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8 settembre, il tradimento che ancora ci pesa addosso

Quanto vale una persona? Così, di primo acchito, viene voglia di rispondere: quanto vale la sua parola. Non sappiamo che farcene di persone che dicono una cosa, la promettano, la giurano, e poi non solo non la fanno, né mantengono la parola data, ma fanno esattamente il contrario di ciò che avevano detto, assicurato e spergiurato, magari senza esserne stati neppure richiesti, ma così, per mostrare tutto il loro zelo, la loro sollecitudine, la loro indefettibile lealtà. Una persona che non è di parola, che manca alla parola, che tradisce le più sacre promesse, non è solamente una persona che vale poco: è una persona che non vale nulla. Una persona è tutt’uno con la propria parola e deve avere una parola sola: sì, sì e no, no: il resto viene dal diavolo. Persone che hanno una parola per la domenica e un’atra per il lunedì, o magari una per la mattina e un’altra per la sera, non servono a nulla: ingombrano il campo, confondono la gente, perturbano l’ordine sul quale si fondano la fiducia e il rispetto fra gli esseri umani. Una persona priva di parola è priva di qualsiasi credibilità e dovrebbe essere riguardata per quello che realmente è: un ciarlatano, un buffone, un individuo privo di qualunque senso di dignità e di rispetto per se stesso, oltre che nei confronti degli altri. La società non ha bisogno di simili individui: più ce ne sono e peggiore è quella sfortunata società. Infatti una società sana nutre la massima stima per chi ha una parola sola; se invece essa apprezza e onora i voltagabbana e gli spergiuri, ciò significa che quella società è marcia, divorata da un cancro interno che la sta portando allo sfacelo, per quanto esso sia magari ben dissimulato sotto splendide vesti e un trucco invidiabile. Ma il cancro c’è, e presto o tardi finirà per degenerare in metastasi; e quella società è condannata a perire, schiacciata sotto il peso della propria inconsistenza, della propria vacuità, della propria bassezza morale. Una società non sopravvive, né va lontano, se i suoi membri, o peggio ancora, quelli che vi svolgono delle funzioni dirigenti, sono degli individui senza parola. Essere senza parola significa essere senza onore; e chi è senza onore non bada al bene pubblico, ma solo a coltivare i propri interessi, il proprio portafogli e la propria carriera. Gente bassa e vile, che non possiede un’ombra di senso etico e che si vende sempre al migliore offerente; gente che porta alla catastrofe quelli che hanno l’ingenuità, o piuttosto la stupidità, di fidarsi di lei e di consegnarle la responsabilità del proprio futuro.

Ma che succede se un’intera classe dirigente, i rappresentanti delle più alte istituzioni politiche e militari, il monarca regnante, il suo primo ministro, calpestano tutti insieme la parola data a un altro Stato, e lo fanno nel bel mezzo di una guerra durissima, nella quale si gioca la sopravvivenza di entrambe le nazioni, per chissà quanto tempo a venire? Che succede se la classe dirigente di un grande Paese tradisce da un giorno all’altro, da un momento all’altro, ciò che aveva promesso e assicurato nella maniera più solenne? È quel che accadde in Italia la sera dell’8 settembre 1943, allorché la radio — prima per bocca del generale Eisenhower, e solo un’ora dopo per bocca del generale Badoglio — dichiarò al mondo stupito, e agli italiani ancor più stupiti, che da quel momento la guerra contro gli angloamericani era finita con la richiesta di resa dell’Italia, che era stata accettata. Fino a poche ore prima sia il re, Vittorio Emanuele III, sia il capo del governo, il generale Badoglio, avevano assicurato i loro interlocutori tedeschi che la guerra continuava e che l’Italia avrebbe marciato al fianco dell’alleata Germania sino alla fine. Badoglio, in particolare, aveva gettato sulla bilancia la sua parola di soldato e il suo onore personale, dichiarando lui stesso che, se avesse avuto l’intenzione di staccarsi dall’alleanza per chiedere la resa agli Alleati (ma alleati di chi?, non certo nostri, ché anzi erano i nemici: ecco come il linguaggio, imposto dalla vulgata dei vincitori, tende a confondere le cose, fuorviando l’immaginario collettivo) non avrebbe lasciato le città italiane esposte ai crudeli bombardamento aerei che le stavano distruggendo (e che infatti proseguirono anche mentre le segrete trattative d’armistizio erano in pieno svolgimento). In altre parole, quel vile personaggio non si vergognò di strumentalizzare quei poveri morti, inermi ed inutili (dal punto di vista politico e militare), per convincere i tedeschi che non era in atto alcuna manovra di sganciamento dalla Germania da pare dell’Italia. Mai uno statista, il capo del governo di una nazione civile, era sceso così in basso, da servirsi dei connazionali morti per la sua incapacità di gestire un armistizio segreto, per ingannare meglio il proprio alleato: se è vero, come è vero, che in Sicilia i tedeschi si erano battuti egregiamente, come sempre, disputando l’isola al nemico palmo a palmo, mentre gli italiani, che dopotutto difendevano il suolo della loro Patria, si erano sbandati quasi subito, e i comandanti avevano consegnato le migliori piazzeforti — Pantelleria, Augusta — praticamente senza sparare un colpo delle loro poderose artiglierie. C’è un limite anche alla doppiezza e al machiavellismo, o almeno dovrebbe esserci: un limite imposto, se non dal senso dell’onore, che evidentemente chi non lo possiede non se lo può inventare, quantomeno dal senso della decenza e del pudore. Badoglio era quello che, a Caporetto, responsabile numero uno della nostra catastrofica sconfitta (sue erano la artiglierie che avrebbero potuto prendere d’infilata gli attaccanti austro-tedeschi, e invece rimasero inesplicabilmente mute, e caddero nelle mani del nemico con tutti i parchi delle munizioni intatti: una costante, a quanto pare, della nostra storia militare nelle due guerre mondiali), era scappato sbarazzandosi perfino del berretto, per fuggire più lesto; così come, all’alba del 9 settembre, fuggì da Roma con la scusa di mettere in salvo il sovrano e la famiglia reale, mentre era lui ad aver perso la testa e ad agire sotto l’impulso di una paura fisica che rasentava il terrore (se ci prendono i tedeschi, aveva detto a quelli del seguito, e aveva fatto il gesto di passarsi il taglio della mano all’altezza della gola), con le maniche della giacca rimboccate, così da nascondere i gradi. Miserando spettacolo: e intanto quasi un milione di sodati, non solo in Italia ma in mezza Europa, dalla Francia alla punta della Grecia e alle isole dell’Egeo, restavano abbandonati a se stessi, senza ordini né direttive, esposti alle rappresaglie dell’ex alleato, furioso nel vedersi tradito e abbandonato.

