Cattolici emarginati dal Concilio: i Cenacoli Serafici
13 Marzo 2022L’arma più micidiale è il senso di colpa
14 Marzo 2022Come è noto, l’erezione della statua a Giordano Bruno in Roma, a Campo de’ Fiori, ove egli era stato arso vivo, suscitò una tempesta di polemiche che investì anche il Comune capitolino. La solenne cerimonia d’inaugurazione, che ebbe luogo il 9 giugno 1889, era stata fortemente voluta dai massoni, con intenzione scopertamente anticattolica. Basti ricordare che pochi anni prima, nel 1878, questi ultimi avevano assalito con sassi e bastoni il corteo funebre che trasportava la bara di Pio IX – il papa che il massone Garibaldi aveva definito un metro cubo d’immondizia – e avevano tentato di gettarla nel Tevere.
Alcuni intellettuali cattolici, pochi in realtà, risposero ai discorsi ferocemente anticlericali che la cerimonia aveva acceso; fra questi spicca l’articolo di un anonimo prelato romano che apparve su L’Osservatore Romano e che la Società San Paolo ripubblicò più volte nell’arco di pochi mesi. Lo stile è infuocato, come infuocata era la polemica, e, per molti versi, le argomentazioni sono esagerate e parziali; nondimeno, a noi pare che l’impostazione di fondo sia condivisibile, anche se da allora il culto anticattolico di Giordano Bruno non ha fatto ch crescere e insensibilmente è divenuto un dogma, una verità indiscutibile: chi osa mettere in dubbio l’eccellenza intellettuale del Nolano, la sua profondità e originalità speculativa, immediatamente incorre nei fulmini e nel disprezzo dell’intero apparato culturale. Proprio per questo, però, ci sembra che quello scritto oggi pressoché dimenticato, sfrondato di alcune esagerazioni polemiche, peraltro più di forma che di sostanza, meriti di essere riletto e meditato: è un valido antidoto alla pigrizia mentale di chi, nel giudicare il valore degli uomini che sono passati alla storia, nel bene o nel male, si affida al giudizio della cultura dominante, la quale, solitamente, altro non è che la cultura creata, o filtrata, o tollerata, dalla massoneria.
Scriveva, dunque, il dotto prelato, dalle colonne dell’Osservatore Romano (ripubblicato come opuscolo dalla Società San Paolo, Roma, 1889, pp. 12; 14-17):
E di Aristotele scriveva leggiadramente che «l’anima di lui passò in un asino»; che egli «fu lusco fra i ciechi, pedante, temerario, presuntuoso, sciocco, sconcio, minore di fanciulli e d’insensate vecchie, privo d’ogni notizia di filosofia, dominato dalle tenebre, delirante più del delirio, uomo d’insegnamenti perversi»; che «nulla intese direttamente ed estinse la coscienza nel bassissimo», e che «fu senza intelletto, non seppe cosa si volesse dire, e insieme con Platone ebbe schernevoli dottrine, parole vuote di significato, baie, fantasie, favolette»; e «si mostrò ignorantisismo e pieno di confusione; talché in lui cercare scienza è cercare le corna del gatto e le gambe dell’anguilla. (…)
…Guastò la dottrina astronomica di Copernico con gravissimo errore «sull’infinitudine dell’universo»: errore che appunto fu confutato da Keplero nel suo Compendio dell’astronomia copernicana. Guastò le scienze esatte asserendo che l’astratto punto matematico è un corpo concreto. Guastò la medicina, e per le malattie ammise stoltamente l’efficacia dei numeri cabalistici, de’ segni negromantici, delle ossa dei morti, degl’incantesimi, della magia e di altre medicine da ciarlatani. E quali sono le glorie sue di filosofo? Egli, copiando servilmente da altri, quanti ne furono da Pitagora e Plotino a’ suoi contemporanei, e aggiungendo qualche nuova stranezza, per filosofia speculativa, più o meno velatamente, propone tutte le dottrine di un assurdo panteismo obbiettivo e della "infinità" de’ corpi e dell’universo. Insegna che «la terra, gli atri, i pianeti e tutte le altre cose naturali hanno anima propria, sono animali, ed hanno un’anima non solo sensitiva ma anche intellettiva come la nostra e forse più». Non solo asserisce che «il corpo dell’uomo non si differenzia punto da quello delle cose stimate senza anima e che nondimeno hanno anima», ma ancora proclama che «la materia è spirituale e l’anima dell’uomo, in sostanza specifica e generica, non differisce da quella del’asino, delle mosche, delle ostriche marine, dell’aragna, de’ serpenti». Pretende che «molti animali» possono avere «più ingegno e molto maggior lume d’intelletto che l’uomo»; e pensa che tutto derivi dalla varia costituzione delle membra. Ammette la metempsicosi o il passaggio dell’anima nel corpo delle «bestie cavalline, porcine, aquiline, asinine, bovine, secondo i concetti dei Pitagorici, de’ Druidi e dei Saduchini». E tutto ciò egli pronunzia cin mere asserzioni e senza arrecar mai la minima prova; talché ognuno gi debba credere sulla parola e ripetere riverente l’«Ipse dixit». (…)
