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Ma è vero che gl’italiani del 1940 erano antitedeschi?

Una delle accuse più forti ed unanimi che gli storici della vulgata resistenziale e antifascista hanno da sempre lanciato contro Mussolini e il fascismo è stata quella di aver portato l’Italia a stringere un’alleanza innaturale con la Germania nazista, alleanza che andava contro gli interessi dell’Italia e che incontrava la viva ostilità del popolo, in quanto gli italiani erano storicamente antitedeschi e, semmai, si sentivano legati da antichi e profondi vincoli di amicizia (e magari addirittura di gratitudine) verso il popolo inglese e quello francese, per non parlare del popolo americano. Poiché si tratta, appunto, di un argomento polemico fisso e immancabile della storiografia che si è insediata all’interno della cultura dominante a partire dal 1945 (per il Sud Italia, dal 1943), e poiché è quello che ha goduto e che gode tuttora della maggiore plausibilità anche da parte dei pochi studiosi e di quella parte del pubblico che non sono piattamente proni di fronte alla cultura dominante, vale la pena soffermarsi su di esso, poiché è impossibile capire e valutare serenamente la fatale decisione di Mussolini di entrare nella Seconda guerra mondiale, il 10 giugno del 1940, senza aver ben chiarito tale questione. Se sia vero, cioè, primo, che l’alleanza con la Germania, nata genericamente come Asse Roma-Berlino nel 1936 e formalizzata col Patto d’Acciaio del 22 maggio 1939, fosse contraria agli interessi vitali del nostro Paese; e, secondo, se sia vero che la maggioranza del popolo italiano provava un’istintiva e naturale avversione, per non dire una vera e propria ripugnanza, nei confronti di tale alleanza.

Dunque, vediamo se la classica argomentazione della storiografia antifascista è vera e condivisibile: scorporiamo i due diversi enunciati. Primo: l’alleanza con la Germania sarebbe stata innaturale, perché opposta all’interesse nazionale italiano. Ciò è palesemente falso. In Europa, le potenze che si opponevano a un rafforzamento del nostro Pese e ad una sua accresciuta influenza a livello mondiale erano precisamente la Francia e la Gran Bretagna: e lo si era visto fin dal 1919, dalla (per noi) penosa Conferenza di Versailles. La Francia vedeva in noi dei pericolosi rivali, e ciò fin dalla realizzazione dell’Unità: si pensi solo al voluto affronto dell’occupazione di Tunisi (ove vivevano migliaia di lavoratori italiani) nel 1881; alla guerra delle tariffe doganali scatenata dalla Francia contro di noi nel 1888; al vergognoso linciaggio di Aigues-Mortes del 1893; al sostegno fornito all’Etiopia nel 1895-96; alla non celata ostilità francese durante la guerra di Libia nel 1911-12; salvo poi nel 1914 brigare in ogni modo, legale e illegale, per convincere la sorella latina a entrare in guerra per aiutarla a cavare le proprie castagne dal fuoco, dopo la battaglia della Marna e nella prospettiva d’una lunga guerra di logoramento. E per non dir nulla della Corsica, di Nizza, della Savoia, di Gibuti. Quanto alla Gran Bretagna, la cui marina aveva agevolato lo sbarco di Garibaldi in Sicilia nel 1860, e che fin dall’inizio era sembrata la più amichevole delle potenze europee nei confronti della causa nazionale italiana, fino a chiedere (e ottenere) la partecipazione piemontese alla guerra di Crimea nel 1855; a invitare il nostro governo a un’azione comune in Egitto nel 1882; a incoraggiare la nostra espansione in Africa Orientale al tempo delle guerre mahdiste nel Sudan anglo-egiziano, essa si era guadagnata in Italia, più ancora della Francia, la fama, chi sa perché, di benevola alleata e addirittura in qualche modo di amica dei nostri interessi, anche se sarebbe basato dare un’occhiata alla carta geografica per capire che doveva essere, al contrario, la più fiera avversaria della nostra espansione, vista l’importanza che per lei rivestiva il dominio del Mediterraneo, compreso l’adiacente spazio geopolitico del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano. Cioè precisamente le direzioni privilegiate e naturali della nostra politica marittima e coloniale (questione dell’irredentismo maltese; interessi italiani nel Mare Egeo e in Asia Minore; controllo del Canale di Suez; espansione in Eritrea, Somalia ed Etiopia).

