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Una meditazione sul Peccato originale

Un aforisma del filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994) recita che al mondo ci sono due categorie di uomini, quelli che credono al Peccato originale e gli sciocchi. I cattolici sanno, o dovrebbero sapere, che il concetto del Peccato originale è centrale nella dottrina che essi riconoscono come vera, e quindi nella loro concezione complessiva del reale e della vita umana. Tuttavia, siamo convinti che moltissimi di loro non hanno mai approfondito questo tema; che lo danno semplicemente per scontato o, peggio, lo considerano una specie di leggenda, di mito; insomma non hanno la più pallida idea di quanto esso sia fondamentale per la loro fede, né perché lo sia.

Prima di entrare nel merito della risposta a questa domanda, è bene ricapitolare i termini della questione, rileggendo il brano biblico relativo al Peccato originale, nel terzo capitolo del libro della Genesi, e appoggiandoci al relativo commento, fatto da uno studioso serio.

1 Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». 2 Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3 ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». 4 Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5 Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». 6 Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. 7 Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

8 Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. 9 Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10 Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».

11 Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?».

12 Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». 13 Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».

14 Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. 15 Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».

16 Alla donna disse:«Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà».

17 All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. 18 Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. 19 Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».

Per il commento, ci affidiamo alle note del biblista Emanuele Testa (1923-2011), che fu docente presso lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme per oltre 35 anni, e vice-rettore della Facoltà di Teologia della Pontifica Università Urbaniana di Roma per un triennio (da: Genesi, a cura di F. Testa, Edizioni Paoline 1972, pp. 83-86):

MA IL SERPENTE ERA LA PIÙ ASTUTA DELLE FIERE DI TUTTA LA STEPPA (Gen 3,1). La presenza dell’articolo (hannāhāš) denota un serpente speciale, ben noto allo scrittore e ai lettori, i quali dovettero pensare per lo meno alle varie attribuzioni date all’animale nell’ambiente semitico. L’animale in questione era considerato un dio.-serpente, un serpente sacro, un simbolo delle varie divinità della vegetazione, una guardia dei santuari e dei confini, un simbolo della vita, custode dell’erba vitale, un mezzo efficace per divinare eventi futuri e per praticare magia nera e diabolica. In Ugarit il serpente è un Benē Elohim, uno della corte del dio El. Non potendo l’autore condividere le credenze idolatriche su questo animale (lo dice infatti creato da Dio, lo dovette riguardare come simbolo legato con la vita e con la magia, tanto più che, in ebraico, come nel’ambiente circostante, per esprimere la magia si usava la stessa radice usata per il serpente; esso però era connesso con azioni contrarie alla volontà divina e poté servire molto bene all’autore per mascherare un essere ostile a Dio, invidioso della immortalità promessa ad Adamo e presuntuoso donatore della conoscenza del bene e del male. Non è necessario dunque pensare alla presenza di un serpente reale(inferiore all’uomo che gli ha dato il nome, e creatura di Dio), né di apparenze serpentine ("diabolo sub serpentis specie suasore"), bastando un semplice simbolo letterario, preso dal Redattore nell’ambiente semitico, specialmente cananeo, per indicare la tentazione per eccellenza degli Ebrei suoi contemporanei, che erano pronti a vede nel serpente un amuleto potente per avere la vita e per acquistarsi la saggezza delle pratiche magiche. Sappiamo che il popolino offriva un vero culto perfino al serpente di bronzo di Mosè custodito nel Tempio.

