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14 Febbraio 2022Ci siamo domandati tante volte con quale stato d’animo, con quali idee, con quali speranze e con quali timori il popolo italiano visse i giorni in cui si decise il suo destino e quello della Patria con l’entrata nella Seconda guerra mondiale al fianco dell’alleato tedesco e contro le potenze occidentali, decisione che ebbe come conseguenza il crollo del fascismo e lo stabile asservimento dell’Italia alla plutocrazia anglosassone. Abbiamo sempre pensato che nel quadro tradizionale diffuso per settant’anni dalla vulgata ufficiale, secondo il quale il popolo italiano era turbato, sgomento e in ogni caso decisamente contrario, ci sia una buona dose di tendenziosità, per non dire di falsificazione, specie se si fa il confronto con quanto accadde nell’opinione pubblica durante i mesi del 1915 che precedettero l’ingresso nella Prima guerra mondiale, per i quali la maggior parte degli storici adopera un altro metro e un’altra misura. Per rispondere a quell’interrogativo, fra le altre voci abbiamo preso nota di quella di un testimone privilegiato, un bravo giornalista che aveva conoscenze in tutti gli ambienti sociali e istituzionali, oltre che all’estero, e che visse quei giorni, come tutti, in uno stato di profonda incertezza, per poi parlarne, sine ira et studio, a guerra finita, in uno scritto autobiografico non che non vide però la luce se non moltissimo tempo dopo, e che egli andava scrivendo quasi più per sé stesso, per chiarire le proprie ragioni e le proprie scelte, più che per giustificarsi o per dotarsi d’improbabili e tardive patenti di antifascismo, come allora era assai di moda presso tanti ex fascisti sfegatati.
Figura interessante, intellettualmente e umanamente dignitosa, quella di Aldo Valori (Firenze, 6 giugno 1882- Pisa, 5 dicembre 1965), scrittore e giornalista, inviato speciale fra i migliori degli anni ’30 del secolo scorso, nonché esperto di cose militari. Fascista, ma prima di tutto cattolico e uomo coerente, la sua personalità spicca nel grigiore di tanti giornalisti tesserati e chiassosi, ma di scarso talento, che allora andavano per la maggiore; autore, dapprima, di libri per bambini, passò poi al pubblico adulto e scrisse alcuni ottimi saggi storico-militari, come La guerra italo-austriaca, 1915-1918 (Zanichelli, 19320) e La guerra dei tre Imperi: Austria, Germania e Russia, 1914-1917 (Zanichelli, 1925), chiari, precisi, obiettivi. Diresse per vent’anni, dal 1923 al 1943, la redazione romana del Corriere della Sera e fu segretario del Sindacato unico fascista dei giornalisti. Entrata l’Italia nella Seconda guerra mondiale, fu incaricato di commentare quotidianamente le vicende belliche per conto dell’EIAR, l’ente radiofonico di Stato fino a quando, nell’aprile del 1941, venne "silurato" e sostituito nell’incarico, forse perché le sue trasmissioni erano giudicate troppo pacate e prive di mordente. Durante il fascismo aveva fatto una discreta carriera, ma non era mai stato particolarmente nelle grazie del Ministero della propaganda; caduto il fascismo, si tenne decorosamente ai margini della scena, astenendosi dall’infierire contro di esso e dal tentare in alcun modo d’ingraziarsi la parte vincente. Torna anche a suo onore il non aver rinnegato nulla e aver preferito un dignitoso isolamento alla smania indecente dei tanti suoi colleghi che vollero rifarsi una verginità democratica vomitando fiele contro la memoria di Mussolini. Dal 1945 al 1946 iniziò a scrivere le sue memorie, poi le lasciò interrotte, per lo sconforto che l’impresa gli provocava; affidò ai figli il compito di pubblicarle un giorno, cosa che avvenne più mezzo secolo dopo, e vent’anni dopo la sua morte.
Scriveva dunque nelle sue memorie (Aldo Valori. Il fascista che non amava il regime, a cura di Valentina Tonelli Valori, Roma, Editori Riuniti, 2003, pp. 301-303):
Qual era lo stato d’animo degli italiani nel maggio e nel giugno del 1940? Bisognerebbe che ciascuno facesse, se ne è capace, un esame di coscienza. Più tardo, 45 milioni di italiani, compresi i poppanti, sono stati pronti a giurare che fin dal principio «non avevano voluto la guerra». Ma è proprio vero?
È vero se per «volere la guerra» si intenda avere un chiaro, fermo e consapevole proposito, e se si assume questo proposito, come risultato di lunghe meditazioni e di opinioni ben precise, nonché di una conoscenza esatta della situazione politica e militare. In questo senso si può dire che nessuno abbia propriamente «voluto» la guerra. Ma esiste pure uno stato d’animo intermedio, non così deciso, né così esplicito, né consapevole, che è difficile descrivere e che pure costituisce , in certi casi, un ambiente favorevole o non del tutto contrario alle deliberazioni bellicose d’un governo intraprendente.
