Come ha fatto una barca a trovare la strada di casa?
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8 Febbraio 2022Ci siamo interrogati molte volte sulle cause del declino dell’intelligenza e del buon senso che ci ha condotti nella presente situazione, vittime acquiescenti di un piano globale di controllo e sottomissione della popolazione che avrebbe dovuto apparire chiaro ed evidente sin dai primi giorni, e invece, a due anni di distanza, procede quasi indisturbato secondo l’agenda prestabilita, grazie al consenso o quantomeno alla passività e alla rassegnazione della stragrande maggioranza della gente. Abbiamo individuato le cause di ciò nel controllo esercitato progressivamente sui mass-media da parte dei padroni della grande finanza; controllo che poi si è esteso anche alla scuola pubblica e all’università, alle maggiori case editrici e alle principali istituzioni culturali. Ma non basta ancora: per giungere a una distruzione così efficace della sana ragione naturale e del senso comune, al punto che la gente non sa più distinguere il vero dal falso e il buono dal malvagio, neppure quando le cose sono sufficientemente chiare per vederle, bisognava che alla televisione, alla stampa, al cinema, alla scuola e all’università si unissero anche i gusti e le preferenze personali, i libri che le persone leggono per proprio diletto o per propria istruzione, le conferenze a cui partecipano spontaneamente, insomma tutto l’insieme delle scelte culturali individuali, fatte in condizioni di relativa libertà rispetto alla pressione dei mass-media e delle istituzioni scolastiche e culturali "ufficiali". In breve, era necessario che anche la contro-cultura entrasse nella strategia della distruzione; e che le persone, credendo di andare contro corrente, andassero in realtà esattamente nella direzione desiderata e predisposta dai padroni occulti del mondo. Proprio come accadeva e tuttora accade con la musica leggera, lo spettacolo, l’abbigliamento, la discoteca e l’impiego del proprio tempo libero, le vacanze in particolare: se la gente fa quello che desidera il potere, senza rendersene conto e anzi credendo di esercitare una forma di trasgressione, allora la distruzione delle facoltà critiche è perfetta, e il cosiddetto popolo sovrano altro non è ormai che un gregge di pecore.
Si tratta perciò di individuare i falsi maestri che hanno contribuito all’istupidimento delle masse, specialmente negli anni di follia esplosi attorno al ’68, e proseguiti poi sull’onda di quella sedicente rivoluzione. C’è solo l’imbarazzo della scelta: perché tutti gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti che erano stati gonfiati oltremisura dal sistema culturale dominante, avevano potuto esercitare il loro pessimo influsso sulla gente muovendosi praticamente in una situazione di monopolio dello spazio culturale, vale a dire in assenza di qualunque seria alternativa. In altre parole, milioni di persone e specialmente di giovani, se per caso sfuggivano al condizionamento e al lavaggio del cervello esercitato congiuntamente dal cinema, dalla televisione, dai giornali, e poi anche dalla scuola e dall’università, non avevano quasi nessuna probabilità di sfuggire a quello, più insidioso perché dissimulato, e anzi addirittura spacciato per trasgressivo, degli intellettuali, degli scrittori e degli artisti che in apparenza stavano dall’altra parte della barricata, però in effetti spingevano il pubblico a pensare (o meglio a non pensare), ad agire e a vivere come voleva e vuole il potere. Per fare un esempio: i padroni della grande finanza hanno sempre odiato, e odiano, la famiglia naturale, perché vedevano e vedono in essa il maggiore ostacolo ai loro piani di controllo e di sottomissione globale. Ebbene: la famiglia è stata sistematicamente attaccata, denigrata, vituperata, calunniata, derisa, da uno stuolo innumerevole di intellettuali, scrittori e artisti, sicché un paio di generazioni di persone è cresciuta respirando tali calunnie e tale derisione e ha finito per introiettarle anche se personalmente non ha vissuto esperienze negative all’interno della propria famiglia né aveva motivo di lamentarsi dei propri genitori. Ma se decine e centinaia di intellettuali, scrittori, artisti, nonché di film e programmi televisivi e infine anche di professori di liceo e di università, dicono e ripetono che la famiglia è un luogo orribile, una stanza della tortura, uno schifo che andrebbe abolito, i giovani, i futuri adulti della società, nella grande maggioranza ci credono. La stessa cosa è accaduta per tutti i valori fondamentali sui quali si regge la società, e con identico risultato.