È facile, dopo ciò, dedurre quale debba essere la filosofia morale del Bruno. (…) Egli tiene per principio che non vi sono «colpe interiori ed oggettive»; che il male e il bene è solo «relativo e solo si deduce dagli effetti esterni»; che Dio si compiace «come del bene così del male e non vuole essere onorato per sé stesso». Egli professa il «libero amore e i diritti del senso sullo spirito da seguirsi in tutto». Egli aggiunge che «l’intelletto e la ragione non devono dar legge al senso»; che bisogna «godere della vita presente senza preoccuparsi della futura ed incerta»; che «l’onore non può essere oggettivo», e che «delle proprie azioni non si deve render conto a Dio». Ammette lietamente la poligamia; e allato alle grandi virtù civili e morali pone il tirannicidio, la magia, la divinazione, gl’incantesimi! (…)
E la scienza teologica del Bruno? Eccola in compendio. Onorò l’arianesimo e molteplici altre eresie ed empie e pericolose dottrine. Contro il cattolicismo versò tutto il veleno di Lutero, e lo disse «culto superstizioso e brutale ignoranza». Sembrò negare la divinità di Cristo, dichiararne assurda l’unione ipostatica, tenerne inutili a favolose la passione e la redenzione. Intollerante e sarcastico, esponendo dogmaticamente ciò che è più contestato, e affermando velatamene sogni, pazzie e fantastiche stranezze d’ogni fatta, usò qualsiasi celia contro la religione; mancò di gravità nei problemi più seri; negò il soprannaturale. Il cristianesimo e la fede disse cosa «iniqua, perversa, nemica della felicità sulla terra»; rinnegò la vita futura, il concetto di virtù e di vizio, il fine dell’uomo, il timore di Dio, la creazione, l’inferno; derise il paradiso e gli altri «dogmi di cocollati e sacerdoti», come parla il Fiorentino. Le cristiane credenze chiamò «pazzie, favole anili e bestiali e superstizioni da imbecilli»; la croce «tragedia cabalistica»; il regno de’ cieli «proprio degli asini»; le Sante Scritture «un sogno»; l’asino «simbolo dei santi»; la religione «degna di rovina e distruzione»; Cristo «ingannatore e meritevole non solo di essere crocifisso, ma ancora di essere impiccato», come non pure riferiscono lo Schopp e il Mocenigo, discepolo scandalizzato del Bruno, ma ancora riconosce il suo ammiratore Bartholomès. Inoltre le virtù cristiane addomandò «cosa da asini, da scempi e da puledri»; il Vangelo e la sapienza cristiana «vilissima bassezza ed asinitade». De’ anti dottori, credenti al Vangelo, disse che «sono chiusi d’occhi, rinnegano pensiero e sentimento, si trasformano in asini; hanno capestro e freno alla gola e alla bocca, e sono somari dalle grosse labbra e mascelle, grossi e materialiacci più di qualsivoglia altra bestia, pieni di sovrumana asinità e pazzia».
Dicevamo che il tono, lo stile e sovente anche il modo di argomentare risentono fortemente del clima incandescente della polemica del 1889; ma che nella sostanza ci troviamo d’accordo con l’autore. La figura di Giordano Bruno è stata enormemente gonfiata fino ad assumere le proporzioni di un gigante, e solo perché la massoneria aveva bisogno d’un eroe senza macchia e senza paura da contrapporre all’oscurantismo cattolico. Perciò di un personaggio ambiguo, spregiudicato, amorale, divorato da una smodata ambizione che lo portava a non andare per il sottile neppure sul piano strettamente culturale (celebre è la figuraccia che rimediò a Oxford quando venne colto in flagranza di plagio) e ad insultare il mondo intero, dando dell’asino a chiunque non gli piacesse o potesse dargli ombra, a cominciare da Aristotele; di un personaggio per molti aspetti piccolo e meschino, che non elaborò una sola idea originale, ma saccheggiò a man bassa da svariati autori d’ogni tempo, spacciando il bottino per farina del suo sacco, e che non imparò mai l’arte di argomentare secondo logica, ma procedette sempre affermano le sue "verità" in modo apodittico, aggressivo e intollerante e riservando la sua pesantissima ironia o i suoi volgari insulti a tutti quelli che non s’inchinavano davanti alla sua scienza, è stato fatto un modello inarrivabile di pensiero e di sapere; un precursore di civiltà in tempi di superstizione; un assertore di valori autentici in un mondo decadente ed ipocrita, impersonato soprattutto dalla Chiesa cattolica. Come lo scientismo aveva bisogno di un eroe e di un martire per contrapporlo al cattolicesimo, e fece di Galilei il suo eroe e il suo martire, forzando la verità storica e piegandola alla propria ideologia, così la massoneria aveva bisogno di un eroe e di un martire per colpevolizzare in saecula saeculorum la Chiesa di Roma e dimostrare, secondo il primo comandamento della modernità, che ogni persona onesta e intelligente deve scegliere fra la ragione e la fede, tertium non datur.
