nel far passare in atto i fantasmi che sono intelligibili in potenza. Ora, i fantasmi sono ricevuti dai sensi perciò mediante l’intelletto agente il nostro intelletto è attuato soltanto da quegli intelligibili dei quali possiamo avere coscienza attraverso i sensi.

208. Ma è impossibile che il fine ultimo dell’uomo consista in questa conoscenza: infatti raggiunto il fine ultimo il desiderio naturale viene appagato. Ora, per quanto uno progredisca nella conoscenza secondo il modo predetto di conoscere, secondo il quale abbiano la conoscenza dai sensi, rimane ancora il desiderio di conoscere altre cose. Vi sono infatti molte cose alle quali il senso non può giungere, e di cui mediante i sensi non possiamo avere se non una conoscenza minima: sappiamo tutt’al più che esistono, ma non sappiamo che cosa sono. E ciò dipende dal fatto che le essenze delle sostanze immateriali sono di genere diverso da quelle delle sostanze sensibili, e le trascendono quasi senza proporzione. E anche fra le cose che cadono sotto i sensi ve ne sono molte di cui non possiamo conoscere con certezza la natura: di alcune in nessun modo, di altre in modo insufficiente; per cui rimane sempre il desiderio naturale di una conoscenza più perfetta. D’altra parte è impossibile che il desiderio naturale sia vano.

209. Perciò noi raggiungiamo il nostro ultimo fine quando il nostro intelletto viene attuato da un agente più sublime di quello che è connaturale, così da appagare in noi quel desiderio di conoscere che è in noi naturalmente. Infatti in noi il desiderio di sapere tale per cui, conosciuto l’effetto, desideriamo conoscere la causa; e riguardo a ogni cosa, conosciute tutte le sue circostanze, il nostro desiderio non è appagato se non quando ne conosciamo l’essenza. Perciò il desiderio naturale di sapere non può acquietarsi in noi se non quando conosciamo la causa prima, e non in un qualsiasi modo, ma la sua essenza. Ma la prima causa è Dio, come abbiamo visto sopra; perciò il fine ultimo della creatura intellettuale è conoscere Dio nella sua essenza.

210. Dobbiamo ora considerare come ciò sia possibile. È chiaro infatti che non potendo il nostro intelletto conoscere alcuna realtà sena avere una certa specie di essa, è impossibile che per mezzo della specie di una realtà esso conosca l’essenza di un’altra; e quanto più la specie attraverso la quale conosce quella cosa è distante da essa, tanto più imperfetta è la conoscenza che il nostro intelletto ha dell’essenza di quella cosa. Se per esempio conoscesse un bue attraverso la specie dell’asino, ne conoscerebbe l’essenza in modo imperfetto, cioè solamente quanto al genere; e lo conoscerebbe ancora più imperfettamente se avesse solo la specie di una pietra, perché lo conoscerebbe attraverso un genere ancora più remoto; e se poi lo conoscesse attraverso la specie di una cosa che non comunica in alcun genere con il bue, non conoscerebbe in alcun modo la natura del bue.

211. Ora, da quanto abbiamo detto sopra è chiaro che la creatura non comunica in nessun genere con Dio. Quindi la creatura non può conoscere l’essenza di Dio mediante alcuna specie creata non solo sensibile, ma neppure intelligibile. Perché dunque Dio sia conosciuto nella sua essenza è necessario che Dio stesso diventi la forma dell’intelletto che lo conoscere sia congiunto ad esso, dico non per costituire una natura, ma come la specie intelligibile è unita a colui che conosce. Come infatti Dio è il suo essere, così è la sua verità, che è la forma dell’intelletto.

212. Quindi è necessario che tutto ci che riceve una certa forma sia predisposto a ricevere quella forma. Ora, il nostro intelletto non è per la sua stessa natura in stato di disposizione ultima rispetto a questa forma che è la verità, perché l’avrebbe fin dal principio: è quindi necessario che per raggiungerla sia elevato mediante una nuova disposizione, che noi chiamiamo "lumen gloriae", mediante il quale il nostro intelletto è perfezionato da Dio, che è l’unico ad avere in proprio questa forma per sua natura, come la disposizione alla forma del fuoco non può venire che dal fuoco stesso. E di questo "lumen gloriae" è detto nel Salmo: «Nella tua luce vedremo la luce».

Sì: nella luce di Dio si può contemplare Dio; non fuori di essa. Chi vuol conoscere il vero volgendo le spalle a Dio pretende l’impossibile. La conoscenza di Dio essendo assoluta trascende le possibilità della mente umana, che sono relative: ma con la grazia divina, anche l’impossibile diviene possibile.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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