Meditazioni sul capitolo XXXIV di Ezechiele
19 Marzo 2022Il fine ultimo dell’uomo è vedere Dio nella sua essenza
21 Marzo 2022L’amore è ciò che desiderano dal profondo gli esseri umani: Amare ed essere amato, solo questo volevo, scrive sant’Agostino nelle sue Confessioni. È un istinto naturale, profondamente radicato, che precede ogni altro, eccetto quello della sopravvivenza; ma è talmente forte che, in taluni casi, può perfino passare davanti a quest’ultimo, come nel caso di chi sacrifica la propria vita per proteggere la persona amata. Istintivamente, l’essere umano sente che l’amore è l’espressione del bene: perché è il bene, in effetti, e non l’amore che desidera e cerca; ma non ne ha coscienza, scambia il mezzo per il fine e così cerca l’amore, mentre in realtà è del bene che è assetato. Tutte le creature viventi e non solo gli umani tendono al bene; anzi, tutte le creature, comprese le inanimate: ciascuna è mossa al proprio fine dell’aspirazione al bene. Il bene è, per le creature inferiori, soddisfare le proprie necessità e realizzare la propria natura, in pienezza e liberamente. Per l’uomo, l’aspirazione al bene si connota di implicazioni razionali, perché è la ragione la caratteristica specifica dell’essere umano. Desiderare il bene, per l’uomo, equivale a voler fare un retto uso della ragione: la ragione conduce al bene, nel senso che conduce alla piena realizzazione della natura umana, esercitata liberamente e senza ostacoli né disordini o confusioni. Il bene dell’uomo è esplicare la facoltà razionale al fine di determinarsi come essere razionale; l’amore è tutt’uno col desiderio del bene e perciò anche con l’esercizio della ragione. In altre parole, l’essere umano cerca il bene perché ciò è connaturato al suo fine naturale; e lo cerca dispiegando ordinatamente la ragione naturale, perché è quest’ultima a innalzarlo al di sopra dei bruti e a dargli la possibilità di raggiungere ed esplicare tutta la propria pienezza esistenziale, saltando gli ostacoli e le false immagini di bene.
Se l’uomo non avesse la ragione, farebbe come tutte le altre creature: punterebbe al bene, con la stessa sicurezza con cui la cerva anela ai rivi delle acque, per dissetarsi e spegnere la sete (cfr. il Salmo 42). Ma poiché possiede la ragione, questa talvolta lo aiuta a realizzare più coscientemente e più intelligentemente per il proprio fine, mentre talvolta lo fuorvia e lo allontana da esso. La ragione, infatti, è un dono magnifico, ma potenzialmente pericoloso: se non è accompagnata dall’umiltà e dal timore di Dio, e dunque se priva della grazia, si ritorce contro l’uomo gli fa scordare il fine al quale è ordinato. Ora, se il fine di ogni cosa è il bene, il fine dell’uomo è quel bene che corrisponde pienamente all’uso della sua facoltà più alta, la ragione: e perciò quel Sommo Bene che egli solo può desiderare, conoscere e amare, mentre le altre creature si fermano sulla soglia, senza poterlo identificare con chiarezza. Quello che per la cerva è il bene, ad esempio il rinvenimento di un corso d’acqua per spegnere la sete, per l’uomo non può essere che il bene dei beni, il bene da cui si origina ogni altro bene, e non un bene inferiore o secondario. Le altre creature si contentano dei beni secondari, perché non hanno la ragione; l’uomo ha la ragione e quindi può riconoscere il bene supremo. Però quella stessa ragione lo può sviare e può offuscare la sua visione, inducendolo a scambiare dei beni secondari, o inferiori, per il bene supremo, nel quale soltanto egli potrebbe spegnere la propria sete.
