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Karl Brandt, il medico diviso fra Schweitzer e Hitler

Noi tutti siamo abituati a pensare che dove c’è il bene non c’è il male, e viceversa; che l’uno e l’altro sono incompatibili e inconciliabili; che è difficile, se non impossibile, confonderli, perché li si può riconoscere a prima vista, nella stragrande maggioranza dei casi. Tali convinzioni sono buone, sono utili, sono necessarie, e indubbiamente aiutano a vivere nella maniera giusta, avendo orrore del male e cercando di desiderare, e se possibile anche di fare, il bene. Tuttavia, non sono del tutto esatte. O meglio, lo sono sul piano dell’assoluto; ma il mondo umano è il regno del relativo, e nelle cose umane il bene e il male si presentano frequentemente mescolati, in un groviglio pressoché inestricabile.

Attenzione: non stiamo dicendo in alcun modo che il bene e il male sono impossibili da riconoscere e da distinguere: se così fosse, l’etica perderebbe significato e la vita umana diverrebbe il regno del caos. Stiamo dicendo semplicemente che, allo sguardo umano, che è necessariamente uno sguardo imperfetto e limitato, essi possono apparire mescolati in maniera tale, da rendere quasi impossibile una netta separazione dell’uno dall’altro: ed è questo che rende così problematici i giudizi umani, fermo restando che almeno un giudizio, quello di Dio, non erra, perché Dio sì che sa riconoscere e distinguere il bene e il male che sono in noi e che determinano il nostro agire e il nostro vivere, anche se i nostri simili, e talvolta noi stessi, stentiamo a riconoscere il confine reciproco dei due ambiti e tendiamo a confonderli, fino a smarrire del tutto la percezione di ciò che è bene e di ciò che è male. Anche perché noi tutti siamo maestri nei cavilli, nei sofismi, nelle eccezioni, quando ciò sembra convenire al nostro interesse; ed è questo il brutto mestiere degli avvocati: confondere le acque e far sì che perfino i galantuomini perdano il senso del bene e del male, convincendosi che l’uno e l’altro sono in realtà così mescolati, che nessuno li può separare in maniera netta e definitiva.

Essi fanno ciò per scusare le colpe degli uomini, i loro clienti; anche molti intellettuali fanno così per il gusto di pescare nel torbido e ottundere il senso morale della gente, in modo da creare una nebbia nella quale gli atti più turpi acquistano una certa plausibilità e possono procacciarsi qualche forma di tolleranza, se non addirittura di simpatia: e ciò per la sola ragione di giustificare se stessi, le proprie cattive tendenze e il desiderio irrefrenabile di oltrepassare i limiti e assaporare il gusto del proibito. Dio ci scampi dagli avvocati e dagli intellettuali, due razze nocive alla società, che tornano utili sono quando i sani valori sui quali essa si regge vanno in crisi, e ciascuno si arrabatta come può, meglio che può, e, non appena possibile, non si fa scrupolo di calpestare i diritti altrui, agendo come se il timor di Dio non fosse che una pia superstizione del passato. Invece non è così: senza timor di Dio, la società precipita nel caos, appunto perché ciascuno pretende di farsi la propria legge morale, e, mettendo avanti i casi estremi ed eccezionali, quelli che colpiscono l’immaginazione e scuotono i nervi, ma per l’appunto non sono altro che eccezioni, e dunque non dovrebbero mai fare testo, vengono invece sfruttati per incrinare ogni certezza, per scardinare ogni legge e rovesciare da cima a fondo il senso morale.