Tra i filosofi che andavano per la maggiore, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, fra i giovani che si sentivano e volevano essere alternativi rispetto al sistema, un posto ragguardevole è stato occupato da Sartre, Marcuse e dalla Scuola di Francoforte, a "sinistra"; e da Evola, Guénon e naturalmente Heidegger, a "destra" (mettiamo questi termini fra virgolette perché a partire da quegli anni destra e sinistra hanno cominciato a non rivestire più un significato ideologico, e a funzionare come specchietti per le allodole, vale a dire come procacciatori di clienti per il sistema del consumismo culturale). Però coltivare la filosofia, e sia pure una filosofia mutilata e degradata come quella di simili autori, richiede pur sempre un certo sforzo di concentrazione e di razionalità; tanto è vero che molti si dicevano e si dicono seguaci di questo o quel pensatore ma in realtà non si sono mai presi la briga di leggerlo e studiarlo seriamente. Per i giovani dalla razionalità più debole e dai gusti meno esigenti, ma soprattutto più inclini a un certo sentimentalismo condito di esotismo e di primitivismo, l’ideale non erano le letture filosofiche, bensì quelle mistiche, o supposte tali, specie se condite di un facile esoterismo e permeate da una vaga e carezzevole spiritualità, capace di abbracciare tutto e spiegare tutto. Insomma, per un gran numero di lettori i "mattoni" di Heidegger o di Sartre sono troppo pesanti da digerire, per non parlare di quelli dei super-maestri, Marx o Nietzsche, o lo stesso Freud; meglio affidarsi a dei maestri meno severi sul piano intellettuale e più dolci, più accoglienti, e al tempo stesso più ecumenici, e in apparenza perfino più profondi, perché non limitati alla sfera del pensiero razionale, ma aperti alla totalità della coscienza, dei suoi fenomeni e dei suoi bisogni. Ed ecco allora i sedicenti maestri spirituali: ecco Paramahansa Yogananda, ecco Losbang Rampa e Carlos Castaneda; e sullo sfondo, si capisce, l’immancabile Madame Blavatsky e l’onnipresente Rudolf Steiner.
Del primo abbiamo già detto qualcosa; del secondo, che alla fine si è scoperto essere non un lama tibetano ma inglese, figlio di un idraulico, possiamo solo dire che in fondo è il migliore, purché si leggano i suoi libri come romanzi d’avventura e non come testi iniziatici; il terzo è quello che forse ha avuto il maggior successo di pubblico, ma che meno di tutti lo avrebbe meritato, per la trita banalità delle sue perle di saggezza e delle sue pretese rivelazioni supernormali. Tralasciamo altri sedicenti maestri, come Bhagwan Shree Rajneesh, più tardi noto come Osho, quello che insegnava il distacco e intanto si era comprato un parco di decine di Rolls-Royce d’epoca; o delle cosiddette signore del channeling, portatrici di preziose rivelazioni dalle dimensioni sottili; nonché delle svariate entità che si manifestano nelle sedute spiritiche ai loro affezionati evocatori, come quelli che hanno pubblicato una serie di libri firmandosi "Il Cerchio Firenze 77". Se volessimo ricordarli tutti, ci vorrebbe una vita; ma il panorama che offrono è di una tale pochezza e banalità, che non ne vale quasi mai la pena.