(…) Con una serie di frasi ambigue e bugiarde si svolge il dialogo fra la donna e il serpente e si prepara la colpa di Eva. VOI NON MORIRETE AFFATTO. Il tentatore, ricollegandosi al comando divino che comminava la morte come punizione "certa", negò alla sentenza la sua "immediata" realizzazione, per mostrare, al contrario, l’astio geloso della divinità, che all’uomo voleva impedire l’accesso al sapere divino. L’uomo non morirà "tosto", ma tosto raggiungerà la sapienza, propria degli esseri divini, che stanno nella corte di Dio e che conoscono il bene e il male. Il serpente non pensa ad una mera conoscenza intellettuale, ma necessariamente sperimentale, nell’ambito della decisione e dell’azione. SI APRIRANNO ALLORA I VOSTRI OCCHI. La frase, in bocca al serpente, ha il valore, in sé possibile, di acquistare una visione in sé inaccessibile alle forze dell’uomo, di avere una forza sovrumana. In bocca di Dio, presto, significherà accorgersi, divenir coscienti di un male compiuto. DIVENTERETE COME ELOHIM. Anche questa frase è ambigua, potendo significare tanto Iddio, quanto un qualunque essere sovrumano e angelico, che può somigliare a Dio in una semplice maniera analogica, come esprime la particella "ke" in bocca al serpente. CONOSCITORI DEL BENE E DEL MALE: nuova frase ambigua: in bocca del serpente prende una accezione in sé esatta, ma contraria all’intenzione divina. Infatti il diavolo gli dà il significato proverbiale di conoscere "tutto", in teoria e in pratica ("omnia nosse et omnia posse"): onniscienza che è onnipotenza e che è penetrare i segreti della natura e tutti i misteri della vita, cose che già Dio aveva comunicato all’uomo, ma condizionate all’umile sottomissione della creatura al Creatore. Sottomissione che l’uomo non volle accettare, perché, secondo Dio, conoscere il bene e il male è volere l’autonomia etica, farsi regola di se stesso, come la stessa divinità

La colpa. Ormai il germe del male era entrato nel cuore della donna, eccitando la diffidenza contro Dio, la curiosità, il desiderio della indipendenza. Il peccato interno è ormai commesso, il dono della integrità è sparito, la concupiscenza esercita la sua tragica potenza e si manifesta anche la colpa esterna. La donna vede che l’albero era buono a mangiarsi, cioè per sostentare la vita, seducente per gli occhi, atto al piacere sensuale, attraente per avere successo, per la conoscenza d’ordine pratico; sicché lo colse e lo mangiò, poi lo fece mangiare al suo marito.

Inizia così il peccato che i teologi chiameranno originale, il quale non consiste in una pura manducazione di un frutto proibito, né nel semplice risveglio della coscienza morale in una coppia di bambini; non consiste nemmeno in qualche peccato sessuale (contro l’obbligo della continenza temporaneo a favore dei culti licenziosi cananei, ovvero l’astenersi dalla procreazione), né, come vorrebbero non pochi critici, in un mito etiologico che voglia spiegare le miserie della vita umana: tutte ipotesi o parziali e infondate nel testo, o addirittura sbagliate. Ma consiste, come hanno affermato S. Agostino e S. Tommaso, nella ribellione a ogni Principio supremo di etica, per diventare principio di se stessi («deserto Eo cui debet animus adhaerere Principio, sibi quodam modo fieri atque esse principium», "De Civitate Dei", 14, 14); nel voler determinare, in virtù della propria natura, ciò che è buono e ciò che è cattivo («ut scilicet, per virtutem propriae naturae; determinaret sibi quid esset bonum et quid malum ad agendum», "Sum. Theol, II-II,q. 163, a. 2). Ribellione e determinazione possibili nella prima coppia, perché, come già affermò Filone, l’uomo era "medio" tra la docilità e l’autonomia. E l’uomo si determinò verso l’autonomia, in cerca di una vita e di un potere, non più partecipati come si addice a creature, ma assoluti come è privilegio degli Elohim. Una triplice colpa scoperta dall’Autore, sotto l’influsso della Rivelazione, per una istanza sapienziale, quando volle spiegare il problema del male nell’uomo e nella natura. Triplice colpa (=autonomia etica, abuso di vita e di potere) che poi rivestì con figure e miti che correvano nella cultura del suo tempo.

Chi sa perché, non poche persone sono convinte che il Peccato originale sa stato un peccato di natura sessuale. Ipotesi assurda, poiché la donna è stata creata precisamente per dare una compagna all’uomo (Gen 2, 24: l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.

Altri, più vicini al vero, pensano che si sia trattato essenzialmente di un peccato di disobbedienza, e di diffidenza nei confronti del Signore, poiché Dio aveva intimato all’uomo, ancor prima della creazione della donna (Gen 2, 16-17): Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino,  ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti. La disobbedienza tuttavia non basta, anche se l’obbedienza è una virtù quando si tratta di osservarla nei confronti di una legge che si è compresa e implicitamente approvata, riconoscendola come giusta; mentre i nostri primi progenitori avrebbero potuto obiettare che avevano infranto, sì, il divieto divino, ma senza averlo compreso, il che attenuava di molto la loro colpa. Oppure che lo avevano fatto perché spinti da un desiderio profondo e insopprimibile di conoscenza, il che è un impulso nobile dell’animo umano.