All’uomo non basta un corso d’acqua qualsiasi per dissetarsi: egli ha bisogno della Sorgente dalla quale sgorgano tutti gli altri corsi d’acqua: ha bisogno di dissetarsi direttamente alla Fonte più elevata e più pura di tutte. Tale fine supremo è Dio, perché da Dio creatore sono state fatte tutte le cose, e dunque anche quei beni minori, o secondari, che tante volte offuscano la visione dell’uomo e traviano la sua volontà, inducendolo a disperdersi in una ricerca inefficace o addirittura distruttiva, che lo allontana dal vero bene, il quale, per lui, è sempre e soltanto il Sommo Bene e non un bene qualsiasi o un bene generico. L’uomo non può accontentarsi del primo bene che si trova alla sua portata; e neppure di un bene generico, tale da poter piacere a chiunque, senza alcun discernimento. L’uomo è fatto in modo che la sua sete non si spegne se non dopo aver attinto alla fonte purissima dalla quale scaturisce ogni altro bene. Così, ad esempio, l’uomo può inseguire l’amore di una creatura, scambiandolo per un bene assoluto; ma quanto più quell’amore lo dovesse attirare verso il basso, verso la concupiscenza e la carnalità, tanto più lo allontanerebbe dal vero bene, che è Dio, per gustare il quale bisogna porsi in un atteggiamento spirituale disinteressato. Sant’Agostino diceva che esistono due sole specie di amore: l’amore di sé, che è diabolico perché consiste nel disprezzo del timor di Dio e nel culto del proprio ego, e l’amore di Dio, che è l’amore spirituale del bene supremo e perciò anche amore vero per le creature. Non si possono amare realmente le creature senza passare per l’amore del Creatore; non è vero che le creature sono una scala che conduce verso l’alto. Questo può accadere, ma può anche non accadere: tutto dipende se le creature sono amate in maniera disordinata oppure ordinata. Se sono amate in maniera ordinata, possono accompagnare l’anima verso la comprensione del vero bene e del vero amore, che è l’amore totalmente disinteressato di Dio. Solo davanti a Dio la creatura può dire: Eccomi, fai di me ciò che vuoi; insegnami a fare non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu. Davanti alle creature, invece, l’io resta sempre in primo piano: l’io che vuole, che brama, che spera, che desidera, o anche che teme, che odia e che nutre gelosia, invidia, rancore, sete di vendetta. In ciascuno di tali sentimenti l’io insegue una qualche immagine di bene, per quanto distorta e deformata: perfino nel desiderio di uccidere l’altro, di sopprimere colui che rappresenta un ostacolo o dal quale ha subito un torto che non sa e non vuole perdonare.
Sempre l’io, quando si pone al centro di se stesso, vuole qualcosa in funzione di qualcos’altro: sempre cerca le creature per i propri scopi, per il proprio piacere, per una propria necessità: non le cerca disinteressatamente, e dunque non le cerca con animo puro. Le cerca per prendere qualcosa da esse e per gratificarsi. Ma non trova mai, alla fine, la gratificazione che sperava; sempre ritorna la sete, quella sete terribile; ritorna anche dopo aver ottenuto l’amore della persona amata o aver realizzato la vendetta contro la persona odiata. E perciò non trova mai la pace, non è mai in una condizione di equilibrio e di armonia, ma è sempre tormentato dai suoi demoni, dai suoi fantasmi, dai suoi miraggi. Si potrebbe dire che è in uno stato di pazzia, perché non vede le cose come realmente sono, e quindi non vede neanche le creature per quel che sono, ma attraverso le lenti deformanti del proprio desiderio o del proprio odio. E le forze del male, che sono sempre in agguato, fanno di tutto per favorire negli uomini tale condizione interiore: una condizione di piena ignoranza e inconsapevolezza, perché quanto più l’uomo ignora chi è e a qual fine è diretta la sua esistenza, tanto più si allontana dal sentiero della verità, che lo porterebbe a essere felice, spegnendo la sete da cui è tormentato, e lo rende facile preda di tutte le seduzioni e le tentazioni, che lo sprofondano sempre più in basso, verso la dimensione carnale, dalla quale sarà poi difficilissimo emergere, una volta che egli l’abbia scambiata per la sola condizione possibile di esistenza, la sola dalla quale può sperare di ottenere qualche bene da godere. Tale è la condizione tipica della società moderna e della cultura moderna.