Tuttavia, il quadro non sarebbe ancora sufficientemente chiaro se si considerasse solo la politica degli Stati e dei governi, fingendo d’ignorare che già a partire dal XIX secolo, se non da prima ancora, essa era esercitata occultamente da un potere sovranazionale e del tutto illegale, ma oltremodo pervasivo: quello della massoneria, che coincideva, in buona sostanza (e coincide tuttora, sia detto fra parentesi) col grande potere finanziario internazionale. E Londra e Parigi, oltre che Washington, erano da tempo gli strumenti di tale potere, deciso a esercitare una propria influenza, a sviluppare una propria strategia, e puntare ad un proprio disegno geopolitico globale, all’interno del quale gli Stati ed i popoli dovevano (e devono) essere utilizzati come le pedine su di una scacchiera, messi gli uni contro gli altri, in vista di finalità che non c’entrano affatto con gl’interessi vitali di quegli Stati e di quei popoli, ma che rispondono essenzialmente, per non dire unicamente, agli interessi di controllo e di dominio di quel potere occulto, al tempo steso plutocratico e massonico, e ampiamente rappresentato dalle élite dei banchieri ebrei askhenaziti e talmudisti, con le loro attese messianiche secolarizzate d’un "messia" politico destinato a imporre sul mondo la loro indiscussa e indiscutibile superiorità. In tale prospettiva, se Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti erano stati individuati dall’oligarchia finanziaria mondiale come gli strumenti privilegiati della loro politica (tant’è che tutti i presidenti americani fin dalla nascita della loro nazione, e tutti i presidenti francesi dopo la rivoluzione del 1789, erano massoni, mentre la casa regnante britannica è strettamente associata a quei poteri occulti) l’emergere di nuove potenze come la Germania, l’Italia e il Giappone non poteva che riuscire sgradito, perché potenzialmente destabilizzante e soprattutto perché queste nazioni parevano decise a liberarsi dall’ipoteca finanziaria della massoneria mondiale e perseguire una politica economica volta a difendere gl’interessi dei propri cittadini, dei lavoratori e dei risparmiatori e non quelli dei banchieri apolidi della City londinese o di Wall Street: i soliti ed eterni Rotschild, Rockefeller, Warburg, ecc.

Viceversa, fra gl’interessi tedeschi all’indomani della Prima guerra mondiale, cioè assai prima che il nazismo andasse al potere, e quelli dell’Italia vittoriosa nel 1918, ma in sostanza defraudata dai suoi ex alleati dei frutti della vittoria e respinta in una posizione di potenza secondaria, cui bisognava interdire sia l’accesso all’oceano aperto (Gibilterra, Suez, Aden: tutte britanniche) e il controllo del mare di casa propria (Malta), sia la piena autonomia delle proprie finanze e del proprio commercio, per tenerla costantemente in uno stato di minorità e dipendenza, specie col ricatto delle materie prime di cui essa era necessariamente una forte importatrice, esisteva un’evidente ed oggettiva convergenza. Unico possibile ostacolo: la questione dell’Alto Adige/Sud Tirolo; ma Hitler, intelligentemente, e fin da prima di andare al potere (quanto poi sinceramente, è un altro discorso) l’aveva tolto di mezzo, dichiarando chiaro e tondo, già dalle pagine del Mein Kampf, che tale questione non doveva assolutamente compromettere e avvelenare i rapporti della Germania con la sola potenza continentale con la quale non vi fosse alcun contrasto d’interessi vitali, ma vi fossero, al contrario, evidenti affinità e corrispondenze. Sostenere pertanto, come fanno da sempre gli storici politically correct dal 1945, specialmente quelli marxisti, che esisteva una reale e inevitabile affinità ideologica e morale fra il fascismo e il nazismo, per cui l’alleanza fra i due Paesi non nasceva da interessi comuni, bensì dalla convergenza delle due rispettive ideologie, significa in parte barare al gioco, ossia confondere volutamente ideologie e regimi al potere, che sono cose diverse; e in parte mentire senza ritegno, perché qualunque governo italiano o tedesco degli anni ’30 del secolo scorso avrebbe constato un’effettiva comunanza d’interessi, non tanto in vista di obiettivi strategici comuni, ma in virtù di un comune implacabile avversario, la plutocrazia anglo-francese (e, in via secondaria, il comunismo) e del fatto che, viceversa, non esistevano fondamentali conflitti d’interesse fra di loro. Il che nelle relazioni internazionali, specie a quell’epoca e in quella congiuntura internazionale, era già molto.