Così rievoca quelle giornate disonorevoli e umilianti il giornalista Bruno Spampanato nel suo Contromemoriale (Roma, Centro Editoriale Nazionale, 1974, vol. 2, pp. 355-56; 360-62):

Che ai primi di settembre Guariglia, ministro degli Esteri, avesse dichiarato al rappresentante tedesco a Roma, dottor Rahn, che «assolutamente il governo Badoglio era deciso a non capitolare e a continuarla guerra a fianco della Germania», poteva esser vero. Anzi, per la fonte da cui l’appresi, era senz’altro vero. È anche vero che il giorno 3 il Maresciallo in persona ripeté allo stesso Rahn: «Io sono il Maresciallo Badoglio e vi convincerò coi fatti che non era giusto non aver fiducia in me», e che il giorno dopo il Capo di Stato Maggiore Generale, sempre a Rahn, riaffermò l’incondizionata fedeltà militare dell’Italia all’alleata Germania.

Vero. Verissimo. E d’altronde buttarsi dall’altra parte significava la guerra non più limitata all’estremo lembo della penisola, ma in tutto il paese. E anche lo scontro tra tedeschi e "alleati" sul territorio italiano. Chi in queste condizioni avrebbe pensato a un tale salto nel buio?

Ormai, più che di vere battaglie sul fronte italiano si poteva parlare di un’avanzata nemica più o meno contrastata. Ma non s’era attenuata l’offensiva aerea. Era diventata più pesante proprio da agosto. Nel colloqui del 29 agosto con l’addetto militare von Rintelen, il Maresciallo Badoglio, a sostegno dell’affermazione che «la guerra continua», gli aveva spiegato: «Se l’Italia non volesse essere a fianco del suo alleato, sarebbe delittuoso far distruggere intanto le sue città». (…)

Il comunicato del Maresciallo dice che Eisenhower ha accolto la richiesta di armistizio e che ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane.

«… esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza».

Viene subito da pensare che l’alleata Germania sia stata colta di sorpresa se Badoglio ammette implicitamente "eventuali attacchi", e dà ordine di reagirvi. Se ci fosse stato il minimo concerto con gli alleati tedeschi – tali fino a quel momento — non c’era da temere attacchi. Né ci potevano essere stati passi in quel senso — cioè di un armistizio — se fino a quel giorno 8 settembre s’era in ogni modo confermata la continuazione della guerra. Anzi a mezzogiorno dell’8 settembre il Sovrano ha dichiarato, proprio lui, a Rahn, che «l’Italia non capitolerà mai» e che è decisa a «continuare fino alla fine la lotta al fianco della Germania». Questo Rahn lo telegrafa a Berlino. Ma possibile che il vecchio Sovrano si sia fatto portare sin lì? Non è più per noi questione di rancore per il colpo di Stato. È una cocente dolorosa umiliazione per questa stupida commedia.