E adesso vediamo un esempio concreto di mescolanza del bene e del male nella vita concreta degli esseri umani. Vi sembra possibile che lo stesso individuo, e proprio nello stesso periodo della sua vita, nella piena giovinezza, e non già in due fasi molto diverse e lontane l’una dall’altra, come l’adolescenza e la vecchiaia, provi una forte attrazione sia per il modello rappresentato da Albert Schweitzer, il grande medico e missionario che dedicò gran parte della sua vita all’assistenza dei malati di lebbra in una plaga dimenticata dell’Africa Occidentale, sia quello rappresentato da Adolf Hitler, quando questi non era ancor giunto al potere, ma proclamava apertamente le sue idee, e questo almeno glielo si deve riconoscere, di non essersi mai fatto scudo di affermazioni ipocrite e di aver celato le sue vere intenzioni dietro una cortina fumogena di buoni sentimenti? Schweitzer e Hitler si direbbero due tipi umani opposti e assolutamente inconciliabili: eppure è accaduto che qualcuno non abbia percepito tale antitesi e sia stato sedotto da entrambi, ammirando nell’uno il grande filantropo e amico degli ultimi, nell’altro il grande amico del proprio popolo e il vendicatore delle ingiustizie storiche da esso subite. Tale è stato il caso del medico Karl Brandt (Mülhausen, 8 gennaio 1904-Landsbeg am Lech, 2 giugno 1948), un giovane idealista e sensibile, che odiava la sofferenza e desiderava porre se stesso e l’intera sua vita al servizio della medicina, per alleviare le sofferenze dei suoi simili. Un bravissimo chirurgo dalla promettente carriera, che restava turbato quando gli portavano da operare qualche povero minatore, rimasto infortunato in un incidente sul lavoro; e intanto sognava un futuro nel quale simili drammi divenissero impossibili, e la giustizia sociale assicurasse a ciascuno un lavoro dignitoso, senza la frequente possibilità di restare vittima d’una "morte bianca" per guadagnare un misero stipendio, lasciando una vedova e degli orfani a patire la fame nel nido abbandonato dal capofamiglia.

Karl Brandt era nato in Alsazia e nel 1919 si era trovato costretto a emigrare n Germania per non perdere il diritto di sentirsi tedesco e di vivere da tedesco, dopo che la Francia si era annessa quella provincia, ai termini della pace di Versailles. Quanti lo conobbero da vicino attestano che la perdita della propria terra natale esercitò un’influenza decisiva nell’orientare i suoi sentimenti verso quella forza politica, il nazionalsocialismo, che gli sembrava la sola capace di riportare la sua amata terra natale entro i confini della patria tedesca. Verso i venticinque anni conobbe il dottor Schweitzer, che avendo quasi trent’anni più di lui, avrebbe potuto essergli padre: ne divenne ammiratore, discepolo, amico; si entusiasmò all’idea di andare a lavorare con lui, nel lebbrosario di Lambaréné, e decise di fare il gran passo, offrendo il suo ingegno e le sue energie alla grande causa della lotta contro le malattie tropicali, recandosi personalmente nel Gabon selvaggio. Non gli fu possibile perché le autorità francesi, che già avevano avuto il coraggio d’internare Schweitzer, durante la guerra del 1914, come un nemico, per il fatto della sua nazionalità tedesca (era nato in Alsazia dopo soli cinque anni che quella regione era stata unita al Reich germanico), adesso posero una condizione inaccettabile per consentire al giovane Brandt di recarsi a sua volta laggiù: prestar prima servizio militare nel loro esercito e contestualmente rinunciare alla cittadinanza tedesca per divenire cittadino francese. Tanto sarebbe valso chiede a Brandt di strapparsi il cuore con le sue stesse mani. E così il medico idealista dovette riporre il proprio sogno africano nel cassetto e abbandonare, con l’animo gonfio di amarezza, il sogno di recarsi definitivamente presso il suo modello ideale, Albert Schweitzer.