Potrebbe essere utile confrontare le affermazioni dell’anonimo prelato romano con quanto scriveva, in anni assai più recenti, ma sempre in clima preconciliare (perché, vuoi o non vuoi, il discrimine è ancora e sempre quello: il Vaticano II), un esponente della cultura cattolica novecentesca, un altro sacerdote, don Pasquale Margreth, del quale abbiamo già parlato in alcuni precedenti articoli (cfr. in particolare: Una pagina al giorno: Libertà e responsabilità dell’uomo, di P. Margreth, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 31/08/09 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 16/02/18). Pasquale Margreth, Preside dell’Istituto Magistrale Arcivescovile di Udine, è stato un importante animatore della vita sociale e culturale cattolica di quella città, fra gli anni della prima guerra mondiale (fu sfollato a Firenze dopo la rotta di Caporetto, nel 1917, ma, anche da lì, continuò ad occuparsi dell’associazionismo cattolico friulano) e quelli successivi alla seconda, con le distruzioni del 1943-45 e la lenta, faticosa ricostruzione materiale e spirituale: un arco di tempo considerevole, tanto più che quei tre o quattro decenni hanno assistito a delle trasformazioni economiche, sociali e culturali, pari a quelle di due o tre secoli, se rapportate al metro degli anni precedenti i due cataclismi che hanno sconvolto il Novecento.Scrivevam, dunque, don Margreth, in uno dei suoi tre manuali di religione per le scuole medie, Veritas et Vita (Udine, Del Bianco Editore, 1951, 1958, vol. V, pp.216-219):
Il nome di Giordano Bruno offrì spesso, dal sec. XVIII in poi, motivo di propaganda antireligiosa e anticlericale; egli infatti passò come il martire del libero pensiero, perseguitato dalla Chiesa Cattolica per l’indipendenza dai dogmi. (…)
Che Giordano Bruno professasse dottrine veramente eretiche lo si desume facilmente dalle testimonianze raccolte nel processo suddetto.
Già la sua filosofia, immanentistica e panteistica, era inconciliabile con la dottrina cattolica che ammette un Dio trascendente e distinto dal creato.
Ma a questi suoi errori filosofici altri si aggiunsero nel campo teologico e religioso: un’interpretazione simile all’ariana circa la Trinità, la negazione della Divinità di Cristo, di cui affermava che fosse un peccatore; per il Bruno la cita ultra-terrena dell’anima si confonde con la metempsicosi; egli deride inoltre i misteri più augusti del Cristianesimo, la verginità di Maria Santissima e il culto dei Santi; e si potrebbe continuare. (…)
La figura di Giordano Bruno, così esaltata dai liberi pensatori, è una delle più abbiette che la storia ricordi e fa meraviglia che essi non abbiano saputo e potuto scegliere per loro campione qualche cosa di meno ripugnante.
Nessuno gli nega ingegno vivace e vastità di erudizione, ma la sua filosofia è un guazzabuglio di sistemi diversi e confusi insieme; la sua figura morale è quanto di più misero si possa immaginare.
È opera sua "Il Candelaio", una SOZZA COMMEDIA di cui un biografo del Bruno stesso scrisse: «È un museo criminale, raccolto dai rifiuti della società. È la sfera della più bassa sessualità» (Olschki).
Fu di un ORGOGLIO SCONFINATO.
Il cardinale Angelo Mercati nel pubblicare il sommario del processo dell’Inquisizione sul Bruno, così conclude: «L’orgoglio ebbe il sopravvento e lo condusse a quella terribile fine che in teologia si definisce dell’impenitenza finale, conseguenza dell’accecamento di mente e indurimento della volontà di chi a lungo si è avvoltolato nel peccato» (Gaetani, "La Chiesa", Libreria della Pontificia Università Superiore, Roma, 1947, p. 223).
Fu BRUTALMENTE AGGRESSIVO. Chiamava coloro che dissentivamo da lui «bifolchi, stolti, matti, talèe, bestie, asini, porci, barbagianni; avrebbe voluto distruggere col fuoco i suoi contraddittori e si adirava di non poter essere carnefice per mandarli al supplizio» (cit., pp. 104-105).
