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9 Febbraio 2022Quando la folla si raccolse sotto il balcone di Palazzo Venezia, a Roma, il 10 giugno del 1940, per ascoltare dalla voce di Benito Mussolini l’annuncio che l’Italia era entrata nella Seconda guerra mondiale, consegnando le relative dichiarazioni alla Francia e alla Gran Bretagna, in mezzo a quella folla tumultuosa, entusiasta e non già, come poi una vulgata menzognera ha cercato di far credere, preoccupata e angustiata, c’era anche un giovane ufficiale dell’esercito argentino, venuto nel nostro Paese per frequentare dei corsi di addestramento alla guerra di montagna, pieno d’entusiasmo verso il Duce e il fascismo: il futuro capo carismatico del movimento giustizialista e futuro presidente del suo Paese, Juan Domingo Perón.
Ne abbiamo già parlato altre volte: è falso che il popolo italiano abbia appreso con costernazione la dichiarazione di guerra ed è falso che le forze armate abbiano mostrato un entusiasmo assai inferiore a quello del 1915. È vero semmai il contrario: che nel 1915 ci furono migliaia di casi di renitenza alla leva e di auto-mutilazioni, tanto che alcune regioni isolate, specie al Sud e nelle isole, erano divenute zone di rifugio per vaste bande di disertori, ove le forze dell’ordine non osavano nemmeno farsi vedere; fenomeno che non ci fu affatto nel 1940, come non ci furono le auto-mutilazioni diffuse allo scopo di sottrarsi alla chiamata alle armi ed evitare d’esser spediti al fronte, in una guerra che i contadini-soldati non capivano e della quale sfuggivano loro le reali motivazioni. E questo, se la storia si fa coi fatti e i dati oggettivi e non con le chiacchiere, la retorica e il senno del poi, del quale sono piene le fosse, vorrà pur dire qualcosa: che piaccia o non piaccia agli storici progressisti e specialmente a quelli di area marxista, impegnati da oltre settant’anni nella titanica fatica di tenere in piedi un castello di menzogne. Un castello secondo il quale non c’era un italiano che in cuor suo avesse realmente accettato il regime fascista, né ce n’era uno che accolse con entusiasmo l’annuncio dell’entrata in guerra, ma anzi erano tutti, più o meno, desiderosi di assistere ai primi rovesci per insorgere contro il regime, riconquistando così l’agognata libertà, vale a dire lo scalcinato, clientelare e inefficiente sistema parlamentare al quale il fascismo aveva reagito, e che neppure le altre forze d’opposizione, cattolici, socialisti e comunisti, avevano mai amato, salvo provare un improvviso trasporto per esso nel 1924, con l’Aventino, sperando di usalo, sabotandolo, per far crollare il detestato regime. Detestato da loro, i parlamentari e alcune centinaia di attivisti politici, non dalla maggioranza dei quaranta milioni d’italiani che invece lo avevano accettato, se non altro perché aveva consentito il ritorno all’ordine e alla pace sociale, ma in molti casi lo avevano apprezzato per le coraggiose riforme, mai osate dai governi liberali.
Ma torniamo a Perón. Non è questa la sede per approfondire le radici italiane e fasciste del suo movimento giustizialista: ma è un fatto che tali radici esistono, eccome, visto che dal 1939 al 1943 egli era in viaggio nei Paesi dell’Asse (e al tempo del patto Molotov-Ribbentrop, anche nell’Unione Sovietica, presso l’Armata Rossa) e si trattenne specialmente in Italia, per frequentare la scuola di guerra alpina: prima di essere spedito da noi, aveva svolto una missione di spionaggio in Cile: e il teatro di un eventuale conflitto fra i due Pesi sudamericani del Cono Sud sarebbe stato, evidentemente, la cordigliera andina. Anche fra i militari di carriera e gli intellettuali nazionalisti dell’Egitto e del Medio Oriente il fascismo (e il nazismo) esercitò una notevole influenza negli anni ’20 e ’30 del Novecento, fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale e oltre. Anche se al termine di essa è divenuto politicamente molto scorretto ricordarlo, invero più in Italia, affetta da un antifascismo permanente in assenza di fascismo, che presso gli esponenti del mondo arabo, fra i quali semmai c’è stata una presa di distanza dal nazismo, non si sa quanto sincera, a motivo dell’Olocausto (vedi i nostri articoli Quando Hitler voleva assegnare l’Egitto all’Italia e Quando Sadat attendeva Rommel con impazienza, pubblicati suo sito dell’Accademia Nuova Italia rispettivamente il 18/09/19 e l’01/10/19). Oppure, restando sempre nell’ambito latino-americano, è evidente che la figura e l’opera di Mussolini esercitarono un notevole influsso politico sia sul pensiero del presidente brasiliano Getulio Vargas, sia soprattutto su quello di Plinio Salgado (vedi ancora il nostro articolo: Piaccia o no, l’integralismo di Salgado fu il primo movimento di massa della storia brasiliana pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 16/08/11 e poi su quello dell’Accademia Nuova Italia il 12/12/17).