Castaneda, dunque: il sedicente antropologo dalla biografia elusiva, che ha riscosso un successo strepitoso e si è conquistato milioni di fan e ammiratori sfornando una quantità di libri-paccottiglia, diretti precursori e ispiratori di altri autori, ancor più banali e dozzinali, come James Redfield con la La decima illuminazione, o come Gary Zukav, con Una sedia per l’anima. Ma chi è dunque Castaneda? Un mistero, un enigma, un indovinello; e non solo lui, ma anche e soprattutto i suoi insegnamenti che afferma di aver ricevuto da uno stregone yaqui del Messico, un tale don Juan, della cui esistenza è più che lecito dubitare, così come è lecito dubitare di ogni altra cosa quando si parla di lui. Ma in fondo, dicono i suoi difensori e i suoi estimatori, non ha importanza se don Juan esiste davvero, e così pure gli altri stregoni e maestri misteriosi del misterioso Carlos Castaneda: quello che conta è il suo insegnamento, e lì ci sono tante cose buone, tante cose che fanno riflettere, tante cose che aiutano a scendere sempre di più nelle profondità di se stessi, e a risalirne purificati. Davvero? Noi non abbiamo avuto questa felice impressione, leggendo, peraltro con estrema fatica, i noiosissimi libri di Castaneda, il cui stile letterario è contraddistinto da una esasperante monotonia, unita a una imperturbabile petulanza e pretenziosità dei dialoghi, e da un’estrema genericità di contenuti, tali da poter soddisfare la "domanda" più ampia e variegata; eppure ogni volta che apre bocca pare faccia dono di pietre preziose d’inestimabile valore, anche se a noi sono sembrati sassi e ciottoli di fiume simili a tutti gli altri che a milioni, a miliardi, si possono raccogliere sulla riva, senza alcuna fatica, quando non si ha nulla di meglio da fare.
Uno degli studiosi che hanno preso sul serio Carlos Castaneda e la sua opera – pur notando la stranezza di uno stregone indio che parla come Heidegger, o Dilthey, o Kierkegaard – forse più di quanto avrebbe meritato, è stato il saggista e germanista Furio Jesi (Torino, 1941-Genova, 1980) che nella sua Introduzione al libro di Castaneda, del quale è stato anche il traduttore, L’isola del Tonal, si è espresso in questi termini (titolo originale: Tales of Power, 1974; Milano, Rizzoli, 1978, 1994, pp. 6-9):
Nella grande maggioranza dei casi, e fin dai primordi del’etnologia o dell’etnografia moderne, lo studioso si è accostato alle credenze e alle esperienze esoteriche dei cosiddetti "primitivi" con l’intenzione più o meno esplicita (particolarmente esplicita in tempi recenti) di conoscere gli aspetti più segreti di forme di vita collettiva diverse da quelle europee, e spesso con il proposito o la speranza di contribuire così ad una sorta di rigenerazione della società del PROPRIO gruppo, alla scoperta o riscoperta di potenzialità umane latenti, la cui conoscenza contribuisce a liberare o arricchire la coscienza di animale sociale PROPRIA e dei membri della PROPRIA collettività. Qui, invece, quanto più Castaneda si inoltra nel suo apprendistato, si ha l’impressione che egli ritrovi come in uno specchio, nelle dottrine e nelle pratiche dei suoi stregoni, la caratteristica asocialità degli esoteristi europei, il loro individualismo esclusivo, la loro povertà di sensi di solidarietà umana di gruppo, la loro apologia del POTERE personale. Questa impressione è poi confermata da particolari non trascurabili, da coincidenze di dottrina apparentemente sconcertanti. Ci si trova di fronte, insomma, a uno stregone indio che parla come un discepolo di Heidegger: «Il sapere è una farfalla notturna…», «Le farfalle notturne sono i messaggeri o, meglio ancora, i custodi dell’eternità…»; come un imitatore di Kierkegaard, si compiace di dichiararsi un ingannatore del proprio apprendista e dice: «Io non sono un maestro…»; come un seguace di Dilthey, che ricorre di continuo all’espressione "descrizione del mondo" ("description of the world") — o anche "modo di conoscere il mondo" ("knowledge of the world") -, di là dal quale si avverte immediatamente l’eco di "Weltanschauung".
