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L’arma più micidiale è il senso di colpa

Quando le relazioni umane sono impostate sul potere, tutto si ridice a chi possiede l’arma più potente: e ciò vale sia nelle relazioni interpersonali, da soggetto a soggetto, sia nella sfera della politica, dove i soggetti sono popoli e nazioni, da un lato, e chi detiene il controllo del denaro, cioè i grandi finanzieri, dall’altro.

Partiamo dal caso più semplice: quello delle comuni relazioni interpersonali, ad esempio nella dinamica della coppia. Se tale dinamica si ridice a un gioco di potere — e l’elemento del potere, sia pure in forme blande e ben dissimulate, è presente in moltissime relazioni di coppia, per non dire in tutte o quasi tutte — allora molto spesso il potere ce l’ha chi sa giocare bene la carta del senso di colpa. Chi riesce a far sentire in colpa l’altro, ha già vinto: qualsiasi cosa possa pensare o fare colui che si sente in colpa, finirà sempre per accontentare la vittima, vera o presunta, nel tentativo di farsi perdonare o semplicemente di mettere a tacere i propri scrupoli e rimorsi. Anche se si tratta di scrupoli e rimorsi che non avrebbero ragion d’essere, anzi che in genere non ce l’hanno: perché chi compie realmente delle azioni riprovevoli ai danni dell’altro, e lo fa abitualmente, il più delle volte non è tormentato da alcun senso di colpa, o per dir meglio non sa neppure cosa sia il senso di colpa. Provano sensi di colpa invece le persone scrupolose, oneste, che hanno una coscienza morale ben sviluppata e non sono affatto abituate a comportarsi male; e se lo fanno, si sentono a disagio esse per prime, talvolta persino di più delle loro "vittime".

E ora parliamo di queste ultime. Lamentarsi per un torto ricevuto, recriminare per una cattiva azione subita, è normale: quasi tutti lo fanno. Vivere lamentandosi e rimproverando all’altro i suoi torti e le sue cattive azioni, vere o immaginarie, non è normale. Questo è il confine tra una personalità sana, che ha subito dei torti, e una personalità maligna, che vuol fare dei torti una professione redditizia: quella dell’eterna vittima. Le vittime chiedono un risarcimento, e ciò mette le catene al loro carnefice, lo obbliga a condurre un’esistenza sottomessa, fatta di continua espiazione. L’importante è che il carnefice non smetta mai di sentirsi un carnefice: solo così il sistema della colpa può funzionare; se il carnefice si chiedesse una volta se per caso non abbia espiato abbastanza, il gioco di potere architettato dalla vittima crollerebbe. Attenzione: non stiamo dicendo che vittime e carnefici non esistono, o che quanti agiscono male verso il prossimo non si debbano pentire e ravvedere. Ma pentirsi e ravvedersi è proprio ciò che un determinato tipo di vittime, quelle che vogliono sfruttare la situazione trasformandosi in eterne vittime che esigono "giustizia", non vogliono che accada. Perché il loro gioco di potere possa funzionare all’infinto, è necessario che il carnefice, o meglio l’ex carnefice, non sia mai abbastanza pentito e ravveduto; in altre parole, che continui a sentirsi in colpa per tutta la vita, sino all’ultimo dei suoi giorni. In buona sostanza, è necessario che non abbia mai luogo l’evento della riconciliazione: il male fatto al carnefice deve restare "congelato" per sempre e assumere le dimensioni d’una realtà perenne, mostruosa e opprimente: se l’ex carnefice, dopo essersi pentito e aver espiato, si riconciliasse con se stesso, la vittima professionista non avrebbe più carte da giocare.

Ci sono, ad esempio, delle mogli che vivono rinfacciando al proprio marito le sue colpe, i suoi tradimenti, i suoi difetti, la sua insensibilità, o che si attaccano a un singolo episodio spiacevole per inchiodarvi l’immagine dell’altro e rimproverargli eternamente lo stesso errore, chiudendolo nella trappola d’un senso di colpa inespiabile: il poveretto, a meno che rompa l’incantesimo maligno, finirà per ammalarsi, per deperire, e non di rado per soccombere a un simile bombardamento quotidiano. Noi siamo fatti essenzialmente di energia, e ricevere ogni giorno palate di energia negativa dalla persona con la quale condividiamo l’esistenza, la casa, la cura dei figli, è un trattamento che finirebbe per stroncare anche un orso o un elefante. Dopo di che, la povera vedova si costruirà un’immagine idealizzata del proprio matrimonio, perdonerà finalmente le colpe del caro estinto e si recherà ogni settimana, o perfino ogni giorno, in cimitero, a deporre fiori freschi sulla sua tomba, auto-convincendosi che la loro è stata un’unione felice, che solo la morte ha avuto la forza di separare. Infatti nella maggioranza dei casi si tratta di meccanismi psicologi subconsci: la moglie non voleva (consapevolmente) ammazzare il marito, e in qualche modo si era realmente convinta che lui fosse la causa di tutti i suoi mali e l’aveva fatta soffrire più di qualunque altra donna al mondo: il che rende il suo delitto perfetto, ma "innocente", se innocenza è l’assenza di una chiara consapevolezza del male compiuto. Diverso, ovviamente, è il caso di una "vedova nera", cioè di una donna che odia il marito al punto da volerlo morto, e che costruisce il suo castello di accuse e rimproveri in maniera perfettamente lucida e consapevole al fine d’imprigionarlo nella rete dei sensi di colpa e cuocerlo a fuoco lento, giorno dopo giorno. In questo caso il delitto è un vero delitto; e anche se non si arriva all’esito fatale, resta comunque la realtà d’una vita infernale che il disgraziato marito deve sopportare, stretto alla gola da un meccanismo di ricatto psicologico che non gli dà respiro e soprattutto non consente vie d’uscita. L’elemento essenziale, infatti, perché il ricatto dei sensi di colpa funzioni, è che non si prospetti alcuna possibilità di redenzione: la persona redenta è anche salvata, nel senso che è uscita dall’inferno dei rimorsi e non pensa più alle sue colpe, ma vive la propria vita guardando avanti.