Perché non dirlo ai loro generali, a Tarvisio o a Bologna, perché non farlo dire al Führer?

Non discutiamo quello che è passato, ma ora da soli non si va più innanzi. Divisioni ne abbiamo, ma non bastano gli uomini, mezzi ci occorrono, artiglierie, apparecchi, si tratta di dare una spallata al nemico e bisogna darla insieme, finora siamo stati il paraurti per la Germania meridionale, abbiamo rappresentato la distanza tra le basi aeree dell’Africa e le città tedesche, ma adesso bisogna aiutarci, nessuna alleanza prevede l’estremo sacrificio per l’alleato… Perché non dirlo questo? Se aiutarci è ancora possibile. O altrimenti vediamo come ci si possa sganciare dalla guerra, noi Italia col minor danno e forse voi tedeschi, con vantaggio futuro. Perché non dirlo ai nostri alleati? Questo è il discorso che si poteva, che si doveva fare al Feldmaresciallo Keitel, al Feldmaresciallo Rommel, al Feldmaresciallo Kesselring, al generale Jodl, all’addetto militare von Rintelen, al dottor Rahn. Questo poteva e doveva dire il generale Marras a Hitler. Il messaggio del Maresciallo Badoglio al Führer appena insediato il nuovo governo, il 28 luglio, sembrava autorizzasse un discorso del genere. Badoglio aveva telegrafato a Hitler: «Come già dichiarato nel mio proclama agli italiani, ufficialmente comunicato al vostro ambasciatore, la guerra per noi continua nello spirito dell’alleanza. Tanto tengo a confermarvi con la preghiera di voler ascoltare il generale Marras che verrà al vostro Quartier Generale da me incaricato di una particolare missione per voi». Gli stessi proclami del Sovrano e del nuovo Capo del Governo, la sera del 25 luglio, dovevano far supporre una leale presa di posizione con la Germania. In quello di Vittorio Emanuele III si parlava di "fede" e di "combattimento"; e ancora: «nessuna deviazione deve essere tollerata…». (…)

«L’Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue tradizioni millenarie», aveva proclamato il Maresciallo. Che poi, come si dirà in seguito, i due proclami li avessero stesi il Re e Vittorio Emanuele Orlando, e che il Sovrano al nuovo Capo del Governo avesse fatto trovar pronto quello suo, conferiva maggiore e più ponderata importanza all’affermazione. La parola data. Su questo nostro popolo la storia scivola, è vero, ma per istintiva umanità più che per ragionamento morale alcuni concetti come quello dell’onore, fanno ancora presa. La parola data. Il 28 luglio Badoglio aveva telegrafato a Hitler. Il 28 luglio il Feldmaresciallo Kesselring si sente ridire che si marcerà insieme fino in ultimo. Se lo sente ridire dal Sovrano, dal Capo di Stato Maggiore Generale Ambrosio, dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Roatta. Fino alle 19 dell’8 settembre, la parola data.

Ma, si dirà, il punto di vista di Bruno Spampanato è decisamente di parte. Fascista convinto e fedele a Mussolini fino all’ultimo, cioè fino al 25 aprile del 1945 (e non fino al 25 luglio del 1943, come tanti altri che aspettavano solo il momento buono per saltar già dalla nave in procinto di affondare), nonché uno dei principali principale estensori del Manifesto di Verona, la costituzione della Repubblica Sociale, vale a dire fascista impenitente e perciò imperdonabile, che non ha mai rinnegato la sua fede, neanche negli anni successivi alla conclusione della tragedia italiana, è chiaro che ha tutto l’interesse a sottolineare errori e deficienze di Badoglio, il cui compito — portare l’Italia fuori dalla guerra — non era obiettivamente facile. Noi siamo di diverso avviso, per la semplice ragione che il senso dell’onore, e specialmente dell’onore militare, non è di destra o di sinistra, fascista o antifascista: c’è o non c’è. Gli Angloamericani, che pure non esitarono a servirsi dei servigi della mafia per agevolare lo sbarco del loro esercito in Sicilia, intimamente non provavano che disprezzo sia per lui, sia per il re, il quale dopo aver approvato e sottoscritto per vent’anni tutte le iniziative del Duce, l’aveva scaricato e addirittura fatto arrestare come un malfattore (in casa sua!, a proposito di senso dell’onore) quando le cose si erano volte al peggio.

Altra obiezione: il popolo italiano non aveva mai approvato l’alleanza con la Germania, né l’avevano approvata il re e Badoglio. Davvero? E perché dunque non avevano parlato chiaro? Perché il re aveva ceduto al Duce il comando effettivo delle forze armate, e Badoglio non si era subito dimesso?

Così agiscono le persone che hanno il senso dell’onore e possiedono una parola sola: parlano chiaro.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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