Citiamo ora una pagina della giornalista e saggista ebrea argentina Alicia Dujovne Ortiz (nata a Buenos Aires nel 1940, trasferitasi a Parigi nel 1978 dopo il colpo di stato militare) tratta dalla sua biografia Evita. Un mito del nostro secolo (titolo originale: Eva Perón, Paris, Éditions Grasset & Fasquelle, 1995; traduzione dal francese di Marianna Basile e Federica Peressotti, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1996, pp. 81-83):
Infine, nel 1939, dopo essere salito ancora di qualche grado, parte per l’Italia.
Evita deve aver sicuramente visto una fotografia che lo mostra come sciatore del 14° reggimento di montagna a Chieti. La foto ha qualcosa di comico: lo si vede in pantaloni alla zuava, grosse calze di lana e in testa un berretto con la visiera (prefigurazione del celebre berretto che porterà più tardi, dopo la morte di Eva, quando si farà chiamare "Pochito" dalle giovani studentesse e potrà permettersi di mostrare pubblicamente un’immagine di sé che fino ad allora aveva accuratamente tenuto nascosta). L’uomo della fotografia è un atleta sorridente, pieno di energia, ma con qualcosa che suona falso; come un travestimento. È l’influenza dell’Italia a farlo sembrare così simile ad Alberto Sordi o si tratta semplicemente dell’atteggiamento fisico e psicologico di un uomo che, libero da ogni obbligo in terra straniera, può finalmente mostrarsi come nel suo paese non ha ancora mai osato?
Comunque fosse, Perón, da poco vedovo e inviato in Europa dal ministro della Guerra per studiare la situazione nei confronti della guerra annunciata, trascorre in Italia giorni felici. Era affascinato da Mussolini e dal fascismo, che considerava come l’esperienza sociale più straordinaria e più rivoluzionaria della storia. E come sapevano farsi obbedire i fascisti! Che magnifica autorità! Nel 1965 Perón dirà al giornalista e scrittore Eduardo Galeano, citato da Juan José Sebreli: «Manipolare gli uomini è una tecnica, la tecnica del leader. Una tecnica, un’arte di precisione militare. L’ho imparato in Italia nel 1940: caspita! Quelli sì che sapevano comandare!». Ammirava anche Hitler e aveva letto e riletto "Mein Kampf". L’ordine perfetto del nazismo tedesco lo affascinava altrettanto, e più tardi si rammaricherà, come molti peronisti (citiamo a titolo d’esempio l’ex ministro Alberto Rocamora nel corso di un’intervista con l’autrice di questo libro), solo di certi "eccessi" commessi nei campi.
E poiché parlava un italiano perfetto, aveva scelto l’Italia invece della Germania. Voleva immergersi nella folla, parlare con la gente,condivide il loto grande entusiasmo per quel nuovo periodo stimolante che avrebbe cambiato il mondo. Ah, il popolo italiano, così simile al quello argentino, che nel 1940 seguiva con esaltazione i preparativi del Duce per poter entrare alla grande, vittoriosamente, nel conflitto mondiale! Il giorno in cui Mussolini annunciò da lassù, dal balcone di palazzo Venezia, la decisione di entrare in guerra, Perón si confondeva nella massa unta e calorosa che piangeva di gioia. Il suo fervore era tale che, malgrado la repulsione per il contatto fisico — era un uomo gioviale che volentieri dava una pacca sulle spalle ma che non si lasciava mai toccare -, abbracciò gli operai sani e forti, dagli occhi pieni di sole e dal profumo di olio d’oliva. Il suo sogno di un’Argentina forte e sana che riprendesse la fiaccola della "terza posizione" cominciò allora, quel giorno stesso. (Perón non ha forse detto nel 1968 di fronte allo storico Felix Luna: «Di fronte a un mondo diviso fra due imperialismi, gli italiani rispondevano: noi non stiamo né con gli uni né con gli altri, noi rappresentiamo una terza posizione fra il socialismo sovietico e l’imperialismo yankee»? Occorreva forse cercare più lontano le origini dell’espressione "terza posizione", diventata la definizione stessa del peronismo?