Cosa può significare tutto questo? Subito, viene spontaneo pensare che Castaneda sia andato in cerca soltanto di quello che aveva già trovato, che abbia imparato soltanto quello che sapeva già, che, in altre parole, sia stato talmente condizionato dalla sua realtà storica di uomo "civile" del XX secolo da perdere anni di apprendistato presso lo stregone soltanto per riflettere nella sua nuova esperienza la condizione di partenza, e riconfermare — in buona o in mala fede — la PROPRIA asocialità tendenziale, il PROPRIO tendenziale gusto del potere personale, mediante quello che di fatto ne era soltanto il riflesso.
Non si può non tener conto di questa possibilità, che oltretutto concorderebbe con quanto più volte è risultato dalle riflessioni metodologiche sul limitato margine di conoscibilità delle culture "primitive" da parte dell’osservatore etnologo (quand’anche quest’ultimo apparentemente sia riuscito a inserirsi abbastanza bene entro il gruppo osservato). Questa possibilità va però confrontata con un dato oggettivo che rende, appunto, particolarmente sconcertante la vicenda di Castaneda. Infatti, a meno di voler negare a priori qualsiasi oggettività al protocollo di Castaneda (vi sono anche ragioni per farlo), la presunta predisposizione dell’etnologo ad essere, più o meno inconsciamente, uomo "civile" del XX secolo fino al fondo delle sue esperienze di "apprenti sorcier"e a modellarle tutte (a deformarle) in base ai propri parametri, avrebbe trovato in questo caso una controparte "primitiva" eccezionalmente propizia, comoda, tale addirittura da poter essere spesso accettata secondo quei parametri senza sostanziali deformazioni.
È veramente così? Castaneda ha veramente trovato uno stregone indio che, per sue particolari e personali ragioni, era l’istruttore ideale di un etnologo? (ideale, nella misura in cui, trovandosi egli stesso, lo segone, in condizioni analoghe a quelle degli esoteristi occidentali, poteva trasmettere le sue conoscenze all’etnologo, almeno istradare l’etnologo verso il suo esoterismo, con un minimo di barriere tra"primitivo" e "civile"). È probabile che si debba rispondere al tempo stesso sì e no. È probabile cioè che, da un lato, lo stregone o gli stregoni presso i quali svolse il suo apprendistato si tirassero oggettivamente in una situazione di asocialità relativamente favorevole alla recezione da parte dell’etnologo, e, dall’altro, che nel rapporto fra Castaneda e i suoi istruttori sia intervenuto un inganno, un "trick". (…)
L’indio don Juan sembra essere riuscito a recuperare una forma di "potere", che è congiunta a "sapere", al "sognare", al "VEDERE", e sembra esservi riuscito in virtù di un processo che assomiglia molto a quello per cui l’intellettuale"civile" moderno — Walter Benjamin insegna — ha valorizzati, scoperto, o riscoperto, un’AURA, una "veggenza", un "sapere" esoterico, una "illuminazione", tali da offrire alla sua interiorità uno spazio di sopravvivenza, un "potere" AURATICO, al riparo del potere politico privo AURA, ma anche in intimo conflitto con esso.
Dunque, secondo questa interpretazione, don Juan sarebbe l’equivalente di un trickster, di un "imbroglione" dei racconti mitici, vale a dire uno che inganna, sì, ma il cui inganno, alla fine, si rivela utile, e sia pure indirettamente, per il progresso spirituale dell’iniziato. E non solo la figura di don Juan, ma anche quella di Castaneda potrebbe essere vista come quella di uno scaltro e malizioso trickster, che si diverte a giocare con noi, e intanto ci conduce, senza che ce ne rendiamo conto, sulla strada della verità. Ma è proprio questo il punto: quale verità? A noi pare che ce ne sia ben poca, nelle pagine di questo autore sopravvalutato fino all’inverosimile: la sua "saggezza", stregoni yaqui o meno, e trickster o meno trickster, non oltrepassa le pie banalità da Baci Perugina che tanto piacciono a un pubblico grossolano, come quello americano medio, che a parole cerca di staccarsi dalle pastoie del materialismo, ma in pratica non è disposto a fare un serio percorso personale e pretende una guida che lo conduca sulle spalle, o meglio ancora in automobile, direttamente alla meta, senza fare alcuna fatica.
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