Adesso passiamo a considerare il meccanismo della colpevolizzazione al livello politico. Qui non si tratta di colpe individuali, vere o presunte, ma di colpe collettive; e non di colpe attuali, ma di colpe passate: e proprio perché passate, inestinguibili, nel senso che sono state consegnate alla memoria storica e nessuno le potrà mai cancellare. Tale è il "trattamento" che hanno subito settanta milioni di tedeschi alla fine della Seconda guerra mondiale: le colpe del nazismo ricadono su di loro, su tutti, e specialmente quella colpa, la colpa innominabile, la Colpa per antonomasia, madre e prototipo di tutte le altre colpe. A causa di ciò, le generazioni tedesche nate dopo la fine della guerra sono state sottoposte al più diabolico esperimento di colpevolizzazione collettiva: nessuno, neppure i lattanti, poteva sottrarsi; nessuno poteva dichiararsi innocente, dicendo che a quell’epoca era solo un bambino inconsapevole. Nessuno può chiamarsi fuori: era impossibile non sapere, dunque esisteva quantomeno una complicità indiretta, tacita ma non per questo meno colpevole, nei confronti degli aguzzini che si macchiavano materialmente del peggior delitto contro l’umanità (anche se il crimine degli aguzzini di Stalin, in termini quantitativi, era perfino più grande). La Colpa dei tedeschi non è più una colpa politica, o umana: è una Colpa religiosa, anzi la Colpa per antonomasia: tanto è vero che per tenere la piaga sempre aperta è stata creata, poco a poco, una nuova religione, non della redenzione e della salvezza, ma dell’eterno rancore, dell’eterno tormento e dell’eterno senso di colpa: la Religione dei Sei Milioni. Tutto ciò vi ricorda forse qualcosa? Non vi è una traccia di risentimento talmudico, di odio talmudico contro i miscredenti, in tutto questo? E non solo odio perenne per l’empio, per il maledetto, ridotto alle fattezze di un mostro, di un non-uomo; ma soprattutto nessun perdono, nessuna assoluzione, nessuna redenzione, nessuna possibilità di espiazione. Come si fa a espirare qualcosa che non si è fatto, ma che è stato fatto dai propri padri, dai propri nonni e bisnonni? E, più ancora, come si fa a espiare qualcosa che è stato deciso debba restare eternamente inespiabile, perché se fosse espiata, cesserebbe il meccanismo della colpevolizzazione, e il popolo maledetto potrebbe rialzare la testa e riprendere in mano il proprio destino? No: è necessario non lasciarsi sfuggire il vantaggio: il bruciante senso di colpa del 1945 doveva essere tenuto in vita all’infinito, versando continuamente sale sulle ferite. Ogni anno il giorno della memoria, non per ricordare, ma per accusare; ogni anno una nuova iniezione di senso di colpa per quanti colpe non ne hanno, a meno di rifarsi alle concezioni cui abbiamo accennato, secondo le quali le colpe dei padri ricadono inesorabilmente sui figli, senza mai estinguersi e neppure attenuarsi.