E veniamo alla seconda questione: se sia vero che il popolo italiano era istintivamente contrario a un’alleanza con la Germania. In verità, in questa asserzione vi sono due elementi tendenziosi e antistorici. Primo, si confonde il "popolo" con l’opinione pubblica, che sono due concetti completamente diversi. L’opinione pubblica va e viene, il popolo rimane; l’opinione pubblica è forgiata dai mezzi d’informazione e di propaganda, e corrisponde a ciò che il popolo fa mostra di sentire e di credere in un certo momento, in certe situazioni, non a quello che appartiene, per così dire, al suo DNA. Secondo, l’opinione pubblica non conosce, di solito, i veri interessi strategici della propria nazione: questi rientrano nelle competenze della classe dirigente, e più precisamente delle forze politiche che stanno al governo. Opinare diversamente, sarebbe come dire che il popolo sa benissimo cosa occorre e cosa vuole in ogni ambito, anche in quello scientifico, sanitario, religioso, artistico, culturale: ma per sapere tali cose è necessaria una reale competenza intellettuale, una seria preparazione ed un costante aggiornamento: cosa che la grande maggioranza delle persone non possiede, perché non ne ha il tempo, o perché non ne ha le capacità, o infine perché non ne ha l’interesse. E sta proprio qui il grande inganno delle (false) democrazie moderne: nel far credere al popolo "sovrano" che le grandi decisioni politiche, interne ed estere, dipendono da lui, e sono prese in accordo con la sua volontà, mentre di fatto esse sono decise da una ristretta cerchia di persone, più o meno come accade nei regimi autoritari; in quel caso, però, senza finzioni e ipocrisie, ma apertamente e alla luce del sole.

Tale fu il caso dell’Italia nel 1939-40. La grande decisione, prima quella dell’alleanza e poi quella dell’entrata in guerra, fu presa da un uomo solo: da un uomo, però, e questo va riconosciuto ed evidenziato, che non serviva gli interessi di oscuri poteri extranazionali di natura finanziaria e massonica (come invece accade ai nostri dì, col felice e provvido governo Draghi), né puntava a ottenere degli squallidi vantaggi di natura personale, ma agiva, magari sbagliando, nell’esclusivo interesse della propria nazione e del proprio popolo, con lo sguardo sempre rivolto al futuro, alle generazioni che sarebbero venute e per le quali immaginava una vita migliore. In realtà, da che mondo è mondo, le alleanze e le guerre le decidono pochi uomini al potere, e non i popoli, tanto meno le mamme (che davanti all’eventualità di una guerra inorridiscono istintivamente, il che è sacrosanto, ma è anche la ragione per cui è un bene che la politica estera non la facciano loro). L’adesione dell’Italia alla Triplice Alleanza fu voluta da Depretis e dal re Umberto I; la decisione di dichiarare guerra alla Turchia, nel 1911, fu presa dal liberale Giolitti; quella di entrare nella Prima guerra mondiale, ribaltando le precedenti alleanze, fu presa da Orlando, Sonnino e dal re Vittorio Emanuele III. Poche, pochissime persone: e il "popolo" a fare da cornice. Non si dica, perciò, che la decisone solitaria di Mussolini nel 1940 fu una violazione della prassi abituale: per chi se ne fosse scordato, l’Italia prima del fascismo non era una democrazia, ma una monarchia costituzionale, e la prassi governativa era di tipo liberale conservatore.