Fatto sta che nel maggio, o più ancora nel giugno del 1940 quasi nessuno «voleva» esplicitamente la guerra, ma non v’era più quella compattezza che fino a poco prima poteva opporre, se non altro, un ostacolo morale a quei pochissimi che la volevamo.
Le vittorie tedesche, e il modo spettacolare in cui erano state ottenute, avevano colpito l’immaginazione, se non il sentimento. Oggi tutti fingono di essersene dimenticati, ma sarebbe onesto richiamarsi alle impressioni d’allora.
L’antipatia per il tedesco non era diminuita, ma si accompagnava con una buona dose di ammirazione. L’idea che all’Italia convenisse approfittare dell’occasione per risolvere certi suoi problemi cominciava ad apparire non più tanto assurda com’era sembrata in antecedenza,.
L’illusione di Mussolini che la guerra precipitasse al suo epilogo non fu un caso isolato. La profezia che la "democrazie" fossero in via di liquidazione cominciava a farsi strada in parecchi Chi lo nega mentisce e ha interesse a mentire, forse perché anche lui è stato tra quei parecchi!
Ricordo, anzi, che allora si ebbe questo fenomeno strano. Proprio coloro i quali, come me, provenendo dal vecchio "triplicismo", erano stati all’inizio favorevoli all’intesa con la Germania (sia pure con le necessarie precauzioni e riserve), coloro che non avevano nessuna simpatia intellettuale con le democrazie ed avevano sempre visto nella Francia un grave ostacolo alla futura espansione dell’Italia, proprio costoro dovevano sentirsi fermamente ostili all’ipotesi di un intervento in guerra del nostro paese in quel momento.
Quanto a me la sola idea di una sconfitta italiana mi faceva raccapricciare. Quest’idea non contraddiceva affatto la probabilità, in cui allora molti credevano, di una definitiva vigoria [sic] tedesca. Non si poteva ripetere la vergogna del 1866? E con quanta diversità di proporzioni, di danni materiali e morali, dato l’enorme impegno che porta, in tutti i campi, una guerra moderna in confronto a quella del secolo scorso.
Ero dunque assolutamente ostile al nostro intervento nel conflitto, non già per una questione di principio, ma per la conoscenza dell’estrema gravità della prova alla quale l’Italia sarebbe stata sottoposta, in condizioni non favorevoli.
Vedevo anche il pericolo d’affrontare quella prova, con un paese spiritualmente diviso. Pensavo che a molti italiani la sconfitta potesse apparire desiderabile come una liberazione. Questo pensiero mi appariva mostruoso, ma non potevo scacciarlo. La pratica dimostrò che esso corrispondeva ad una triste realtà, tipicamente italiana.
Non si è visto e sentito più tardi un uomo come Benedetto Croce vantarsi pubblicamente d’avere atteso con ansioso desiderio la sconfitta dell’Italia per cacciare il fascismo? E quanti altri si sono affrettati a fargli eco per vantare quello stato d’animo, come motivo d’orgoglio e quasi di benemerenza?
L’attacco tedesco al Belgio e all’Olanda, condotto con diabolica violenza, rapidità e fortuna, aveva dimostrato anche agli increduli che l’esercito tedesco del 1940 era assai superiore a quello, pure ottimo, del 1914. (…)
Vi fu un momento in cui Hitler apparve un grande uomo anche ai più fieri avversari del nazismo e del suo capo.
Gli antifascisti nostrani non nascondevano la loro ammirazione, magari compiacendosi di confrontare le alte doti strategiche del Führer con quelle, così impallidite, di Mussolini.