Il destino volle che poco dopo le circostanze della vita lo portassero, lui che non si era mai interessato alla politica se non di riflesso, cioè per vedere sanati i mali che attanagliavano la sua povera patria, umiliata e prostrata da un pace punitiva e da un serie di tremende crisi economiche, a conoscere personalmente il futuro dittatore, Adolf Hitler. Infatti la sua fidanzata Annie Rebhorn, una campionessa di nuoto, era amica personale di Hitler, e lo presentò al capo del partito nazista. Poco dopo, nel corso di un viaggio in automobile, un drammatico incidente che per poco non costò la vita all’aiutante di campo di Hitler, creò una situazione di fatto senza ritorno. Il bravo dottor Brandt si prodigò nell’assistenza al ferito, lo operò personalmente e gli salvò la vita, guadagnandosi l’ammirazione e la gratitudine del nuovo capo del governo. In breve, Hitler propose a Brandt di divenire il suo medico di scorta, incaricato di seguirlo nei suoi spostamenti e di vegliare sulla sua salute. Benché Brandt non amasse la politica e meno ancora gli intrighi, tanto da inimicarsi ben presto il potentissimo Himmler, il sentimento di stima e di fiducia nei confronti di Hitler lo indusse ad accettare con entusiasmo, iniziando così una carriera di medico ufficiale del Terzo Reich, che lo avrebbe portato ad assumersi una parte considerevole delle tremende responsabilità del regime in campo medico e sanitario. Nominato generale delle SS, nel 1939 divenne commissario del Reich per la sanità, e come tale diresse il Programma T4 per la soppressione dei disabili; inoltre permise o incoraggiò gli esperimenti "scientifici" mediante i quali migliaia di esseri umani vennero usati come cavie da laboratorio per studiare gli effetti dell’inoculazione di virus, come quello dell’epatite epidemica, e per testare le relative cure. Caduto in disgrazia e arrestato il 16 aprile 1945, fu condannato a morte, ma l’esecuzione venne sventata dall’intervento di un altro outsider della corte di Hitler, Albert Speer, ministro degli armamenti, al quale a sua volta Brandt aveva salvato la vita un anno prima.

Poche settimane dopo, però, egli fu tratto in arresto dai Britannici e condotto davanti a un tribunale militare alleato per essere giudicato nel cosiddetto Processo ai Dottori, il primo dei dodici processi secondari che si svolsero a margine del processo di Norimberga contro i più alti esponenti del regime nazista. Le accuse a suo carico andavano dai crimini di guerra e dai crimini contro l’umanità, ad aver eseguito o autorizzato sperimentazioni su cavie umane senza il loro consenso, commettendo atrocità di vario genere; nonché di aver fatto parte di un’organizzazione che gli Alleati avevano qualificato come criminale, le SS. A suo favore testimoniarono alcune persone, come il successore del reverendo Bidelswingh, che a suo tempo si era coraggiosamente opposto al programma eugenetico nazista e che tuttavia era stato amico di Brandt, riconoscendo le sue qualità umane, il suo idealismo ed il merito di aver limitato per quanto possibile il programma di eutanasia imposto dal regime. Vi fu anche chi fece notare che in alcuni casi erano stati i genitori stessi di bambini affetti da gravissime malformazioni a chiedere la soppressione del loro figlio, e che in generale Brandt non si era mai comportato come un criminale senza scrupoli, ma aveva meritato la stima e l’ammirazione di molte persone, specie nell’ambiente medico, le quali avevano colto la sua onestà e la sua generosità, ad esempio allorché si era prodigato senza risparmio, e in prima persona, per soccorrere la popolazione di Amburgo, decimata e traumatizzata dai bombardamenti aerei, quelli sì, certamente criminali, anche perché eseguiti con le bombe al fosforo bianco, al preciso scopo di bruciare vive le persone (cfr. il nostro articolo: Come i Liberatori "salvarono" l’Europa da Hitler: la distruzione di Amburgo (24 luglio-3 agosto 1943), pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 25/05/09 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 22/11/17). Vi fu anche chi fece notare ai quattro giudici, tutti americani, che negli Stati Uniti e negli altri Paesi democratici vigevano, negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, pratiche non dissimili da quelle ora imputate al dottor Brandt, ad esempio usare i detenuti e gli infermi di mente per esperimenti medici di vario tipo, inoculando loro dei virus e fingendo che si trattasse di cavie volontarie: al che tutti gli osservatori in buona fede dovettero ammettere che fra ciò che avevano fatto Brandt e i suoi collaboratori e quel che avevano fatto per anni i medici americani, britannici e francesi, esistevano delle differenze quantitative, ma non delle vere e proprie difformità sostanziali. Più in generale, era opinione corrente, presso tutti gli ambienti medici ufficiali delle principali nazioni, che lo Stato avesse il diritto di servirsi dei delinquenti e dei malati di mente per fare degli esperimenti scientifici aventi come scopo il miglioramento delle terapie oppure, nei casi estremi, la sterilizzazione o anche l’eliminazione degli individui socialmente indesiderabili; e chi voglia convincersene non ha che da leggere la famosissima Storia di San Michele del dottore svedese Axel Munthe, il quale vi confessa candidamente che anche lui era di una simile opinione, lui che amava gli animali e gli uccellini al punto da scagliarsi con tutte le sue forze contro la barbarie dell’uccellagione dei volatili di passo. Tutto però fu inutile: Brandt fu condannato a morte e la sentenza venne eseguita mediante impiccagione, come per un criminale comune.

