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10 Marzo 2022Pietro Mignosi, un gigante sconosciuto del pensiero
11 Marzo 2022La filosofia che rende ragione del reale è il realismo, e tutta la concezione cristiana della vita presuppone una lettura realistica della realtà. Fin qui è tutto chiaro, o almeno dovrebbe esserlo. Bisogna però precisare, a scanso di equivoci, che il realismo aristotelico e tomista, e dunque il realismo cristiano, non equivale ad una passiva registrazione della realtà: per cui, quando si dice che, per esso, la realtà è quella che è (principio di identità: una mela è una mela) e non è altro da sé (principio di non contraddizione: una mela non è un’arancia) non s’intende dire che la realtà come appare, cioè il fenomeno, coincide senz’altro con la verità profonda della cosa. Ciascun ente presenta un lato esteriore e visibile e un lato interiore nascosto, e così in particolare l’uomo, creatura anfibia, fatta di corpo e spirito, il cui mistero è talmente abissale che prevede sia la possibilità ch’egli s’innalzi fino quasi al livello degli Angeli, sia che si sprofondi fino quasi al livello dei demoni. Pertanto, siamo ben consapevoli, quando diciamo che la visione cristiana della vita è prettamente realistica, che il suo "realismo" è qualcosa di più ampio e complesso della pura e semplice percezione e riproduzione della realtà visibile: per il cristiano, il reale è fatto sia di ciò che si vede, e che appartiene all’ordine naturale, sia di ciò che è invisibile all’occhio, e tuttavia è la parte essenziale, quella di ordine soprannaturale. Se si perde di vista questo fatto; se sci si scorda, anche solo per un attimo, la doppia cittadinanza dell’uomo e, in generale, il duplice ordine di cose che permea di sé l’intero universo, si cade nel materialismo e nel pragmatismo calcolante, opportunistico, banale. L’uomo è qualcosa di più del suo corpo e delle sue funzioni biologiche, e la stessa materia, parlando in generale, è qualcosa di più delle sue proprietà fisiche e chimiche e delle sue reazioni fisiologiche.
In altre parole, vi è un mistero al fondo del reale, e per rendere conto di tale mistero non bastano gli strumenti delle scienze fisiche: è necessaria la metafisica. Bisogna sempre tener presente che ogni singolo ente, anche il più umile, come un filo d’erba, rimanda alla trascendenza; e che pertanto conoscere veramente la realtà non equivale a fotografarla e a catalogarla, ma a coglierne anche l’aspetto invisibile, l’aspetto essenziale, che coincide con la peculiarità del suo statuto ontologico. Nel caso dell’uomo, tale peculiarità è fatta di ragione e volontà, ma con il necessario presupposto della libertà: infatti sia la ragione che la volontà sarebbero inutili se non vi fosse la libertà, in quanto solo la libertà, ossia la possibilità di scegliere, e di scegliere consapevolmente e responsabilmente (ché altrimenti non di scelta autentica si tratterebbe, ma di giocare alla roulette, puntando a casaccio su questa o quella opzione) danno un senso, un fine e uno scopo all’una e all’altra. Si provi ad immaginare l’uomo privato della libertà, come immaginano certe scuole filosofiche e anche certi indirizzi teologici, primo fra tutti il protestantesimo, e si avrà lo spettacolo di un essere preso in trappola, in quanto dotato di due strumenti formidabili, che lo distinguono e lo innalzano rispetto a tutte le altre creature viventi, condannati però a girare inutilmente su se stessi, senza produrre altro che una crescente consapevolezza della loro sterilità e impotenza e quindi un’angoscia insopportabile, sfociante inevitabilmente nella disperazione.
Tale, infatti, è la condizione dell’uomo secondo la maggior parte delle filosofie moderne, non a caso private della dimensione metafisica; e tale è la condizione umana che si riflette nella maggior parte delle opere letterarie, poetiche, teatrali e cinematografiche. Se l’uomo disponesse della ragione e della volontà, ma non della libertà, la sua condizione sarebbe quella di una drammatica, atroce beffa esistenziale: la ragione gli servirebbe solo a misurare il vicolo cieco nel quale egli si troverebbe chiuso, e la volontà non servirebbe assolutamente a nulla, sarebbe del tutto superflua e perfino distruttiva, dato che essa è lo strumento per la realizzazione dei fini, ma una vita senza scopo è anche una vita senza alcun fine, e in tal caso la volontà, riducendosi a girare a vuoto, finirebbe per rivolgersi contro l’uomo stesso.