FU IMPULSIVO ED INCOSTANTE. Prima frate, poi ribelle, fugge dal chiostro, poi vi ritorna; passa al calvinismo e poi è sconfessato dai calvinisti, aderisce al luteranesimo ed è sconfessato dai luterani: professa eresie, deride i dogmi, disprezza la virtù e poi si dichiara pentito e, in ginocchio, chiede perdono dei suoi misfatti; poi di nuovo professa gli stessi errori e si rifiuta di ripudiarli e muore sul rogo da sdegnoso ribelle.
Ma la Chiesa — ci si domanda — non è stata crudele col condannarla al rogo?
Proprio dal sommario di questo processo tratto dall’Archivio del Vaticano per opera del Card. Mercati, è risultato quanto la procedura dell’Inquisizione fosse scrupolosa e mite e fosse regolato il regime carcerario in modo da non abbreviare e tanto meno stroncare l’esistenza dei detenuti. Che se la Chiesa, condannata l’eresia e consegnato il colpevole al braccio secolare, non impediva la sua esecuzione capitale, dobbiamo sempre tener presenti le condizioni sociali di quei tempi e la mentalità della giustizia di allora, che non può essere paragonata a quella dei nostri giorni.
Scrive a questo proposito Igino Giordani ("Scontri ed incontri"; vedi Gaetani, "La Chiesa", cit., p. 229): «Nello stato cristiano un eretico attivo è quel che un sovversivo operante è nello stato laico: uno che opera ai danni della comunità.
Cristiana essendo la struttura ideale, giuridica, politica, non era consentito minarne le basi, offenderne le ragioni etiche».
Fa uno strano effetto, ma tutt’altro che spiacevole, sentire come si esprimevano i bravi sacerdoti di allora, cioè di prima del Concilio, dicendo pane al pane e vino al vino, e chiamando peccato il peccato, e false religioni le false religioni; anche e soprattutto quando si rivolgevano ai giovani, come in questo caso, attraverso un testo ad uso scolastico. Fronte alta e schiena dritta, non avevano sensi di colpa, né complessi d’inferiorità verso chicchessia: non cercavano di farsi perdonare il fatto di essere cattolici, cioè figli di quella cosa sorpassata e nemica del progresso e del libero pensiero, che è la Chiesa cattolica. A testa alta affrontavano i malumori del mondo, e con la schiena dritta ribattevano colpo su colpo le accuse dei nemici, senza lasciarsi intimorire né confondere, e soprattutto senza cadere nella trappola delle vittime che pretendono "giustizia", ma che del vittimismo hanno fatto una proficua professione. Sì, è vero: l’Inquisizione ha processato e condannato; e allora? I tempi erano quelli: e l’Inquisizione, semmai, era più cauta e più clemente del braccio secolare. Giordano Bruno? Un eretico impenitente, un superbo, un cattivo maestro, che diffondeva ovunque i suoi errori con la strana pretesa d’essere osannato e riverito. Sì, la Chiesa reprimeva le eresie: perché il cristianesimo era la malta, il cemento che teneva uniti i mattoni della società, e chi attaccava quello, attaccava le basi della società stesa: logico che la società volesse difendersi. Nel Medioevo c’era la viva coscienza che una società non può corteggiare e blandire i suoi nemici mortali, pena l’autodistruzione; non c’era l’idea odierna, che la società deve nutrire e circondare di diritti quelli che la vogliono demolire pezzo su pezzo. Giordano Bruno apparteneva alla schiera dei nemici della stabilità sociale, della morale, della religione: era un nemico pubblico. Perseguendo quelli come lui, la Chiesa difendeva non solo se stessa, ma la società intera: allora c’era qualcuno che si assumeva le responsabilità, non c’era l’abitudine di scaricarle perennemente, come si fa oggi, nascondendosi dietro cento astruserie giuridiche. Pane al pane e vino al vino: un nemico è un nemico. E ciò vale anche per i nemici esterni: è così che la Chiesa ha difeso se stessa e l’Europa, a Lepanto nel 1571 e sotto le mura di Vienna due volte, nel 1529 e nel 1683. Perché quando il nemico assale, si deve saper rispondere con la spada. A molti cattolici questo discorso non piace, vorrebbero bandire ogni violenza; ma si scordano che il mondo, dopo il Peccato originale, non è più il Paradiso terrestre, ma una foresta di belve, dove regnano la forza e l’ingiustizia. Il cristiano aspira ad un mondo migliore, ma sa che esso non appartiene a questa dimensione. Frattanto, in attesa di quel giorno sa che bisogna impugnare la spada se un pericolo mortale incombe su tutto quanto di bello e buono i nostri padri hanno costruito. E chi non lo vede è un vile o un folle.
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