In un’altra pagina Aldo Valori ha avuto l’onestà intellettuale di ammettere che l’Italia, contrariamente a quel che dicono o suggeriscono gli storici politcally correct, nel 1939-40 aveva ben pochi margini di manovra, e che ben difficilmente avrebbe potuto rimanere fuori dal conflitto, se non altro perché la Germania, se vittoriosa, avrebbe potuto poi farle pagare il mancato rispetto dell’alleanza; e anche, aggiungiamo noi, perché nelle alte sfere finanziarie dell’Occidente, dove in realtà tutto era già stato deciso da tempo, la distruzione dell’Italia era già stabilita, e ciò perfino indipendentemente dal fascismo. Cosa che poi è divenuta evidente, ma con mezzi diversi dalla guerra, nel 1992, allorché a bordo del panfilo Britannia fu decisa l’eliminazione del colosso economico italiano e di quel poco che restava della sua sovranità politica: e anche allora, come nel 1940, ciò è stato reso possibile dall’esistenza di una classe dirigente di carrieristi, di corrotti e di traditori, pronti a vendere gl’interessi vitali della nazione in cambio dei trenta denari di Giuda. Sicché, nel maggio-giugno del 1940, tanto valeva giocare d’anticipo e tentare il tutto per tutto, quando le condizioni erano ancora relativamente favorevoli, o almeno non del tutto sfavorevoli, visto che l’Italia possedeva, se non altro, un marina di tutto rispetto, e il consenso verso il regime era, checché se ne sia detto poi, ancora ampio e convinto. Purché, beninteso, si fosse fatta la guerra sul serio, e non per finta, profittando del fatto che la Mediterranean Fleet era sul punto di uscire dal Mediterraneo per non restarvi imbottigliata (la squadra di Alessandria attendeva di ora in ora l’ordine di salpare per il Canale di Suez: se non lo fece, fu perché la nostra flotta non si mosse e la magnifica occasione andrò sprecata) e che un colpo deciso su Malta avrebbe cambiato radicalmente, a nostro favore, lo scacchiere strategico di quel mare. E un’altra ragione che toglieva all’Italia spazio di manovra per una politica di neutralità era la dipendenza della nostra economia dalle importazioni di materie prime: talché le due parti in guerra, ma soprattutto il blocco anglo-francese, erano in grado di strangolare l’Italia senza nemmeno bisogno di combattere, e di fatto avevano già incorniciato a farlo.
Piuttosto Valori, che si mostra abbastanza equanime nel giudicare la politica di Mussolini, pur indulgendo ai soliti luoghi comuni sul suo carattere indeciso ed impulsivo al tempo stesso, rimprovera al Duce, e in questo ha ragione, la penosa impreparazione militare del Paese: perché, dopo aver tanto fatto per guadagnare all’Italia il rango di grande potenza (il che, teoricamente, venne raggiunto con la firma del Patto Tripartito, a pari dignità con la Germania e il Giappone, il 27 settembre 1940), arrivare al momento decisivo con le forze armate totalmente impreparate è davvero una responsabilità storica imperdonabile. D’altra parte, la guerra d’Africa e l’intervento in Spagna avevano inciso, e non poco, specie nel consumo di benzina, munizioni e materiale rotabile: ma le pecche della nostra preparazione militare erano di carattere strutturale, e a ragione il Valori lo fa notare. Il mancato coordinamento tra le varie forze armate, specialmente fra la marina e l’aviazione; la mancanza di addestramento notturno per gli equipaggi delle navi, per non parlare del fatto di non avere il radar, il che voleva dire mandare le navi alla cieca, specie di notte o con la nebbia (deficienza che sarebbero tragicamente emerse nella notte di Capo Matapan); l’assenza di portaerei e il magro parco di aerosiluranti, nonché la carenza di sommergibili moderni ed efficienti, specie per la navigazione oceanica; l’inconcepibile mancanza di carri armati pesanti e, più in generale, la miopia di non concepirne l’impiego in piccole ma forti unità d’attacco, capaci di agire anche a massa; in altre parole: l’obsolescenza dei comandi, peraltro pletorici, con un numero spropositato di generali e di ammiragli, i quali non si erano mai dati la briga di studiare seriamente le lezioni della Prima guerra mondiale e neppure quelle del Blitzkrieg del 1939-40, e adesso si presentavano all’appuntamento decisivo con la stessa mentalità di allora, ossia con dei concetti tattici e strategici totalmente sorpassati.
Di ciò Mussolini era certamente almeno in parte responsabile, visto che aveva avocato a sé sia i ministeri militari, sia il comando nominale delle forze armate (che per statuto spettava al re), senza possedere la cultura necessaria e commettendo il grave errore di promuovere generali mediocri e ammiragli dalla dubbia fedeltà patriottica (perché massoni e perciò inguaribilmente filo-inglesi). E quale colpa più grave per un dittatore, che non essersi saputo circondare di uomini fedeli e al tempo stesso competenti nelle cose militari? Anzi, di essersi volutamente circondato di personaggi mediocri, ambiziosi e venali, ma sostanzialmente incompetenti oltre che amorali, godendo dei loro litigi da pollaio, perché in tal modo nessuno potesse fargli ombra? E se qualcuno gli dava un po’ombra, o era in grado di farlo, come l’eroe dell’aria Italo Balbo, ecco pronto il trasferimento in una funzione ed in un luogo dove non gli potesse più recare alcun disturbo, nella fattispecie come governatore della Libia. Tutte debolezze, queste, che non erano solo del regime, ma necessariamente lo erano anche dell’apparato politico, diplomatico e militare della nazione: lo si sarebbe visto, e pagato in lacrime e sangue, nel corso della guerra, e più ancora al momento della resa dei conti, il 25 luglio del 1943.