È un meccanismo di potere terribilmente efficace: stritola qualunque costituzione, anche la più robusta; sbriciola qualsiasi tentativo di opporvisi con le armi della logica, del buon senso, della stessa documentazione storica. Il numero di Sei Milioni, ad esempio, è storicamente più che dubbio: ma guai a dirlo, guai ad avanzare il minimo accenno di critica: pare che si voglia mettere in dubbio il fatto in se stesso, e non già procedere con il normalissimo metodo storico, che consiste nella ricerca rigorosa e obiettiva dei dati reali, scartando o mettendo fra parentesi tutto ciò che non è stato sufficientemente dimostrato. Infatti non si tratta più di un fatto storico, ma religioso: è una nuova religione, una religione della colpa, quella che è stata costruita con tanta pazienza e determinazione. Sui fatti storici si può discute liberamente di cifre, di date, di fatti precisi e documentati; su di un fatto religioso, no. La Colpa per i Sei Milioni è una colpa teologica, e dunque prescinde dal numero: paradossalmente, però, è peccato mortale togliere anche una sola unità alla cifra totale. Sei milioni erano e sei milioni devono restare. Se uno storico si permette di sottrarre anche poche unità a quel totale, il suo diviene un crimine, un sacrilegio: ha offeso un dio geloso e irascibile, ha attirato su di sé la maledizione che colpisce l’empio. Toccare o rivedere la cifra dei Sei Milioni è già di per sé un crimine e un sacrilegio: significa attentare al valore simbolico e metafisico della Colpa intesa in senso teologico.

Ecco perché non si possono fare paragoni o istituire raffronti. Ecco perché non si può dire che quello degli armeni nel 1915 fu un genocidio, e avevano ragione i Giovani Turchi parlando di effetti involontari d’un piano di trasferimento dettato da ragioni di sicurezza nazionale e di sopravvivenza della nazione turca. Se ci fossero altri crimini equivalenti a quello rimproverato ai tedeschi, la colpa dei tedeschi verrebbe automaticamente relativizzata: una colpa fra le altre di cui è costellata la storia, e sia pure una colpa particolarmente grave. Ma così non deve essere: perché se così fosse, la colpa sarebbe espiabile, come l’hanno espiata i turchi e tanti altri popoli, mentre i tedeschi devono restare inchiodati per sempre alla loro colpa che non prevede assoluzione. E non solo i tedeschi, ma tutti gli europei, e soprattutto i cristiani: non si sa per quale motivo, ma i cristiani, e i cattolici in modo particolare, anche se non c’entrano nulla, sono stati soggetti alla strategia del senso di colpa per il fatto dei Sei Milioni. Sono stati accusati di aver preparato il terreno, di aver creato le condizioni perché ciò accadesse. Dopotutto, Hitler non era forse austriaco? E gli austriaci non sono cattolici? Dunque i cattolici sono anch’essi colpevoli, moralmente se non materialmente. Il Concilio Vaticano II è stato costruito apposta intorno a quest’accusa non detta, non esplicita, ma ugualmente percepibile, in tutta la sua forza dirompente. Come potete restare insensibili alle responsabilità che la vostra Chiesa ha nella tragedia dei Sei Milioni?, è stato sussurrato all’orecchio dei cattolici. Ed essi, prontamente, si sono genuflessi, hanno messo la kippah sul capo e hanno ripetuto: Mai più! Da lì sono partite la Dignitatis humanae e la Nostra aetate, le due encicliche che hanno scardinato dall’interno, irreparabilmente, l’edificio della dottrina cattolica; da lì ha avuto inizio la deriva modernista e buonista che sta portando il cattolicesimo all’auto-annientamento. Perché quando si comincia ad introiettare sensi di colpa per qualcosa che non si è fatto, qualunque altra vittima professionale può perseguire lo stesso obiettivo. Così è stato per gli omosessuali: rimproverando ai cattolici la severità della Chiesa di un tempo, le discriminazioni e le persecuzioni di un tempo, si è ottenuto che il clero cominciasse a domandare scusa, a indossare la sciarpe arcobaleno, a dichiararsi favorevole alle benedizioni e perfino ai matrimonio fra persone dello stesso sesso. Tutto questo è in contrasto radicale con la dottrina e la morale cattolica di sempre, ma pazienza: l’importante è tacitare i sensi di colpa.

E oggi, al tempo della Grande Menzogna, lo schema è sempre lo stesso: Se non ti fai inoculare il siero, muori o fai morire, ha detto, mentendo spudoratamente, il presidente del Consiglio; e nessuno l’ha smentito o contraddetto, anche se la menzogna era così palese da far gridare i muri e i sassi delle strade. Chi non si fa inoculare è colpevole: mette in pericolo tutti gli altri, causa il persistere del pericolo. Se la società non torna alla normalità, se i commercianti e gl’imprenditori non possono tornare a lavorare, se gli operai continuano ad essere licenziati qualora non si siano fatti inoculare, ciò è dovuto al fatto che una minoranza malvagia, fatta di pazzi ed incoscienti, rifiuta di fare ciò che necessario al bene pubblico. E allora è giusto è prendere provvedimenti contro questa minoranza, è giusto diffamarla, insultarla, minacciarla, additarla al pubblico disprezzo; è giusto odiarla. Sì, l’odio è giustificato contro costoro perché non sono più uomini, ma mostri: mostri che se ne fregano di costituire un pericolo mortale per tutti gli altri membri della comunità. E bene fa il clero a schierarsi con il governo, prescrivere ai fedeli di farsi inoculare ed escludere dalla santa Messa i reprobi, a licenziare i dipendenti del Vaticano. Non si scherza con il vero Dio: il Dio della Colpa inespiabile…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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