Un filosofo italiano del ‘900, oggi poco ricordato e quindi pochissimo conosciuto, specie dai giovani, il quale ha dedicato ampie riflessioni sul tema del rapporto fra realtà e verità, nel contesto di una visione metafisica d’ispirazione cristiana, è stato il siciliano Pietro Mignosi (Palermo, 28 giugno 1895-Milano, 15 luglio 19337), professore a Palermo e infine incaricato alla Cattolica di Milano e prima fondatore, nel 1928, della rivista La Tradizione. Ricordiamo di lui, nell’ambito speculativo, L’unità filosofica (1920), Etica del cristianesimo (1924), Introduzione alla dialettica (1925), Critica dell’identità (1926), Conoscenza e trascendenza (1927), Ragione e Rivelazione (1930) e Arte e Rivelazione (1933); mentre in ambito letterario — poiché egli fu anche un critico letterario di notevole finezza – L’eredità dell’Ottocento (1925), La poesia italiana di questo secolo (1929), Linee di una storia della nuova poesia italiana (1933) e Il segreto di Pirandello (1937), ai quali si devono aggiungere un paio di romanzi, Perfetta letizia (1931) e Gioia d’agave (1934) e il racconto lungo L’Azzolora (1931), i quali attestano in lui anche uno spiccato talento narrativo, a completamento d’una personalità veramente poliedrica.
La posizione metafisica di Mignosi, che si focalizza nella dialettica e nella convergenza sostanziale di arte e filosofia, è stata sintetizzata da Salvatore Di Marco, classe 1932, poeta e storico della letteratura di Sicilia, una specie di memoria vivente della cultura della sua isola, nel saggio Il cristianesimo "difficile" di Pietro Mignosi, di cui riportiamo il passaggio centrale (in: Oltre il muro. Rivista quadrimestrale di letteratura e teologia, anno VI, n. 1, gennaio 2008, interamente dedicato alla rievocazione della figura del filosofo, pp. 6-7):
«Disgiungere l’arte dalla filosofia — oltre ad essere fatica vana – è opera di distruzione: LA FILOSOFIA È LA VITA DELL’INDAGINE SULLA VITA, L’ARTE È L’ESPRESSIONE DELLA VITA STESSA (…). La vita è spirito e materia, così come l’arte è contenuto e forma. L’errore di tutte le costruzioni estetiche deriva da un errore puramente filosofico, specie nella questione che deve passare tra contenuto e forma e che da una serie di deduzioni puramente logiche ed organiche, ci porrà di fronte alle due formule: L’ARTE FINE A SE STESSA, L’ARTE CON FINALITÀ ETICA.» [da: P. Migliosi, "Monismo estetico", n. 1 della rivista "Nuovo Romanticismo", luglio 1914].
In questa prima fase, al centro del ragionare di Pietro Mignosi troviamo situato degnamente l’uomo inteso come "base della vita morale" che, diversamente da Kant, vede nella vita la sintesi di "carne e spirito", quella sintesi che egli poneva al fondamento della concezione dell’estetica affermata dal movimento palermitano dei "nuovi romantici". Perciò, contestando a Kant la distinzione tra l’io empirico e l’io assoluto, Mignosi recuperava integralmente quella medesima idea della persona umana elaborata nella "Summa Teologica" di san Tommaso, e così – pertanto – scriveva:
«Alla perfettissima concezione tomistica dell’io in hominibus ex unione animae ad corpus constituntur persona, si opponeva una concezione irreale, e che prescindeva da ogni attività fenomenica e pratica della vita: e ad una rigida unità di concezione veniva sovrapposto un dualismo con basi aprioristicamente gratuite. Ammalata la filosofia, si ammalò l’estetica. La vita è spirito e materia: un dualismo nominale e un monismo sostanziale».
Partendo da tale posizione teoretica, il giovane Mignosi penava dunque ad un’arte capace di tornare ad un «lavoro di introspezione» poiché — sulla base della lezione tomistica – «noi non possiamo abbandonare la carne per lo spirito, né lo spirito per la carne». Ed è molto interessante, onde poter capire il futuro Mignosi, riprendere qui un passaggio come questo:
«Ritorniamo all’uomo! Ma l’uomo non è espressione solamente fenomenica: egli vive ed ha in sé tutti i germi della trascendenza. Non sola carne, non solo spirito, ma armonica fusione di carne e di spirito: ecco la vita». (…)
E l’arte non poteva che essere lo specchio della vita, essa stessa vita, su questi temi, e lungo tale linea di pensiero, Mignosi ritornò in un altro scritto su "Nuovo Romanticismo" del settembre di quel’anno: si tratta di "Guazzabuglio" scritto in gran parte sul calco dei modelli aforistici,spesso epigrammatici e talvolta sinteticamente paragrafici: un modello di scrittura che utilizzerà in talune sue opere di pensiero quali, ad esempio, "Arte e Rivelazione" del 1933. Egli scrive:
«Il primigenio concetto di tutte le cose è il concetto di Vita; da esso derivano tutti i concetti accessori che sono la sua espressione. PER ARRIVARE ALLA CONOSCENZA DEL CONCETTO DI VITA, NON ABBIAMO CHE UNA STRADA: LA METAFISICA, perocché la vita è concetto assoluto per eccellenza.»