Nei secoli passati e specialmente nel Medioevo – non è idealizzazione o sterile nostalgia del passato – l’uomo possedeva una più robusta gioia di vivere (è la conclusione cui giunge una grande medievalista, Régine Pernoud) e ciò per la buona ragione che l’uomo poneva al centro di tutto non il proprio io, ma il Creatore. Tutto era in funzione di lui, anche la ricerca della felicità. L’uomo cristiano sapeva, e in teoria dovrebbe sapere anche oggi, che in Dio si trova la soddisfazione di ogni desiderio e il conseguimento di ogni bene, poiché Egli è il Bene Supremo e anche il Sommo Vero, e fuori del bene e del vero non c’è nulla che possa rendere l’uomo felice nel significato completo del termine. Perciò l’uomo medievale, con la mediazione dei Santi, aveva sempre Creatore quale fine, e sapeva che andando verso di Lui avrebbe trovato la gioia e la pace, allontanandosi da Lui avrebbe trovato l’amarezza e la disperazione. Lo sapeva: il che non vuol dire che sempre lo metteva in pratica. Ecco perché non stiamo idealizzando quei secoli. L’uomo è sempre stato fragile e peccatore: è la sua condizione naturale, dopo la Caduta. Ma una cosa è saperlo e una cosa ignorarlo, come i pagani; un’altra cosa ancora è saperlo e far finta d’ignorarlo, e inventarsi mille favole sostitutive, come fa Rousseau e come fanno tanti di noi che si pongono più o meno coscientemente nella sua scia, che poi è la scia di Pelagio.
La dinamica attraverso la quale l’uomo medievale cercava Dio come fine della propria esistenza, e in Lui trovava quel senso di pace e di equilibrio che tanto manca all’uomo contemporaneo, è ben esemplificata da ciò che scrive in proposito san Tommaso d’Aquino nella Summa Teologica; e che è stato ben sintetizzato, a nostro parere, da Ernesto Buonaiuti. Abbiamo scelto di prendere una sua pagina per illustrare e arrichcire la nostra riflessione e anche per mostrare dove il modernismo dell’autore lo porta fuori dalla giusta interpretazione del pensiero tomista; il che ci offrirà un ulteriore spunto di riflessione.
Scrive dunque Ernesto Buonaiuti nella sua Storia del Cristianesimo, vol. II, Evo Medio, Milano, Dall’Oglio Editore, 1943, pp. 594-597):
(…) per comprendere la concretezza del problema dell’amore di Dio in tutto il Medioevo, bisogna tener ben presente che per gli spiriti del Medioevo, infinitamente più che per noi, usi a veder gli schemi astratti della speculazione cosmogonica, Dio è per eccellenza l”ESSERE REALE, PERSONALE, VIVENTE. Di modo che per lo spirito medioevale il problema dell’amor di Dio è la QUINTESSENZA IPOSTATIZZATA del problema quotidiano del nostro amore del prossimo.