E desso vediamo più da vicino la questione specifica che ci eravamo posta, se cioè l’alleanza italo-tedesca del 1939 fosse davvero malvista e intimamente avversata dalla maggioranza del popolo italiano.

Scrive il giornalista Bruno Spampanato, a questo proposito, nel suo famoso Contromemoriale (Roma, Centro Editoriale Nazionale, 1974, vol. I, pp. 33-36):

I giornali in Italia [a fine agosto 1939] si limitavamo a pubblicare i loro servizi o i dispacci dell’agenzia ufficiale. Mussolini non se ne lasciava sfuggire uno. Segni rossi e blu attendevano il Ministro della Cultura Popolare al suo rapporto.

Il ministro era ancora Alfieri, un ex nazionalista di Milano passato poi al fascismo, un insignificante provinciale con qualche pretesa di mondanità. Nelle redazioni non si dava gran peso al suo cervello. Giocava a suo favore la personale amicizia con Goebbels. Mussolini lo utilizzava come un decorativo passacarte. Le direttive della politica estera erano del Duce anche nella propaganda. Ma Alfieri non le capiva o le applicava male.

Al ministero c’erano funzionari intelligenti e anche capaci nel sondaggio e nel relativo trattamento dell’opinione pubblica. C’erano giovani già maturi che credevano di poter servire il fascismo e il paese. Ma li bloccava l’invadenza dei favoriti. Costoro nascondevano dietro un’ortodossia impeccabile la loro sincera indifferenza per i problemi di quel settore così delicato, sollecito solo ai guadagni e agli onori dovuti alla protezione di un ministro o di un gerarca. Questo scetticismo disinvolto, questo senso della superficialità e dell’improvvisazione l’aveva portato il primo capo del dicastero, Galeazzo Ciano.

Tra gli errori da cui non si potrà scagionare il governo di Mussolini c’è questo, di aver lasciato nelle mani di individui di terzo o quart’ordine la centrale dell’opinione pubblica del paese. Vero che le direttive generali erano le sue, del Duce, ma era il ministero che doveva tradurle nella propaganda con tutti i mezzi a sua disposizione. E la propaganda usava formule catechistiche infastidendo i nervi del pubblico abbassati dall’usura di quegli ultimi tempi o, per scuoterlo, adottava criteri ingenui per la sua intelligenza. Così la maggior parte degli italiani, quella che da una propaganda ben fatta sarebbe stata incoraggiata a una più attenta responsabilità di fronte agli avvenimenti, si troverà impreparata di fronte ai loro sviluppi.

Anche per il patto con la Germania si preparò male l’opinione pubblica. Eppure si trattava di un indirizzo del tutto nuovo per un paese dove aveva messo radici una tradizione culturale antitedesca, di origini massoniche o democratiche, confermata dalla guerra del 1915. Nell’Italia del nord si scambiavano addirittura i tedeschi con gli austriaci per il solo fatto della lingua comune; e così la Germania, l’alleata del Risorgimento, si prendeva le antipatie ereditarie dell’Austria degli Asburgo. In quei momenti un’alleanza non sentita, anche se la più naturale e la più logica, era un rischio per la nostra politica. E a indirizzare il pubblico poteva pensarci solo il ministero di Via Veneto, che non ci pensò.

Francofili o anglofili, molti della borghesia cominciarono a sabotare l’alleanza prima ancora della guerra. L’influenza di costoro nello Stato Maggiore, nei circoli di Corte, nelle direzioni dei ministeri, nei giornali, negli ambienti intellettuali, perfino alla periferia del partito o nelle organizzazioni controllate dal regime, era notevole. E si avvertì subito.