E tuttavia non lo fecero, mostrando con ciò che avevano compreso quel divieto quanto bastava per capirlo, o almeno per intuirne il senso e la necessità, e subirono il castigo senza protestare, riconoscendolo così come giusto e meritato. In realtà, mentre la disobbedienza è l’aspetto formale del Peccato originale (formale non nel senso tomistico, ma nel senso comune, cioè come esteriore e legale), l’aspetto profondo e decisivo è quello dell’invidia: invidia per non essere come Dio, per non poter conoscere la realtà delle cose, e specificamente la radice del bene e del male, con la stessa chiarezza e sicurezza di Dio, il quale, essendo creatore, tutto conosce fin nelle sue ultime radici. Pertanto non ci sembra che sia esatto pensare che Adamo ed Eva peccarono perché vollero conoscere il bene e il male, appropriandosi di una conoscenza che appartiene a Dio solo. Se così fosse, essi, non peccando, sarebbero stato innocenti, sì, ma nel senso che si dà alla parola innocenza quando si parla dei bambini, i quali ignorano la differenza fra il bene e il male. Nulla però autorizza a pensare che Dio volesse tenere Adamo ed Eva in uno stato di perpetua minorità e inconsapevolezza, come dei bambini piccoli che non peccano non perché sono buoni, ma perché ignorano il senso morale.

Il Peccato originale fu quindi un misto di disobbedienza e d’invidia, e consistette sia nella trasgressione di un ordine giusto e necessario, sia nel sentimento maligno, d’invidia e gelosia nei confronti del Creatore, immemore di tutti i benefici da Lui ricevuti, primo dei quali quello della vita e dell’intelligenza. In alte parole, non c’è nulla di sbagliato nel fatto che l’uomo aspiri a conoscere le radici del bene e del male; quel che è sbagliato è la pretesa di avere la perfetta e assoluta conoscenza, che è propria solamente di Dio. Per l’uomo, non tutto può essere chiarito sino in fondo: c’è qualcosa che gli sfugge e continuerà sempre a sfuggirgli, e che egli deve riconoscere come un limite della sua natura, oltre il quale non gli è lecito andare. Emanuele Testa scrive che il peccato fu triplice: di autonomia etica, di abuso della vita e di abuso del potere. Infatti la pretesa di conoscere sino in fondo le radici del bene e del male reca con sé l’ovvia pretesa di esserne anche il giudice e il legislatore: il che, per l’uomo, rappresenta un rifiuto del proprio statuto ontologico ed una ribellione contro Dio, al cui livello l’uomo aspira a mettersi.

Ricordiamo la celebre frase di Francesco Bacone (1561-1626), il quale, non a caso, è uno dei filosofi che hanno fondato la modernità attraverso la Rivoluzione scientifica del XVII secolo e ne hanno stabilito il significato complessivo, l’orizzonte concettuale e la direzione di marcia: knowledge is power, la conoscenza è potere. Ed è proprio ciò che ha fatto e continua a fare, in maniera sempre più accentuata, cioè sempre più ribelle e arrogante, l’uomo moderno. Egli trasforma la conoscenza del mondo in potere da esercitare sul mondo e sugli altri uomini: si serve delle scoperte scientifiche e delle loro applicazioni per farsi signore assoluto della vita, ad esempio con la fecondazione eterologa e altre operazioni che gli consentono di padroneggiare la vita, eludendo le leggi divine e le stesse leggi naturali che ne sono a fondamento, prima fra tutte la necessità dell’unione scambievole e amorevole dell’uomo e della donna. Diciamo meglio: rendendo superflua la specificità della donna e la sua insostituibilità per il concepimento e la generazione della vita, vale a dire rendendo inutile la realtà essenziale della natura femminile e proiettando entrambi i sessi in una dimensione totalmente confusa ed arbitraria, dominata dalla tecnica e dal denaro. Infatti solo chi dispone di denaro può procurarsi dei bambini mediante la pratica odiosa dell’utero in affitto, facendosi beffe della maternità e umiliando la donna al livello d’una produttrice mercenaria della merce chiamata figli.

Questi sono gli esiti logici e inevitabili della strada intrapresa dagli uomini allorché questi pretendono di farsi dèi e di stabilire da se stessi le radici del bene e del male: e sono già presenti, in potenza, nel peccato di Adamo ed Eva.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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