E poiché, come già aveva detto, l’arte è espressione diretta della vita, il passaggio che affronta il Mignosi è non solo impegnativo suo piano teoretico, ma anticipa quegli sviluppi dl suo pensiero (penso a opere come "Introduzione alla dialettica" del 1925), alla contemporanea "Etica del cristianesimo", a "Conoscenza e trascendenza" del 1928, per non parlare di "Ragione e Rivelazione" del 1930). Rileggiamo i punti essenziali di "Guazzabuglio", a partire dalla affermazione preliminare che :
«per esprimere la vita bisogna arrivare alla sua conoscenza per metafisica ambulazione: ecco perché l’are presuppone la trascendenza». Non abbiamo ancor ai fondamenti per un teoria cattolica dell’estetica, anche perché un obiettivo così ambizioso sarebbe stato sproporzionato rispetto alle possibilità concrete di fronteggiarlo da parte di un giovane studioso che ancora non aveva raggiunto i suoi vent’anni. Ne abbiamo però certi presupposti, e quelli ci portano a confrontarci con alcuni concetti essenziali quali la nozione tomistica di persona, e ora l’idea di trascendenza. In quella fase di pensiero di Mignosi andava tuttavia attestandosi una serie di punti fermi che egli chiamava verità preliminari, e che sintetizzava (forse troppo) così:
«LA VERITÀ NON È UGUALE ALLA REALTÀ. LA VERITÀ È INDIPENDENTE DALLA REALTÀ. LA REALTÀ ESISTE. LA VERITÀ È. LA FILOSOFIA HA L’ASSOLUTO DOMINIO DELLA VERITÀ. LA SCIENZA EMPIRICA È IL RELATIVO DOMINIO DELLA REALTÀ».
Ricapitolando. Mettendo fra parentesi, in questa sede, perché non ci interessa, la teoria estetica di Pietro Mignosi, cogliamo lo spunto, di sapore squisitamente tomista, a proposito della dialettica di carne e spirito, o, se si preferisce, di materia e spirito, che poi rinvia alla concezione pirandelliana -e da ciò, senza dubbio, il particolare interesse di Mignosi per il grande drammaturgo, nel quale vedeva uno spirito essenzialmente religioso – della dialettica inconciliabile tra forma e vita: il personaggio ha la forma, ma non ha la vita; la persona, viceversa, ha la vita, ma non possiede una forma, perché la vita non si lascia imbrigliare e imprigionare in una forma definita (inutile dire che il termine forma, in Pirandello, ha un significato ben diverso da quello che ha in san Tommaso, sia in sé stesso, sia nel rapporto con la materia; lo si potrebbe accostare, per taluni aspetti, al concetto di rappresentazione nella filosofia di Schopenhauer). Pietro Mignosi vuole appunto superare tale inconciliabilità e mostrare, secondo la lezione di Tommaso, che la persona è uno spirito incarnato. Da ciò il suo rifiuto tanto di uno spiritualismo astratto e irrazionale, quanto di un realismo che smarrisce la dimensione metafisica e si riduce a identificare il reale con l’essere. Invece, e questa è la sua intuizione più feconda, il reale non coincide con l’essere, così come la realtà con coincide con la verità. C’è una verità esteriore ed apparente delle cose, e c’è una verità profonda, che sfugge allo sguardo e appare solo al pensiero e alla luce della Rivelazione. L’artista è colui che sa cogliere la rivelazione (con la lettera minuscola, ma implicitamente anche con la maiuscola) perché sa vedere la totalità delle cose, la parte visibile e la parte nascosta, e quindi sa esprimere la complessità e la ricchezza infinita della vita, andando direttamente al cuore delle cose, alla loro intima verità. Ed ecco perché è fatica vana voler distinguere e separare nettamente ciò che è arte e ciò che è filosofia: poiché l’opera d’arte, come il pensiero speculativo, "salta" le apparenze esteriori ed ingannevoli e giunge ad afferrare il volto segreto delle cose, cogliendo i nessi che le legano l’una all’altra, e tutte quante alla Sorgente donde hanno tratto l’esistenza. È importante, dunque, ricordare che la verità non coincide con la realtà, perché la verità delle cose è più ampia, più articolata, più ricca della realtà, laddove per realtà s’intende generalmente la realtà fenomenica. Se invece per "realtà" s’intende la totalità dell’essere di una cosa, allora il discorso cambia: perché l’essere totale di ciascuna cosa è tutt’uno con la sua essenza, e dunque con la sua verità. La verità infatti è la conformità della cosa a se stessa (principio d’identità), ciò che la fa essere diversa da tutte le altre (principio di non contraddizione); in termini di giudizio, è la conformità del giudizio alla cosa. E mentre le scienze colgono solo la verità fenomenica, l’arte e il pensiero vanno all’anima delle cose…
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