Tuttavia l’alleanza avrebbe incontrato le sue spontanee simpatie, ma tra la gente più lontana o refrattaria a quella sottile, tenace influenza: la gente che ragionava con la storia alla mano; magari quel poco di storia che sapeva, e che si trovò così a preferire degli alleati sicuri alla "sorella latina" o alla "tradizionale amica" britannica. Era specialmente la piccolissima gente che aveva girato il mondo, e conosceva meglio gli stranieri, o che ci aveva avuto rapporti in Italia. Pensava che se ci fosse stato da combattere, questa volta non era a fianco dei francesi o degli inglesi, ma di chi aveva una vita come la nostra, e adesso, come noi, doveva difendersi quel che aveva creato. Quando ci sarà la guerra, questo contatto autentico tra popolo e popolo diventerà ancora più diretto e più intimo.

I rapporti ufficiali italo-tedeschi avevano preso consistenza nel 1936. Una coincidenza di interessi, e anche di posizioni tra Italia e Germania s’era verificata già con la pace del 1919. Allora i tedeschi vinti dovettero subire il diktat, ma gl’italiani che erano tra i vincitori si videro contendere o minimizzare i risultati della vittoria. Gli è che la stessa diffidenza, la stessa ostilità per le due nazioni giovani, per le due nuove forze europee, tendeva a strangolare la Germania al centro del Continente e a sbarrare all’Italia le strade dell’espansione mediterranea e africana.

Postisi i due Stati su un nuovo piano di potenza, se si accentuarono quella diffidenza e quell’ostilità, doveva inevitabilmente accentuarsi la loro amicizia.

Quando si parla di opinione pubblica, si parla di qualcosa che non si forma spontaneamente, sulla base del senso comune o delle esperienze e percezioni individuali, per così dire sommate e mescolate a formare l’insieme della vita sociale; ma di qualcosa che viene sostanzialmente creata e continuamene alimentata dai mass-media, i quali, sia negli Stati autoritari, sia in quelli democratici (cambiano solo le forme, e non sempre quelle dei secondi sono più garbate o più oneste) sono in ultima istanza controllati dal potere: quello politico negli stati autoritari, quello finanziario in quelli democratici, nei quali solamente le forme esteriori del governo vengono esercitate dai parlamenti e dai governi. Ma è evidente che, se l’opera di persuasione occulta viene svolta sempre, e più sottilmente nei sistemi democratici (dunque con minori possibilità di difesa da parte del pubblico, che non si accorge d’essere manipolato), essa è necessaria e indispensabile nei sistemi politici autoritari, a meno d’immaginare un anacronistico ritorno alle dittature classiche o alle monarchie assolute, nelle quali il consenso dell’uomo medio (ammesso che questa espressione abbia un qualche significato) non è necessario, non è richiesto e anzi non è neppure desiderato, poiché il consenso di oggi potrebbe trasformarsi nel dissenso di domani. La decisione, da parte di un regime autoritario, di affrontare una grande guerra, che mette alla prova tutte le energie della nazione e perfino, in prospettive, le sue possibilità di sopravvivenza come realtà indipendente e sovrana, ovviamente accresce, e di molto, tale bisogno di controllo sull’informazione, al fine di convincere la popolazione dell’assoluta ineluttabilità di quel passo. Infatti, in condizioni normali, la gente non capisce una decisone così estrema se non esistono delle buone ragioni per prenderla, o, il che in pratica è la stessa cosa, se essa non arriva a percepirle, a comprenderle, ad accettarle e a farle proprie, compresi i sacrifici che inevitabilmente ne deriveranno. E ciò vale non solo per la decisone di entrare in guerra, ma anche per quella di sottoscrivere un’alleanza internazionale che presumibilmente può condurre ad una guerra. Le due cose dovrebbero essere logicamente consequenziali: non si stringono alleanza che possano condurre alla partecipazione a una grande guerra, se tale eventualità non sia stata prima valutata e messa in conto come possibile e perfino inevitabile, ma in ogni caso coerente con gl’interessi vitali della propria nazione. Che un grande Stato stringa un’alleanza politica e militare con un altro grande Stato, sapendo che ciò può condurre alla guerra, o affrettarla, contro una coalizione assai potente di altri grandi Stati, senza rendersi conto di quel che sta facendo e delle conseguenze possibili o probabili dell’alleanza stessa, è un’eventualità talmente assurda, talmente impensabile, che non varrebbe neanche la pena di contemplarla, almeno se siamo tutti d’accordo che la politica è una cosa seria, e la politica internazionale non lo è da meno, per cui è assurdo che essa sia lasciata nelle mani d’incapaci o d’irresponsabili. E ciò è vero, o dovrebbe essere vero, in misura ancor più forte se si tratta di un regime politico autoritario: perché l’entrata in guerra e l’eventuale sconfitta segnano certamente la rovina e la caduta irrimediabile di un simile regime, mentre per un sistema democratico le cose stanno altrimenti, perché in democrazia tutti sono responsabili di quel che avviene, ma in un certo senso non lo è nessuno. E dunque nulla vieta che gli stessi politici, lo stesso parlamento e in sostanza lo stesso governo che hanno trascinato il Paese in guerra e nella sconfitta, possano poi gestire la fase dell’armistizio, della ricostruzione e il nuovo corso della politica estera, evidentemente condizionato dai diktat dei vincitori.