Così rievoca la sua figura e il suo dramma umano il giornalista e saggista francese (di origini tunisine) Philippe Aziz, nel corso d’una lunga intervista a un amico dell’ormai defunto dottore, che rilasciò le sue dichiarazioni sotto lo pseudonimo di Darnhoff, nella monografia Karl Brandt, vol. 1 dell’opera I medici dei lager, diretta da Jean Dumont (Ginevra, Edizioni Ferni, 1975, pp. 14-16 e 22-24):

«Tuttavia Karl Brandt non era un fanatico: non l’ho mai sentito fare discorsi antisemiti e credo che nel suo ufficio di Berlino avesse molti segretari ebrei o di origine ebraica. Ma egli era profondamente disgustato dalla corruzione politica che regnava a quel tempo e anch’egli cercava dei capri espiatori… Quello che sto per dirvi potrà sembrar incredibile, ma, seguendo i suoi ideali e la sua fede nella medicina, fu sul punto di partire per l’Africa con Albert Schweitzer».

Esortai Darnhoff a fornirmi precisazioni su quello che io chiamavo "l’affare Schweitzer".

«Il periodo Schweitzer fu determinante nella vita di Brandt… Lavoravamo assieme, dopo il 1928, nella Ruhr industriale, a Bochum, nell’ospedale Bergannsheil, al seguito del professor Magnus… Ma di questo vi parlerò più ampiamente in seguito… Anche il passaggio a Bochum è molto importante al fine di comprendere la sua adesione al partito nazionalista e a Hitler.

Karl Brandt è un ammiratore del professor Schweitzer (anch’egli alsaziano) e del suo lavoro; so che andò moltissime volte a trovarlo, durante la nostra permanenza a Bochum. La preparazione scientifica, l’intelligenza e lo spirito di abnegazione del professore, sembravano esercitare su di lui una straordinaria influenza. Egli me ne parlava come di un uomo da cui ci fosse tutto da imparare. Un giorno venne a trovarmi con un’espressione felice che mi stupì e "Heinrich", mi disse, entrando come un pazzo "io parto…", e prima che riuscissi a dire una sola parola continuò "Parto, parto per il Congo con Schweitzer: ormai siamo d’accordo, mi porterà con sé…" Ahimé!… Almeno fosse partito! Ma il destino, per un problema di nazionalità, avrebbe deciso diversamente per lui: la legge francese infatti, pur consentendogli di partire, esigeva che prima prestasse servizio militare nell’esercito francese e, per poter far ciò, avrebbe dovuto prendre, naturalmente, la nazionalità francese. Proprio lui, un alsaziano tedesco!… Mi confidò, in quel periodo, quasi avendo un presentimento di quello che sarebbe stato il suo destino, che mai aveva provato una delusione più cocente. "Pazienza", aveva poi aggiunto amaramente, "se non potrò mettere la mia scienza, la mia abnegazione ed il mio coraggio al servizio dei lebbrosi di Lambaréné, vorrà dire che li porrò al servizio dei lebbrosi tedeschi!" Egli si riferiva a quegli sventurato minatori che curavamo nell’ospedale di Bochum. Senza dubbio fu in quel’occasione che Karl Brandt ebbe il presentimento di quello che sarebbe stato il suo destino, Penso di poter oggi affermare che Schweitzer e Hitler furono i due personaggi influirono sulla sua personalità: furono gli esempi ai quali si ispirò e in cui si rispecchiò.» (…)