Ragiona dunque San Tommaso: «Amare Dio sopra ogni cosa, più di se stessi, è cosa naturale, non solamente all’angelo e all’uomo, ma ad ogni cosa creata, nella misura in cui può amare o sensibilmente o naturalmente. Di fatto, quelle che sono le inclinazioni naturali possono essere riconosciute negli atti che si compiono naturalmente, indipendentemente da ogni deliberazione. Nel mondo della natura infatti ciascuna cosa opera a norma dell’attitudine e dalla potenzialità ad essere, a propria volta, foggiata. Ora noi constatiamo che ogni parte di un tutto, tratta da una tal quale inclinazione naturale, opera in vista del bene del tutto, anche con pericolo e danno proprio. Ecco così la mano aperta alla spada per la difesa della testa, da cui dipende la vita di tutto il corpo. Per cui è cosa naturale che ciascuna parte, a suo modo, ami il tutto più di se stessa. Allo stesso modo, a norma della medesima inclinazione naturale, e secondo quella che è la virtù civica, il buon cittadino si espone volonterosamente al pericolo di morte, per il bene collettivo. Ora è chiaro che Dio è il bene comune di tutto l’universo e di tutte le sue parti. Dal che risulta che ogni cosa creata ama a suo modo naturalmente Dio, più di se stessa: le cose insensibili, cioè, per forza cieca di natura; i bruti animali attraverso la loro vita sensitiva; l’uomo, creatura ragionevole, attraverso quel’amore intellettuale, che chiamiamo carità» (Qodl. I, a 8; cfr. Summa Theol., I, q 60, a 5; I, II, q. 109, a 3).
L’uomo dunque ama Dio più di sé, in virtù di una legge naturale, che esercita il suo infallibile e incontrollabile imperio sull’universa creazione. Uscito dalle mani di Dio, il modo costituisce un tutto con lui. Amando Dio, le cose in fondo amano la totalità e il coronamento di se stese Non potrebbero non amarli. Pertanto nell’amore delle cose verso Dio, è Dio che ama a se stesso, perché l’universo, considerato in ciascuna delle sue parti appartiene a Dio, è di Dio, viene da Dio e torna in Dio. «Poiché ciascuna cosa creata, naturalmente, nella misura in cui, è di Dio, ne segue che l’angelo e l’uomo, tratti da una carità naturale, amino Dio sopra tutto, più di se stessi» (Iq.60, a.5). Ma allora come va che l’uomo, unico fra gli esseri, sbaglia nella scelta degli oggetti da amare, ed è capace di rivolgersi a termini di amore che lo allontanano da Dio, invece di appropinquarlo a lui? Qui l’antitesi agostiniana dei due amori, fra cui non c’è conciliazione possibile senza distruzione dell’uno o dell’altro, viene sciolta dialetticamente, mediante un semplice processo di chiarificazione nozionale. «Il bene della parte», insegna san Tommaso, «è subordinato al bene del tutto. Pertanto, nello stato di natura integra, l’uomo subordinava l’amore di sé all’amore di Dio, come al fine ultimo. E al medesimo amore di Dio subordinava l’amore di tutte le altre cose, amando così Dio più di sé e più di tutto. Ma nella condizione della natura corrotta, che è la nostra attuale, l’uomo manca a questo segno, sotto lo stimolo della inclinazione della volontà razionale, la quale, a causa del corrompimento della natura, segue il bene individuale, qualora non sia guarita e reintegrata in virtù della grazia di Dio» (I, II, q.109, a.3). Si direbbe che, secondo san Tommaso, vi siano negli esseri ragionevoli come due piani di inclinazione e di appetizione. Il piano naturale li porta automaticamente ad amare Dio più di se stessi. Il piano razionale, in cui è l’orma mortifera e pestifera della colpa originale, li induce invece a fare svaporare la tendenza verso Dio in tendenza verso il bene generico, che, come tale, non può essere ricercato ed amato con amore puro e disinteressato. Donde l’amore per il proprio essere sussistente prende il sopravvento sull’amore di Dio, e l’egoismo sopraffa l’altruismo.