Un sogno uscito dal sentimento. Perché, a dispetto della freddezza sentimentale di Perón e del suo machiavellismo di ex cacciatore di "guanacos", non si potrebbe ignorare la realtà di quel sentimento a cui è rimasto fedele: il sentimento di adesione al fascismo. Infornandolo della morte di Mussolini, il giornalista Valentín Thiébault disse a Perón: «Un giorno bisognerà fargli un monumento». E Perón gli rispose con un fervore insolito: «Un monumento solo? Se mai una statua a ogni angolo di strada». Ha veramente incontrato Mussolini, come ha più volte sostenuto, oppure il suo desiderio di vederlo da vicino era così intenso da indurlo a crederci? Perón e Mussolini hanno davvero avuto un colloquio privato il 3 luglio 1940? E Perón l’ha veramente salutato con il saluto fascista? È il desiderio che conta: vero o falso che fosse, quel gesto ha abitato l’immaginario di Perón. L’unica sincerità di Perón risiede in una storia che forse non è mai esistita.
Era stato nominato comandante ausiliario straniero della divisione alpina "Tridentina" e della divisione di fanteria di montagna "Pinerolo". Si era dedicato a rafforzare i propri muscoli con un rigore maniacale, consumando energia in esercizi esaltanti, di quelli che lavano il cervello e rasserenano l’anima. Lo inebriavano i canti di montagna rudi e salutari, allegramente virili, e la neve pura in cui le ambiguità della sua infanzia scomparivamo come un rutto sogno: sulla montagna bianca la natura tutta intera era come una divisa ben stirata. Aveva imparato i segreti della guerra di montagna alla scuola di alpinismo di Aosta e alla scuola di sci di Sestrière. Poi, a Torino, aveva seguito corsi di scienze teoriche e, a Milano, di scienze applicate. È qui che infine aveva capito tutto: il capitalismo e il comunismo erano cosmopoliti. La novità vera era il nazionalsocialismo. Aveva scoperto il funzionamento interno e le trappole dell’economia capitalista, i metodi della presa del potere: sindacalismo e propaganda. Poco prima che scoppiasse la guerra aveva preso il treno per Berlino. Gli ufficiali della Wehrmacht l’avevano accolto con cortesia. Aveva trovato conferma alla sua idea di un popolo tedesco lavoratore, compatto intorno al suo Führer.
Fatta la tara a qualche eccesso retorico, come gli operai sani e forti, dagli occhi pieni di sole e dal profumo di olio d’oliva, che l’autrice avrebbe potuto risparmiarsi e risparmiarci (peraltro inconsueti nella sua prosa, di solito così misurata: si vede che qualcosa è risuonato anche nel suo animo e non solo in quello di Perón), ci sembra che la sua ricostruzione dell’adunata del 10 giugno a Piazza Venezia sia più vicina al vero di quella che ci hanno tramandato, nell’arco di quasi otto decenni, i nobili cultori del politicamente corretto, debitamente antifascisti e ancora e sempre antifascisti (anche se Mussolini è morto il 28 aprile del 1945 e il fascismo, ch’era una sua creazione, è morto insieme a lui). Così radicalmente e irriducibilmente antifascisti che ancora nell’anno di grazia 2022, cioè in piena dittatura sanitaria imposta dai padroni della grande finanza, costoro non sanno far di meglio che levare alte stride contro il fascismo, colpevole del (simulato) assalto devastatore contro la sede della CGIL romana, e correre a mettersi sotto la protezione del campione della democrazia, cioè il capo del governo che ha imposto e che incarna tale dittatura, uomo telecomandato dalla grande finanza e al quale nulla può importare di meno che il principio delle libertà democratiche o della sovranità popolare.
Quanto a Perón, qualunque giudizio si voglia dare su di lui e sulla sua opera, è indubbio che egli fu un ardente ammiratore del fascismo e che Mussolini fu per lui un modello insuperato e insuperabile, tanto è vero che lo antepose allo stesso Hitler (nulla di strano in questo, a ben guardare, visto che Hitler medesimo aveva un’identica opinione sul Duce, del quale si ritenne sempre un devoto discepolo; anche se nella sua dura cervice di tedesco, anzi di austriaco pentito d’esser tale, forse non gli erano ben chiare le differenze). Sì, lo sappiamo: per noi italiani d’oggi, indottrinati e addestrati da quasi ottant’anni a detestare noi stessi e a disprezzare il nostro passato, è motivo d’imbarazzo il fatto che il fascismo, creazione di Mussolini e dunque creazione tutta italiana, a un certo punto sia apparso a molti leader e a molti popoli come la benedetta "terza via" fra capitalismo di rapina e bolscevismo concentrazionario; che uomini di Paesi lontani, innamorati della propria patria ma anche assetati di giustizia sociale, abbiano guardato all’Italia di Mussolini come al faro luminoso che squarcia le tenebre della notte. La guerra fredda prima, l’egemonia incontrastata del grande capitale finanziario poi (che è stato il vero vincitore dei quel lungo confronto), ci hanno assuefatti all’idea che nessun’altra ideologia e nessun altro sistema di governo ha uno straccio di legittimità, al di fuori di quelli che hanno dominato la politica mondiale dopo il 1945. Ma questo è tutto da vedere.
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