Il 10 giugno 1933 le Mercedes nere del Führer attraversarono a rotta di collo la campagna tedesca: Hitler e il suo seguito avevano appena lasciato Berchtesgaden per trasferirsi a Berlino,Il nuovo cancelliere del Reich aveva fretta e perciò ordinò di accelerare; sua nipote, che i accompagnava nel viaggio, era salita coi suoi amici nella seconda auto, guidata dall’aiutante di campo del Führer Wilhelm Brüchner. Un anno prima, nel 1932, Annie Rebhorn, campionessa di nuoto e amica personale di Hitler, che l’ammirava per la sua bellezza e il so carattere deciso, aveva presentato al Führer il suo giovane fidanzato, ancora assistente di chirurgia a Bochum. Da quel momento i due giovani cominciarono a frequentare il nuovo capo di Stato, accompagnandolo nei suoi spostamenti non ufficiali e partecipando frequentemente alle sue festicciole intime…

Improvvisamente all’uscita da Reit-im-Winkel, l’auto di Brüchner uscì di strada: era scoppiato un pneumatico anteriore. L’autista cercò, sterzando, di rimettersi in carreggiata, ma l’auto, ormai priva di controllo, prima si arrampicò su un terrapieno, rotolò poi sull’erba e infine precipitò in un fossato. Le altre due Mercedes frenarono bruscamente e tutti i viaggiatori, spalancate con violenza le portiere, si precipitarono attorno all’automobile fuori strada. Si udì la voce allarmata di Hitler che urlava il nome di sua nipote. «Frehel! Frehel!…». Il povero Brüchner, semisvenuto, era piegato in due sul volante e perdeva sangue dall’orecchio sinistro. «Attenzione», urlò Brandt avvicinandosi, «non lo tirate fuori così… Ci può essere una frattura del cranio…»

Mentre Hitler, il suo autista e Annie Rebhorn si occupavano della giovane Frehel leggermente contusa e dei suoi amici, Brandt ed uno degli ufficiali stesero con precauzione l’aiutante di campo sul terreno. L’altro ufficiale era andato in tutta fretta a chiedere soccorso.

All’ospedale di Traunstein, il paese più vicino, fu lo stesso Brandt ad eseguire l’operazione. Il personale ospedaliero, elettrizzato dall’arrivo di personaggi tanto importanti, collaborò incondizionatamente… Terminato l’intervento, che durò due ore e mezzo, Brandt uscì dalla sala operatoria visibilmente sollevato: Brüchner era salvo.

Lo aspettava Hitler, che non aveva voluto ripartire proprio per vedere il giovane chirurgo.

«Karl Brandt», gli disse stringendogli la mano, «mi congratulo con voi: ci avete appena dato una dimostrazione di padronanza di nervi e di prontezza di decisione, ma, soprattutto, mi avete dato prova di essere un eccellente chirurgo. Desidero che d’ora in poi restiate al mio fianco in tutti i miei spostamenti: voi sarete il mio medico di scorta.»

Poi aggiunse, sorridendo in tomo confidenziale: «Con uno specialista del cranio e della colonna vertebrale al mio fianco, il massimo che mi possa capitare può essere una gamba rotta, vero? Voi chiedo dunque di restare accanto al mio fedele Brüchner fino a che non sia completamente ristabilito». Karl Brandt fu completamente conquistato dal calore con cui il Führer gli aveva espresso la sua ammirazione: quel giorno si decise il suo destino.

Fu il caso a stabilire chi dovesse seguire: Schweitzer, il medico dei dimenticati da Dio, o Hitler, il futuro sterminatore dei deboli. Egli, uomo influenzabile alla ricerca di un modello da seguire, subì il fascino del capo come si accetta un’evidenza: ciecamente. Da quel momento la sua vita appartenne al Führer: a 29 anni aveva ormai trovato il suo modello e la sua guida.