Come l’intelligenza nel sistema di Bergson, costituisce un arresto di sviluppo e una fossilizzazione statica dello slancio vitale, così in san Tommaso la "rationalis voluntas", ferita nelle sue capacità dal peccato d’origine, arresta ed impaccia e devia la "naturale" tendenza della creatura ragionevole verso l’Assoluto personale, Dio. Ma è uno squilibrio nella capacità guidatrice; è una deformazione e una contraffazione di una tendenza naturale al bene; non è un rovesciamento integrale e un corrompimento radicale, sanabile solo mercé un’amputazione e una resecazione spietate. In ogni azione umana, nel più mostruoso peccato, è sempre a Dio che tende inconsapevolmente la volontà del peccatore. «Un peccatore qualsiasi, per il fatto che agogna e sogna un bene precario, va verso Dio, nella cui partecipazione è la radice di ogni bene. Per il fatto però che si protende verso quel bene precario in una misura non ordinata, , si allontana da Dio, vale a dire si allontana dalla norma della Sua giustizia» (De Malo, q. XVI a. 3 ad. lum.). Sicché par lecito concludere che, secondo san Tommaso, il problema dell’amore si pone per l’uomo come un problema di distribuzione gerarchica di valori. L’aspirazione amorosa a Dio è la legge ferrea che avvolge l’universo in unico movimento, ascendente verso l’Essere che ha posto fuori di sé l’Esistente. Ma la legge ha interruzioni e sobbalzi. La ragione contaminata dell’uomo può imporre al suo amore mète disdicevoli e termini sproporzionati. Quella grazia, che San Tommaso postula necessaria perché anche l’uomo si ricollochi nel piano generale della retta aspirazione affettuosa verso Dio, non ha tutta l’aria di essere, puramente e semplicemente, un retto senso della ragione, non difforme da quello che avrebbe potuto costituire il sogno equilibrato di uno stoico o di un platonico? L’amore, pertanto, nella Scolastica, è un trovarsi razionale nella sinfonia che l’universo scioglie, protendendosi verso il termine del proprio anelito al bene, che è Dio.
La ricostruzione del pensiero di Tommaso riguardo all’amore ordinato al suo fine naturale, Dio, ci sembra perfettamente corretta. È la conclusione che non ci persuade affatto, laddove Buonaiuti insinua, invero in maniera del tutto gratuita, che l’idea della grazia quale mezzo necessario affinché l’uomo si ponga alla ricerca razionalmente ordinata del bene sia, in Tommaso, una spiegazione soprannaturale di un’operazione, secondo lui perfettamente naturale, della retta ragione, quale avrebbe potuto essere quella di uno stoico o un platonico. È qui che il modernismo dell’autore viene fuori, quasi all’improvviso, come una belva che si teneva acquattata nel folto, ma già pronta al balzo. Che cos’è questo processo alle intenzioni di san Tommaso? Sulla base di quali elementi avanza il sospetto che Tommaso chiami "grazia", ossia intervento soprannaturale, ciò che la ragione può conquistare da sola, anche la ragione priva della Rivelazione, come quella dei pagani? Ciò equivale a togliere al cristianesimo la cosa più preziosa: la dimensione della soprannaturalità; e a farne un insegnamento umano, filosofico e morale, simile a quello di tanti altri saggi dell’antichità. L’impressione è rafforzata, e non attenuata, dalla pagina successiva, che noi non abbiamo riportato per non dilatare oltremisura lo spazio della citazione: nella quale Buonaiuti esalta quella che lui chiama concezione estatica dell’amore, citando a profusione, ma in maniera strumentale, autori come Gregorio Magno, San Bernardo e Gilberto di Hoy. L’insistenza sul filone mistico della cristianità medievale sembra funzionale alla corrispettiva svalutazione della tendenza razionale, impersonata da san Tommaso, erede a sua volta della tradizione aristotelica. Ciò è in linea con il sentimentalismo, lo storicismo e il soggettivismo dei modernisti, che tendono a una concezione puramente intimistica della fede; e spiega la preferenza accordata a Platone, sant’Agostino e san Bernardo (e a Bergson) e in genere alla spiritualità francescana rispetto a quella domenicana, più oggettiva e razionale, ma anche più "fredda". Buonaiuti, come tutti i modernisti, pensa che l’amore ignora il giudizio della ragione: il che equivale a vanificare la splendida opera di armonizzazione, nella distinzione, di ragione e fede operata da san Tommaso: il suo dono più bello al pensiero umano.
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