Le riflessioni di Bruno Spampanato ci paiono straordinariamente lucide e oneste. I mass-media erano e sono controllati dal potere finanziario: era logico perciò che sia nel 1915, sia (più cautamente, per ovvie ragioni contingenti) facessero la fronda all’alleanza con la Germania e intimamente parteggiassero per le democrazie occidentali, in effetti per la massoneria franco-inglese, alla quale erano associati o legati tanti industriali, banchieri, generali, ammiragli e perfino ministri italiani, sia nel 1915 che nel 1940. Le istintive simpatie o antipatie del popolo italiano c’entrano poco o nulla. Tali simpatie e antipatie erano orchestrate dalla stampa e dalla propaganda, per cui, in ultima analisi, il "popolo", ma si dovrebbe invece dire l’opinione pubblica, non sentiva né pensava in maniera istintiva, ma in maniera indotta. E nonostante ciò, forse per la limitata diffusione, allora, dei mezzi d’informazione, è tutto da vedere se la maggioranza dell’opinione pubblica fosse davvero filo-inglese e filo-francese, e anti-tedesca. Probabilmente è vero il contrario, o lo è, specie nel 1940, soprattutto se si parla propriamente del popolo italiano. Il popolo lavoratore, gli emigranti che avevano lavorato in Germania, avevano imparato a stimare e rispettare quel grande popolo, dove chi lavora seriamente viene a sua volta rispettato, anche se proveniente da fuori (il che non si può dire in egual misura di quello inglese e soprattutto quello francese): un popolo colto, che leggeva (e legge) molti più libri dell’italiano; un popolo con un forte senso patriottico e un altrettanto forte senso del diritto. E dell’equità. Una delle cose che più stupirono i tedeschi, ad esempio quelli dell’Afrika Korps, allorché si trovarono a combattere a fianco degl’italiani fu vedere che nel nostro esercito c’erano tre mense distinte, anche in prima linea: una, ottima, per gli ufficiali, un’altra, buona anch’essa, per i sottufficiali, e la terza, assai scadente, per la truppa. Da loro la mensa era unica: e i generali mangiavano esattamente le stesse razioni dell’ultimo soldato semplice. Cose da noi inconcepibili, per i tedeschi erano invece normalissime.

C’è poi da tener presente un altro fatto: che la propaganda dei mass-media, del cinema, dei fumetti, dopo la Seconda guerra mondiale ha proiettato retroattivamente sui tedeschi sconfitti, e colpevoli (collettivamente) del "più grande crimine della storia", un’antipatia che è stato costruita a beneficio dei vincitori (i buoni, bravi e disinteressati "liberatori" anglosassoni), ma che nel 1940 non esisteva.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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