Qualcuno si chiederà dove vogliamo andare a parare con tutto questo discorso e se per caso siamo dell’avviso che la condanna di Karl Brandt fu ingiusta, o, più in generale, se riteniamo che sia umanamente impossibile esprimere un giudizio circa la responsabilità morale degli esseri umani, perlomeno in certe ingarbugliate situazioni. Possiamo rassicurare anche i più sospettosi che non vi è alcuna intenzione revisionista nel nostro assunto e che non desideriamo attenuare le gravissime responsabilità di uomini come Karl Brandt, i quali, e sia pure, forse, relativamente in buona fede, si scordano il giuramento d’Ippocrate e trasformano la medicina da nobile arte in difesa della vita a tragica macchina di soppressione della vita stessa. Peraltro, è evidente che i vincitori della Seconda guerra mondiale, proprio perché parti in causa, non avevano i requisiti per processare i vinti e perciò se dei processi dovevano esservi a carico di questi ultimi, le giurie avrebbero dovuto essere formate da elementi delle nazioni neutrali. Per non dire che molti fra i vincitori avrebbero meritato di essere a loro volta processati, specialmente i rappresentanti dell’Unione Sovietica, Paese nel quale il regime staliniano aveva reso "normali" crimini quotidiani del tutto paragonabili a quelli perpetrati nella Germania nazista e nei Paesi da questa occupati nel corso del conflitto. Tutto ciò, peraltro, riguarda il giudizio storico complessivo sugli eventi di quel periodo e non riguarda la questione specifica che ci siamo proposti di considerare, ossia la responsabilità individuale del medico nei confronti di pratiche eugenetiche o di sperimentazioni di massa chiaramente pericolose per le cavie e quindi di per se stesse moralmente illecite o riprovevoli. Un discorso che oggi torna più che mai di attualità, alla luce di quel che sta accadendo nel mondo a partire dal marzo del 2020. E senza trascurare il fatto che contestualmente alle vaccinazioni di massa imposte più o meno scopertamente da governi nominalmente democratici e rispettosi dei diritti umani, ma in realtà asserviti agli interessi inconfessabili delle multinazionali farmaceutiche, si assiste alla sfacciata sponsorizzazione di pratiche mediche non meno discutibili, ma in apparenza di segno opposto, come quelle che, con il pretesto di aiutare le coppie infeconde ad avere dei bambini, di fatto commercializzano la vita e mettono in vendita su catalogo i nascituri, a vantaggio anche di quelle coppie che sterili lo sono per definizione, essendo formate da persone del medesimo sesso. In un contesto siffatto, ha senso dire che vi è sempre e comunque la capacità di riconoscere e separare il bene dal male, o è una vera e propria ipocrisia, utile semmai a mascherare una realtà colpevole e obbrobriosa, ma che ama prestarsi in nobili vesti o comunque in forme socialmente accettabili, esclusivamente grazie all’opera sottile dei persuasori occulti, giornali e televisioni, capaci ormai di far passare il vero per falso e viceversa, come pure il bene per male, e il male per bene? Riuscire a rispondere a tali interrogativi senza imbarazzi né ambiguità è di fondamentale importanza per la nostra vita e per la sopravvivenza stessa della civiltà.

È troppo comodo riversare ogni colpa su regimi politici che sono stati sconfitti, e chiudere intanto gli occhi di fronte alle aberrazioni e le brutture che si commettono tuttora, sotto i nostri occhi e magari proprio a nostro danno, però dietro il paravento d’una "scienza" che in realtà altro non è che la copertura d’interessi oscuri e criminali, nel pieno senso del termine, poiché diretti a calpestare il diritto alla salute e alla vita, per far trionfare lo strapotere d’una minuscola oligarchia di delinquenti amorali e psicopatici, così cinici da voler presentare sé stessi nelle vesti di filantropi e nobili idealisti.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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