Tuttavia l’osservazione più acuta e pertinente di Aldo Valori riguarda la responsabilità collettiva del popolo italiano. La vulgata politically correct ha sempre assolto da ogni colpa il popolo italiano, presentandolo anzi come vittima dell’incoscienza e dell’improvvisazione di un regime di cartapesta. Tale, ad esempio, l’interpretazione di quegli anni da parte di un giornalista che poi è andato sempre più per la maggiore, Luigi Barzini junior, in opere come Gli italiani. Virtù e vizi di un popolo, il quale con un tono di finta sincerità ed equanimità, e soprattutto di pensosa e superiore saggezza, ha scritto quel che in fondo tutti volevano sentirsi dire: che ogni colpa ricadeva sul dittatore. Inutile dire che siffatti Soloni, specializzati dal senno del poi, avrebbero cantato una musica ben diversa se la guerra fosse finita altrimenti: perché con la stessa sicumera avrebbero sorvolato su ogni difetto e manchevolezza, per cantare le lodi sperticate del Duce antiveggente e "provvidenziale", grazie ai soli meriti del quale l’Italia si era accaparrata un ruolo di prima grandezza nel consesso internazionale e aveva assicurato al suo popolo un’era di prosperità e di progresso civile. Aldo Valori evidenzia il più grave difetto del carattere nazionale: la mancanza di coesione e la tendenza di molti, di troppi, a parteggiare per il nemico esterno, pur di vedere abbattuto l’odiato nemico interno, anche se ciò dovesse comportare la caduta e la rovina della Patria. L’esempio di Benedetto Croce, modesto filosofo che nondimeno ha imperversato per oltre un cinquantennio nelle aule universitarie, imponendo il suo debole pensiero come una sorta di nuovo vangelo speculativo, è in tal senso illuminante. Come può un filosofo degno di tal nome vantarsi di aver sempre desiderato la sconfitta della propria Patria? In qualunque altro Paese, un simile contegno gli sarebbe valso l’eterno e meritato disprezzo della maggioranza della gente: da noi no. E quel sempre significa che egli, come tanti altri, e purtroppo anche come certi generali e ammiragli, industriali e finanzieri, ministri e responsabili dell’informazione, si auguravano la sconfitta dell’Italia sin dal 10 giugno del 1940: o meglio, vedevano proprio nella decisone di Mussolini di entrare in guerra l’inizio della realizzazione delle loro speranze e delle loro lungamente meditate vendette. Come poi si vide nell’orribile mattanza dei vinti, dopo il 25 aprile del 1945, quando alcune decine di migliaia di fascisti, ormai disarmati, vennero trucidati senza alcun processo e spesso senza una tomba per poterne identificare i resti.
Infine, ma non ultimo merito dell’analisi del Valori, l’aver ricordato che nel maggio-giugno del 1940 quasi tutti, e non solo in Italia, erano persuasi della prossima vittoria tedesca e molti, che pure lo avevano detestato, arrivarono a concepire una sorta di stupita ammirazione nei confronti di Hitler, al quale si doveva in buona sostanza il piano strategico sia dell’invasione della Norvegia, sia della sconfitta della Francia. E non parliamo dei comunisti, i quali, l’indomani (alla lettera e non per modo di dire: proprio l’indomani) della firma del patto russo-tedesco del 23 agosto 1939, per ordine di Stalin avevano smesso di parlar male di Hitler, riversando tutta la loro avversione proprio contro le nazioni capitaliste dell’Occidente, la Francia e la Gran Bretagna. A quel punto, che senso aveva criticare Mussolini per aver individuato in esse il vero nemico storico dell’Italia, che le impediva di crescere, di espandersi e conquistarsi il suo posto nel mondo?
In conclusione. Solo quando gli storici cominceranno ad essere più onesti (un primo passo avanti si è visto con l’opera di Renzo De Felice: ma bisogna fare di più e andare oltre, senza alcun rispetto né alcuna soggezione verso i tabù e i feticci della vulgata resistenziale, massonica e comunista), e il popolo italiano saprà fare i conti onestamente con la propria storia e il proprio passato, apparirà che la guerra del 1940 era sulla linea risorgimentale e si può considerare come la quinta guerra di indipendenza, così come quella del 1915 era stata la quarta. Ma l’abbiamo perduta, e malamente; mentre al popolo italiano piace sentirsi dalla parte del vincitore, mai dello sconfitto. Anche a costo di fare il tifo contro se medesimo, i suoi uomini più generosi e lungimiranti e i suoi interessi vitali…
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